Motel Woodstock - Taking Woodstock
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Regia: | Lee Ang |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal libro di memorie "Taking Woodstock: A True Story of a Riot, a Concert, and a Life" di Elliot Tiber con Tom Monte; sceneggiatura: James Schamus; fotografia: Eric Gautier; musiche: Danny Elfman; montaggio: Tim Squyres; scenografia: David Gropman; arredamento: Ellen Christiansen; costumi: Joseph G.Aulisi; interpreti: Demetri Martin (Elliot Tiber/Eliyahu Teichberg), Liev Schreiber (Vilma), Eugene Levy (Max Yasgur), Imelda Staunton (Sig.ra Tiber), Kevin Sussman (Stan), Kevin Chamberlin (Jackson Spiers), Gabriel Sunday (Steve), Jonathan Groff (Michael Lang), Henry Goodman (Sig. Tiber), Mamie Gummer (assistente di Lang), Dan Fogler (Devon), Jeffrey Dean (Morgan); produzione: Focus Features; distribuzione: BIM; origine: Usa, 2009; durata: 111’. |
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Trama: | Stati Uniti, 1969. Il giovane Elliot Tiber che gestisce insieme ai suoi genitori un motel ai piedi dei monti Catskills trova una brillante idea per riuscire a racimolare un po' di soldi utili a coprire i debiti di famiglia: utilizzare il permesso ottenuto dalla comunità per un evento culturale e ospitare il festival musicale hippy promosso da Michael Lang e soci. Grazie all'aiuto di Elliot, che vedrà così risollevate le risorse economiche di famiglia ben oltre le sue aspettative, Lang e gli altri organizzeranno il più grande evento della storia del Rock: il concerto di Woodstock. |
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Critica (1): | Il bilancio di Taking Woodstock arriva all' ultimo minuto, dopo che per due ore Ang Lee si è come perso nel mare di folla e di utopie che hanno accompagnato la nascita di quel celebre concerto. È quando Elliott, il giovane che forse senza ben capire la portata delle proprie azioni ha permesso di organizzare «tre giorni di pace e di musica» sui prati di una tranquilla cittadina di provincia, si pone l' inevitabile domanda: «E ora?». E Michael, uno degli organizzatori, gli risponde che tutti se ne andranno in giro per il mondo, magari dopo aver litigato per i soldi. Qual che è fatto è fatto. Anche se l' ultimissima inquadratura, sulla spianata dove si è tenuto il concerto, coperta di fango e di rifiuti come fosse un campo di battaglia, fa intuire che il seme gettato a Woodstock farà molta fatica a germogliare. In fondo Ang Lee un film sulla fine delle utopie della controcultura americana l' aveva già fatto un decennio prima, con Tempesta di ghiaccio (1997), e quando questo taiwanese laureatosi in Illinois aveva affrontato altri momenti della storia americana, aveva saputo metterne in evidenza i lati più duri e drammatici, dalla violenza fratricida della Guerra civile (in Cavalcando col diavolo, 1999) alle prevenzioni omofobe (I segreti di Brokeback Mountain, 2003). Per questo oggi può ben «permettersi» un po' di furbesco entusiasmo e di contagiosa partecipazione al mito giovanilista di quell' America che credeva nella possibilità di ripulirsi dalla guerra del Vietnam a suon di musica e di amore libero. Il film prende il via dal romanzo autobiografico di un aspirante pittore, Elliot Tiber (interpretato con convinzione da Demetri Martin), che si sente in dovere di abbandonare i suoi sogni di bohème (e di pulsioni omosessuali) per aiutare i vecchi genitori a conservare un motel scassato e coperto di ipoteche a White Lake, nei pressi di Bethel, una cittadina dello Stato di New York. Ad aiutarlo inaspettatamente arriva, nel luglio del 1969, la scoperta che a un festival di musica giovanile che doveva svolgersi nella contea di Orange erano stati revocati i permessi. Ed Elliot, proprietario di una licenza per un «festival estivo di arte e musica» decide di offrirla ai disperati organizzatori della Woodstock Ventures. Mettendo in moto una macchina che avrebbe attirato sui prati di un venale allevatore di mucche almeno 400 mila persone. Il film racconta tutto questo con una profusione di mezzi e un' adesione allo spirito hippie dell' impresa davvero encomiabile, omaggiando il documentario che Michael Waldeigh aveva montato su quell' evento (e uscito nel 1970: Woodstock – Tre giorni di pace, di amore e di musica) con un abbondante uso dello split screen, che divide l' inquadratura in diverse immagini. Ang Lee lascia ai margini del film il concerto vero e proprio per privilegiare l' impatto che le idee della controcultura ebbero sui vari protagonisti, a cominciare dal timido Elliot che in una scena memorabile si «libera» dell' incombente presenza dei propri genitori (genialmente interpretati da Henry Goodman e da Imelda Staunton) portando a esempio la libertà che la madre di Janis Joplin o il padre di Jimi Hendrix avrebbero concesso ai loro figli. Giocando così il film tutto sui contrasti tra le idee conservatrici degli adulti e lo spirito libertario dei giovani, concedendo «diritto di parola» ai precursori del travestitismo (come il marine in gonnella interpretato da Liev Schreiber) o ai paladini delle droghe e raccontando soprattutto la gloria un sogno destinato ben presto a perdersi tra compromessi e sconfitte.
Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 16/5/2009 |
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Critica (2): | Il raduno pop più famoso della storia visto con gli occhi di un giovanotto che non canta, non suona, non fuma erba, non porta nemmeno i capelli lunghi e vive ancora con mamma e papà. I famosi "tre giorni di pace, amore e musica" a cui si sono abbeverate almeno un paio di generazioni, rievocati da un film che osserva l'evento da lontano, come attraverso un cannocchiale rovesciato, ma ne coglie le vibrazioni più intime, le note profonde, l'onda che avrebbe continuato a propagarsi ben oltre l'agosto 1969.
Perché tornare a Woodstock dopo le tre magnifiche ore del docu di Michael Wadleigh e il triplo long playing (chissà se si usa ancora questa parola) che entrò in milioni di case? Ogni storia nasce da un punto di vista e Ang Lee ha scelto quello eccentrico e rivelatore, nonché esilarante, di Elliot Tiber, il giovane figlio di immigrati ebrei russi che concesse agli organizzatori il pulcioso motel di famiglia e soprattutto li aiutò a trovare il luogo in cui allestire il megaconcerto: la proprietà del pacioso vicino Max Yasgur, anche lui ebreo, 250 ettari di pascolo per vacche...
Morale: in Motel Woodstock i cantanti non li vediamo mai e a stento udiamo alcuni di loro (Grateful Dead, Doors, Jefferson Airplane, Richie Havens in una nuova versione di Freedom...). In compenso entriamo a casa Tiber, scopriamo le paranoie della madre avara, dispotica e ossessionata dall'antisemitismo (monumentale Imelda Staunton), vediamo l'assennato Elliot dibattersi in un micidiale groviglio di dinamiche familiari, assistiamo allo scontro comico-epico fra la mentalità gretta di quella comunità rurale sui monti Catskills e gli alieni invasori venuti a portare il verbo della controcultura.
Basterebbe molto meno a scatenare un finimondo, ma Ang Lee cuoce tutto a fuoco lento con il suo inconfondibile tocco lieve, "angelizzando" i protagonisti quanto basta ad alonare il tutto di leggenda. Così l'omosessualità repressa di Elliot (il comico Demetri Martin, perfetto) si rivela poco alla volta; il pop manager Michael Lang, non proprio un santo, diventa un guru supercool con un fisico da rockstar; perfino gli infernali genitori di Elliot, miracolo laico favorito da una robusta dose di hashish, escono migliorati da quel tour de force. Mentre il figlio si "libera" in un trip di droga e amore a tre che genera la sequenza più bella del film, con il concerto visto in lontananza come un cratere luminoso e tremolante.
Chi cerca la verità, anche soggettiva, di quell'esperienza, veda il ritorno a Woodstock della grande documentarista Barbara Kopple, My Generation, o legga il libro autobiografico adattato da James Schamus (Taking Woodstock, Rizzoli), in cui Tiber è un gay scatenato che organizza weekend per scambisti. Ang Lee non stila cronache, costruisce miti. E quello di Woodstock è un mito di cui abbiamo ancora bisogno.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 9/10/2009 |
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