Grande abbuffata (La) - Grande bouffe (La)
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Regia: | Ferreri Marco |
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Cast e credits: |
Soggetto: Marco Ferreri; sceneggiatura: Marco Ferreri, Rafael Azcona; fotografia: Mario Vulpiani; scenografia: Michel De Broin; costumi: Gitt Magrini; pietanze: Fauchon, Parigi (assistente gastronomo: Giuseppe Maffioli assistito da Jacques Quellennec); musica: Philippe Sarde (assolo al piano Michel Piccoli); montaggio: (Ruggero Mastroianni), Amedeo Salfa, Claudine Marlin, Gina Pignier; interpreti: Marcello Mastroianni (Marcello), Ugo Tognazzi (Ugo), Michel Piccoli (Michel), Philippe Noiret (Philippe), Andréa Ferréol (Andréa); produzione: (Alain Coiffier, Jean-Pierre Rassam), Edmondo Amati per Mara Films (Parigi)/Les Films 66 (Parigi)/Capitolina Produzioni Cinematografiche (Roma); origine: Francia-Italia, 1973; durata: 123'. |
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Trama: | Ugo cuoco, Michel produttore televisivo, Marcello pilota, Philippe magistrato, sono amici e membri di un ristretto club di buongustai. Per un week-end gastronomico essi raggiungono la fatiscente villa di Philippe ove un tempo soggiornò Boileau. Mentre iniziano i lauti pasti, Marcello fa giungere tre prostitute che, tuttavia, se ne vanno non appena s'avvedono dell'indifferenza ed estrema banalità degli ospiti. Solo Andrea, una maestra che ha condotto gli alunni ad ammirare il "tiglio di Boileau" accetta l'invito di tornare alla villa per tutta la durata della tragedia... |
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Critica (1): | [...] Partiamo dalla fine, che è una delle immagini più dense di tutto il cinema di Ferreri: vi si osservano, atterriti, carne viva e carne morta, cani gironzolanti e ululanti da lupi, quarti di vitello poggiati su alberi spogli o per terra, mentre la Donna è rientrata nella vecchia villa borghese e il giardino è deserto di presenza umana, dopo che vi è crollato Michel divorando seni dolci sotto l’albero di Boileau. [...] Da questa scena si può risalire al resto, poiché essa ci dà, nella sua sintetica allucinata lucidità, il suo senso più vero: la morte della civiltà borghese, eminentemente maschile; la casa deserta abitata dalla donna, ma intorno, nello strazio degli animali sacrificali, nuovi animali predaci; e lontano un Terzo Mondo in agguato. Per far mangiare il purée a Michel gli era stato detto, e era servito: “Immagina di essere un bambino di Bombay”. La Donna, come presenza mitica ed estranea, superiore, e la Fame come spettro non più di un passato comune, ché i quattro suicidi l’hanno dimenticata da un pezzo se mai l’hanno sofferta, ma di una realtà circostante e minacciante. A queste due ossessioni ferreriane, cosa risponde stavolta il regista? Spinge i suoi borghesi tragici – poiché se c’è coerenza nel perseguimento della morte, nella consapevolezza della scelta suicida, nella volontà di soluzione di una contraddizione vissuta come insanabile, c’è tragedia, e se la spinta è d’angosciata desolazione, non importa il modo come questa si sviluppa, purché esso sia conforme alla presa di coscienza della impossibilità della tragedia (della serietà della tragedia), quale miglior scelta di quella della più paradossale e grottesca, ma rivelatrice, delle morti? – al rifiuto del sesso ma in presenza del sesso che non hanno saputo affrontare, e all’abbuffata in assenza (anche se un cinese fa capolino) di chi oggi rappresenta e vive la quotidianità “banale” tragedia della scarsità e della fame. Sono questi i due poli che ossessionano l’opulento Ferreri, ma depurati (e ingranditi castissimamente) da ogni scoria contingente. I suoi quattro sono indiscutibilmente quattro borghesi perbene, [...] uniti nella stessa nausea del consumo e decisi a morire della stessa nausea. Il paradosso è quello dell’impotenza ad afferrare la vita, ad assumere con essa un rapporto produttivo, adulto (cioè rivoluzionario), e la noia della maschera della vita, delle sue consolazioni apparenti che vengono risolte dai quattro nella soluzione dell’abbuffata. Mangiare (come sostituzione alla non-pienezza di un rapporto con la vita: sessuale come politico-morale: e qui è lo stesso). Mangiare per portare fino allo scandalo (pur se esso vale solo per chi lo provoca, e non ha spettatori) la mistificazione che il mangiare come sostituzione rappresenta. Mangiare fino a scoppiarne. Quando, dopo i primi “assaggi”, rispuntano nella monastica comunità culinaria dei quattro le vecchie sostituzioni secondo una inveterata incapacità di rigore – e sono le ansie sentimentali del giudice, la musica e danza per Michel, le donne e i motori per Marcello, mentre il più semplice Ugo ha definitivamente rinunciato a quello che era forse il suo hobby, il denaro, egli ha scelto per sempre il suo infantile rinvio fecale – la possibilità che esse risultino tentazioni tali da allontanare dal loro fine questi nuovi anacoreti al contrario s’avvera così piccola da venire rapidamente abbandonata. Le puttane, per esempio, schifiltose e pallide, non possono accettare che il gioco abbia una posta e che questa sia la morte, e fuggono. Resta Andréa la maestrina, spettatrice benché salutarmente partecipe dei piaceri quasi calvinisticamente odiosamati dei quattro – il sesso e il cibo. La divide dai quattro il suo godere veramente, e la sua altrettanto vera carica di comprensione e compassione. Ma ha anche netta coscienza della giustezza di questo suicidio, e quindi non si commuove a vuoto, non si ritrae di fronte al ruolo che le si chiede di assolvere, e che è quello di accompagnatrice alla morte. Questa funzione ella l’assolverà con dignità, piena di simpatia, da perfetta madrina di un rito di passaggio. Se si confronta la cicciona di Ferreri con quelle oscene di Fellini, il confronto è troppo facile. Ma si prenda allora la cicciona di Bergman (Sussurri e grida), anch’essa chiamata ad assistere i morituri nel punto finale. La “naturalezza” di quella era mera sostituzione materna, vocazione materna, e si muoveva secondo l’arco naturale del “ritorno al grembo materno”. Certo, era il calore del corpo che essa offriva, ma un corpo ferale tuttora protestante. L’Andréa di Ferreri è anche questo, certo, ma è soprattutto altro. L’accento non è sulla mamma, ma sulla donna (e in quanto tale anche mamma), e in quanto tale anche altro che si pone come altro pur nella comprensione dell’altro. Per Ferreri i suoi appetiti naturali sono appunto naturali, mentre quelli dei quattro sono artificiosi, falsificati da ruoli sociali falsi come da responsabiità sociali non assolte, e pertanto vivendo come colpa quest’inadempienza. Tutto questo ella sembra saperlo da sempre più che scoprirlo, e sembra che il compito che attribuisce a se stessa di render più gradevoli gli ultimi tempi, sia però soprattutto quello di ricordare inflessibilmente ai quattro il loro programma come momento mori, ma anche di far loro capire cosa vuol dire, cosa può voler veramente dire “mangiare” e “fare l’amore”. Che in questo sia anche un po’ mamma, non è altro che la conseguenza di una proiezione incestuosa che sembra a Ferreri esser comunque attribuibile, sul fondo, a ogni rapporto con la donna. Ma quale che sia il nostro giudizio su questa sua visione, la scommessa che Ferreri dunque vince con baldanza è il controllo di una materia così azzardosa e crudele, è proprio quella di reggere a tanto progetto senza l’ausilio di una rigida sceneggiatura, con la chiarezza dello scopo e dei suoi termini anche quando non del tutto controllabili coscientemente. Si è fidato del suo inconscio, che ci sembra portarsi oggi meglio di una volta. [...]
Goffredo Fofi, Capire con il cinema, Feltrinelli 1977 |
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Critica (2): | La grande abbuffata ci riporta ai grandi temi ferreriani dell'isolamento, della morte, della dittatura dell'oggetto (erotico o materiale che sia, rudimentale o perfezionato al limite delle possibilità), della cucina, dell'erotismo, della fuga interrotta, della degradazione/regressione. Presenze tematiche esasperate nella loro continuità ininterrottamente esibita sullo schermo e sottolineate in senso paradossalmente materialistico da una macchina da presa che si trasforma veramente in demiurgo nei confronti della realtà (anche quella strettamente filmica o della immaginazione filmica). (...) Tutto ciò è reperibile, per esempio, nella sottolineatura di una sorta di "rovesciamento dei valori", e non piú, e non solo, nella linea di una "abolizione dei valori" che era stata per lo piú caratteristica nei film di Marco Ferreri. In tal modo si può cogliere con sufficiente certezza il capovolgimento nella inversione di senso che assumono alcune unità tematiche ferreriane in La grande abbuffata: l'isolamento come scelta determinata coscientemente e sorretta da una sicura inevitabile coerenza culturale, e non piú imposta dall'esterno e magari falsamente recuperata per autodifesa; la morte come decisione consapevole anche nel senso di un suo sensibile "avvicinamento " e conseguimento; l'oggetto recuperato e ricostituito in una dimensione per lo piú rassicurante; la cucina riassunta come luogo delle trasformazioni non piú ostilmente aberranti, ma inevitabilmente accolte nella loro "necessità" favorita ed esasperata come scongiuro e come esorcismo; la fuga interrotta come riappropriazione del blocco prescelto e realizzato, fondato anche nella dimensione di una sua affermazione nella materialità fenomenica; la degradazione,/regressione come segno positivo di un accostamento della fine. (...) Una "lordura" che viene ricercata ed esibita dai protagonisti di questo film. I quali, non a caso, sono o intellettuali (custodi e ancelle del "coperchio di lordura") o sono la controparte effimera, la manifestazione " pratica " di una esistenza fondata sul riconoscimento dei modelli e dei miti di una cultura fasulla e di una organizzazione socio-economica repellente: quindi da rifiutare. Ad ogni modo si configurano come emblemi: e questa è senz'altro una "debolezza" del film, nel senso che favoriscono la sua riduzione ad apologo astratto e fortemente ideologizzato (e percorso da plurali suggestioni ideologiche e culturali non sempre armonizzate e coerenti). I quattro "gentiluomini" amici che si rinchiudono in una villa alla periferia di Parigi per "morire mangiando" - aiutati nel loro difficile percorso (che prevede anche una raffinata messa in scena dello spazio del dissolvimento e la teatralità del conseguimento della affermazione della morte/distruzione) da un'altra figura emblematica, quella della maestra -, non sono quattro amici qualsiasi. Rappresentano: la cultura come norma della società civile (Philippe Noiret, il magistrato), la cultura come comunicazione e contraffazione (Michel Piccoli, l'intellettuale-operatore televisivo) i primi due. Rappresentano: la reificazione dei modelli e dei miti imposti dalla cultura e dalla organizzazione politica e sociale capitalistica gli altri due. Il raffinato cuoco (Ugo Tognazzi) è l'inventore e l'esecutore di forme gastronomiche elegantemente vistose e vissute come bellezza e perfezione esteriore, come inganno e trucco; il pilota, l'uomo di mondo, l'amante (Marcello Mastroianni) incarna il modello dell'"uomo di successo", vacuo, bello, virile: l'espressione istituzionalizzata della superficialità.
Eppure i quattro vivono la coscienza del vuoto e del nulla (anche se meccanicamente, anche se ciò viene esibito quasi come un "dato" caratteriale, o come una funzione tematica). Decidono perciò di riempire quel vuoto di morte e di oscenità alimentari ed escrementizie e dissolutamente erotiche (la compagnia delle prostitute che fuggono di fronte all'odore di morte e di disfacimento che emana dagli uomini e dalla loro messa in scena della morte). Decidono per il nulla-pieno, illusorio, immaginario: una immaginazione reificata nel fenomenismo di una morte che deve sopraggiungere, di cui ci si deve impossessare, in cui ci si deve immergere, come nel ventre caldo e misterioso del sesso. E il nulla-pieno deciso dai protagonisti de La grande abbuffata è l'estrema illusione e l'ultimo inganno rivolto contro se stessi e contro la pietà nei confronti di se stessi; una pietà e una comrniserazione che riguardano la nostra fragilità, i cedimenti, le debolezze, il rifiuto della maturità. (...)
Maurizio Grande, Marco Ferreri, Il Castoro Cinema, 6/1975 |
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Critica (3): | |
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