Servo (Il) - Servant (The )
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Regia: | Losey Joseph |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal romanzo di Robin Maugham; sceneggiatura: Harold Pinter; fotografia: Douglas Slocombe; musiche: John Dankworth; montaggio: Reginald Mills; scenografia: Richard Macdonald; arredamento: Ted Clements; costumi: Beatrice Dawson; interpreti: Dirk Bogarde (Hugo Barrett), Sarah Miles (Vera), Wendy Craig (Susan), James Fox (Tony Mounteset), Catherine Lacey (Lady Mountset), Anna Firbank (signora ristorante), Richard Vernon (Lord Mountset), Harold Pinter (uomo d'affari), Alan Owens (curato), Jill Medford (giovane donna), Ann Firbank (donna dell'alta società), Doris Knox (anziana), Patrick Magee (vescovo); produzione: Joseph Losey per Springbook Production; origine: Gran Bretagna, 1963; durata: 117’. Vietato 14 |
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Trama: | Tony, dopo aver acquistato una vecchia, grande casa in un quartiere alla moda, assume come cameriere Barrett. Questi, avendo intuito il carattere debole del padrone, lo circonda di attenzioni premurose e gli introduce in casa un'attraente ragazza, Vera, facendola passare per sua sorella, adoperandosi perchè Tony se ne innamori, sebbene questi sia fidanzato con Susan. Quando Tony scopre che Vera non è la sorella di Barrett ma la sua amante, scaccia di casa entrambi. Rimane solo, abbandonato anche da Susan, ma la solitudine lo deprime gravemente. Un fortuito incontro con Barrett gli dà l'occasione per assumerlo nuovamente. Ora però Barrett agisce da padrone e come tale maltratta Tony. Questi, ormai succubo di Barrett, si aggira per la casa come un demente, scivolando lentamente verso la più completa abiezione. |
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Critica (1): | I film che fanno scandalo, come fece The Servant alla Mostra di Venezia del 1963, vanno guardati con sospetto, perché è difficile capire quanto le ragioni esterne (moralistiche o politiche) pesino sulle effettive qualità del testo. Nel caso, poi, dell'opera di Losey (lunga e diffusa: circa due ore di proiezione), agli equivoci provocati dallo scandalo si aggiunsero i suggerimenti del regista, che insistette sulla necessità di una lettura “brechtiana”: allo spettatore si chiedeva non una identificazione con i personaggi ma un rifiuto razionale dei loro comportamenti.
Anche nel cinema, gli anni Sessanta si annunciano come una lunga marcia all'interno della società reificata del neocapitalismo. Tematiche sociologiche e tematiche psicologiche si alternano, e talvolta si sovrappongono, in una analisi che si va facendo sempre piú pressante. Losey è fra quelli che tentano di superare sia la contrapposizione sia la convergenza. Intorno ai personaggi (e, indirettamente, alla società) costruisce una gabbia stretta e soffocante, alla quale attribuisce il valore di sintomo: il malessere e la tragedia sono presenti fin dall'inizio, nascono dalle cose ma nello stesso tempo le dominano e le pervertono, inevitabilmente. In ciò, forse, consiste il “brechtismo” del regista.
Nel profondo, tuttavia, c'è qualcosa di diverso. “Essendo la morte la condizione della vita” scriveva Georges Bataille nel 1957, in un capitolo di La littérature et le mal dedicato a Emily Brontë “il Male, legato per la propria essenza alla morte, è anche, in maniera ambigua, un fondamento dell'essere. L'essere non è votato al Male ma deve, se può, non lasciarsi imprigionare nei limiti della ragione. Questi limiti deve anzitutto accettarli, riconoscendo la necessità del calcolo dell'interesse, ma deve poi sapere che una parte di sé – una parte irriducibile e sovrana - ad essi (e alla necessità che ha riconosciuto) sfugge. Tutto sembrerebbe, in The Servant, coerentemente razionale: il giovane e fiacco Tony si prende in casa un perfido maggiordomo perché gli serve, subisce la sua prepotenza perché è tanto debole (e corrotto) da sentirne la necessità, non riesce più a staccarsene – nemmeno quando ne ha scoperto l'infame natura – perché ormai il rapporto servo-padrone si è invertito, a tal punto che per lui degradarsi, come nell'orgia dei drogati che chiude il film, costituisce l'affermazione più alta della personalità, quella del padrone che può realizzarsi soltanto nella assoluta servitù. L'apologo sarebbe soltanto moralistico (con una sin troppo evidente sottolineatura sociologica) se il percorso della doppia abiezione di padrone e servo fosse così lineare. Non è così.
Tony, rampollo di illustre famiglia, assume Barrett per arredare la nuova casa a Londra e per occuparsi del servizio. E Barrett, accortosi della debolezza del padrone, vi si installa subito da dominatore. Intuisce che il suo dominio potrebbe essere insidiato da Susan, la (quasi) fidanzata piccolo borghese di Tony, e manovra per renderla inoffensiva. Introduce in casa una alleata, Vera, che presenta come sua sorella e fa assumere come cameriera. Non ha pudori, Barrett. Quando Tony lo sorprende a letto con Vera, dice tranquillamente la verità e nemmeno aspetta di essere cacciato. Se ne va. Tony crolla. Sente di non poter fare a meno, non solo di Barrett, ma anche di Vera. Li riprende in casa (una casa che a poco a poco si è riempita di mobili, nella scelta dei quali prima influisce il padrone e poi, con forza sempre più esclusiva, il servo: gli ambienti chiusi si trasformano nell'universo autosufficiente di una prigione). Barrett, ora, non ha più freni. Ordina a Vera di sedurre Tony, che del resto già prova un'attrazione ambigua nei suoi confronti (e nei confronti dello stesso Barrett). In una sequenza di insinuante complessità, la sgualdrinella esegue l'ordine, scegliendo la cucina come luogo della seduzione. Barrett coinvolge perfino Susan, ancora animata dai suoi buoni propositi e dai suoi concreti interessi. Nella casa può avvenire di tutto, ormai è Tony che lo vuole. Barrett è scatenato, porta in casa chiunque capiti. E tutti sono con lui, Susan compresa. Il film sale gradualmente di tono, con una progressione fatta di minimi scatti e di esplosioni improvvise. E si conclude con un'orgia generale, che si prolunga per tutta una notte. L'unica a ribellarsi è Susan, finalmente, che schiaffeggia Barrett e fugge. Gli altri restano prigionieri di se stessi, del male (nel senso batailliano). L'equazione male = morte (appaiata all'altra: erotismo = morte) è l'autentico nucleo del film.
Fernaldo Di Giammatteo, 100 film da salvare, Mondadori, 1978 |
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Critica (2): | È difficile trovare in The Servant un solo "attacco" sbagliato, un movimento di macchina gratuito, un errore nel sonoro e nelle luci. La congiuntura che propizia la nascita di quello che potrebbe essere definito un film "perfetto" è, come al solito, data dal contemporaneo confluire di eventi e nomi sullo stesso set:
- innazitutto Harold Pinter, da cui Losey riceve la spinta a sgrossare i dialoghi dalle tentazioni enunciative;
- poi Douglas Slocombe che, come in uso nel bianco e nero, oltre che direttore della fotografia, è anche colui che dispone le luci e che dimostra di saper tagliare la scena con i riflettori, con risultati estremamente significativi e funzionali;
- James Fox che, in quanto figlio del produttore, interpreta sorprendentemente e pertinentemente la parte del padrone per dinastia;
la solita collaborazione con Richard McDonald nel pre-designing;
e infine, last but not least, Dirk Bogarde, la cui aria rispettosa, a volte sgradevolmente ironica, altre volte rattrappita in sorrisi di compatimento, si pone come vero e proprio filo conduttore stilistico dell'intero film.
Il risultato di tutto ciò è un'opera totalmente seducente e sconvolgente (ammesso che, dopo Baudrillard, i due termini possano coesistere). Seducente in quanto, come in Blind Date, il problema di Losey è quello di attirare lo spettatore in una finzione apparentemente innocua, del tutto familiare, magari sotto gli auspici del verosimile e dell'ovvio. Sconvolgente perché è proprio muovendo da questa sorta di ipnosi, da questa continua rassicurazione, che impercettibilmente, di sequenza in sequenza, il film comincia a deviare dalla norma, a far balenare l'unheimlich, a produrre la distorsione – così come è solo da una situazione del tutto ordinata e prevedibile che può liberarsi la carica irrazionale e incontenibile della trasgressione del divieto.
Giorgio Cremonini, Gualtiero De Marinis, Joseph Losey, La Nuova Italia, 1981 |
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Critica (3): | È nel Servo (...) che gli elementi tutti della concezione cinematografica loseyana si compongono e maturano nel loro massimo risultato. (...) Losey finalizza tutto (soggetto, scenografia, musica, montaggio, dialoghi, attori) a un modo di narrare che è ora finalmente e soltanto suo, di cui non vi sono nel cinema contemporaneo, europeo o no, equivalenti di sorta. Il film tratta della degradazione attraverso i rapporti di servo-padrone, attraverso la servitú, come Losey dice, in tutte le sue forme.
Servo e padrone non sono manicheisticamente diversi, l'uno il male e l'altro il bene (come qualcuno ha detto parlando di Barrett, il servo, come di una figura diabolica che s'insinua nell'interno della ricca casa borghese a distruggerne le basi): Barrett (Dirk Bogarde) è un "servo" quale i padroni già avuti l'hanno fatto, ipocrita, astuto, che prenderà via via il sopravvento su Tony (James Fox) – il padrone – solo in quanto questi non corrisponde, debole qual è, al tipo di padrone che Barrett rispetta (all'inizio dice a Tony di aver servito presso Lord Barr, calcando sul "lord" per mettere in luce il dislivello tra il nobile che ha servito e il borghese che ora serve). Si vedano i suoi rapporti con Susan, la quasi-fidanzata di Tony che s'indovina borghese di nuova formazione, arrivista, arrogante, senza gusto, per la quale Barrett non nasconde il suo disprezzo, ma che – nei cinque minuti finali – lo riporta bruscamente alla sua condizione di servo (lo schiaffo) che egli peraltro ac-
cetta con una reazione di istintivo rispetto. D'altronde se Barrett ha un carattere complesso, Tony non è né un padrone angelico né totalmente un debole. Reagisce anch'egli ambiguamente alla sua posizione e si direbbe che la causa della sua debolezza sia infine in una mancanza assoluta di senso di responsabilità, in una facilità di vita, abitudine all'agio, che allontanano da lui qualsiasi impegno definito che possa interessarlo a lungo. Piú che loro, è la società tutta in cui rapporti di questo tipo esistono a essere messa in causa: la corruzione di fondo è nell'esistenza del rapporto di servitú, e non nel singolo servo o padrone.
Losey ha chiarito esattamente il nucleo ideologico del film: "Per me Il servo è la storia di. gente di origini diverse prese nella stessa trappola, è la storia di questa trappola: la casa e la società in cui vivono. Per me il film è semplicemente un film sulla servitú, servitú della nostra società, della nostra epoca, del padrone e del servo" e anche... "servitú di stato d'animo," come reazione alla paura e alle norme di una società classista.” Il rapporto servo-padrone è un rapporto, dunque, dialettico quant'aitri mai, come quello tra ispettore e indiziato, tra giudici e giudicati, tra carceriere e carcerato di altri suoi film.
Le reazioni del pubblico che assiste al Servo dimostrano quanto Losey abbia raggiunto il suo scopo: risatine di disagio, proteste ad alta voce, e non poca gente che abbandona lo spettacolo prima della fine. Ci pare infatti che se in un termine solo si può condensare – come Losey ha fatto per il contenuto – la forma, lo stile del film, questo potrebbe benissimo essere: "frustrazione." Lo spettatore non partecipa alla vicenda, non può mai essere portato ad immedesimarsi nella parte del servo o in quella del padrone, e si trova in uno stato di continua (e spesso irritante) costrizione a una partecipazione non sentimentale, ma razionale. Attorno a questo scopo il film si indirizza e si forma, con risultati davvero perfetti. La scenografia della casa: con quella sua calibratura di elementi vittoriani (pendole, specchi, quadri classici, scale) cui si uniscono elementi moderni (una statua, bicchieri, poltrone) che lentamente riempiono la scena; la casa è inizialmente vuota, si riempie a poco a poco, ma è poi a poco a poco ritoccata, involgarita, da quel che vi porta il dominio del servo trionfante. Il commento musicale: una canzone che riprende piú volte con un accompagnamento diverso, prima piú melodica e sentimentale, poi via via piú stridente, prima sviolinata, poi col sopravvento della chitarra elettrica, e cori le parole sempre leggermente cambiate. Il montaggio: a piani lunghi, grandi carrellate, come in un'evoluzione concertata, in una spira che tenda a restringersi e chiudersi per terminare col film nella scura scena dell'orgia. I simboli, stavolta finalmente dominati, mai forzati: specchi – ancora – con la loro angolazione raffinata ma deformante, in primo luogo. Le parole, i dialoghi: Pinter, l'autore del Montacarichi, è arrivato a usarli anche in funzione puramente sonora, o altrove in contrappunti rapidi di tensioni convergenti (scena, ad esempio, del ristorante). In questo film, insomma, tutto contribuisce alla creazione di questo sentimento di perenne frustrazione, di impossibilità di una identificazione qualsiasi.
A tutti questi elementi e alla loro organizzazione attorno al perno indicato, altri se ne aggiungono non meno essenziali. Dati quattro personaggi, diversi per carattere, origine, classe, in un décor vittoriano, Losey stabilisce tra loro una sottile rete di rapporti che sono anche sessuali. Nel corso del film assistiamo a un incrociarsi, avvicinarsi e allontanarsi di questi secondo una progressione, che porta appunto alla scena finale dell'orgia. Vera-Barrett, VeraTony, Tony-Susan, Tony-Barrett. Ché infatti il legame omosessuale tra Barrett e Tony – mai dichiarato o proposto se non con un'allusività tutta psicologica e di particolari sottilissimi - è una delle componenti maggiori – nella seconda parte del film - della degradazione di quest'ultimo, nel piú diretto e consolidato dominio dell'altro. D'altronde anche di questi rapporti si offre una chiave che non è diversa da quella di Eva: la difficoltà della coppia, la sua tendenza a una specie di autodistruzione e degradazione.
Ai partigiani della "misura" e del realismo, ai partigiani del dépouillement, non è piaciuta di questo film in particolare la seconda parte, e la scena dell'orgia. Non è piaciuto cioè l'implacabile sviluppo di una storia che non si ferma all'analisi di costume o alla "denuncia," ma che continua a scavare e a incidere senza paura di portare alle estreme conclusioni drammatiche un dato assunto. Cosí, se questo assunto è lo scambio delle parti tra servo e padrone, è logico e necessario che l'arco si chiuda con il rovesciamento completo della situazione di partenza. Le angosciate e diaboliche scene dei giochi di Tony e Barrett, l'orgia squallida, sono parse esagerate e superflue. Per nostro conto, le troviamo necessarie, indispensabili, per due motivi: prima. di tutto perché le preoccupazioni loseyane sono tutt'altro che "realistiche," e perché la parabola esige uno sviluppo e una conclusione da parabola; in secondo luogo perché con quest'orgia tutt'altro che liberatrice Losey riesce ancora una volta, a fine del film, a rimettere in moto quel meccanismo di frustrazione e irritazione di cui dicevamo e cioè a non lasciare tranquillo lo spettatore, tore, e specialmente quello piú accorto che ormai, a questo punto del film, "ha capito tutto." Con un ultimo violento intervento, con una ultima aggressione alla tranquillità e alla buona coscienza dello spettatore, Losey dà l'ultimo definitivo tocco alla sua costruzione. Nell'orgia squallida dei drogati, il servo ha preso il posto del padrone senza per questo essere piú "libero." La conclusione era l'unica possibile.
Goffredo Fofi, Capire con il cinema, Feltrinelli, 1977 |
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Critica (4): | |
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