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Attenzione alla puttana santa - Warnung vor einer heiligen Nutte


Regia:Fassbinder Rainer Werner

Cast e credits:
Soggetto, sceneggiatura: Rainer Werner Fassbinder; fotografia: Michael Ballhaus; musiche: Peer Raben, brani tratti da opere di Gaetano Donizetti, canzoni di Elvis Presley, Ray Charles e Leonard Cohen; montaggio: Franz Walsch, Thea Eymèsz; scenografia: Kurt Raab; interpreti: Lou Castel (Jeff, il regista), Eddie Constantine (Eddie), Hanna Schygulla (Hanna, l'attrice), Marquard Bohm (Ricky, l'attore), Rainer Werner Fassbinder (Sascha, l'organizzatore), Ulli Lommel (Korbinian), Margarethe Von Trotta (Babs), Gianni Di Luigi (Kameramann). Hannes Fuchs (David), Karl Scheydt (Manfred, il produttore); produzione: antiteater-X-Film - Nova International Films; origine: Germania Occidentale, 1970; durata: 103'.

Trama:In un hotel di gusto barocco vicino al mare, la troupe di un film è in attesa del regista, Jeff, giovane e tormentato che ha deciso di girare il film Patria e muerte. La situazione è drammatica: mancano i soldi, gli attori e le attrici sembrano o alienati o impazziti, e anche tutti gli altri collaboratori sono impelagati in difficoltà personali o nei difficili rapporti interpersonali. L'atmosfera è morbosa, la sala dell'albergo si trasforma in una specie di antinferno con tormentatori e tormentati. Tutto sfocia nella confusione più completa.

Critica (1):Girato in 22 giorni a Sorrento nel Settembre 1970 in 16 mm, Attenzione alla puttana santa è il nono lungometraggio di Fassbinder dopo il suo esordio del 1969. E tant'è per la ben nota prolificità del celebre autore tedesco. Il riferimento più immediato - per quanto generale - del soggetto è ovviamente a quel particolare genere cinematografico che è il "film su un film". Godard, Fellini, Truffaut, Keaton: quasi tutti i maggiori vi si sono cimentati. L'ha fatto di recente anche Wim Wenders, il cui Lo stato delle cose deve non poco proprio alla pellicola di Fassbinder: ambedue situati in una penisola mediterranea, ambedue presso il mare (o l'oceano), ambedue ritratti di una nevrosi corale, ambedue false storie di denaro tese a mascherare una crisi individuale e di gruppo più profonda. Ma Wenders si accontenta di qualche immagine ricercata, di qualche trovata figurativa (l'inizio, la fine), di una esistenzialità seccamente lamentosa mediata da sue precedenti opere ben più originali e riuscite (Nel corso del tempo, Alice nelle città).
Fassbinder no. Se metafora deve fare, la fa ben distinta dall'esausto estetismo di Wenders. Fassbinder ha molto da mettere in gioco, e non per la banale ragione che il film è in fondo tra i primi della sua carriera. La sua concenzione del cinema non è metalinguistica, ma tutt'al più referenziale. Può anche "rifare" Sirk, può anche parlare di cinema: in realtà parla di arte e di vita, di sesso e di politica. Senza gerarchie, perché non ve ne sono. Per questo i personaggi di Wenders si muovono come fossero sott'acqua, mentre quelli di Fassbinder hanno qualcosa dell'isteria sartriana di Huis clos. Per questo l'albergo sorrentino diventa subito un'anticamera dell'inferno, il luogo catalizzatore di debolezze, vizi, rancori, incubi sempre connessi a una matrice culturale borghese, a un perverso gioco di massacro che trascinando l'altro nel baratro è in realtà prima di tutto un suicidio. Naturalmente in mezzo c'è stato Brecht, e Fassbinder, come sempre, ottempera alla sua lezione. I personaggi si muovono in modo quasi stilizzato scontrandosi, peraltro, con il naturalismo della scenografia da un lato e con quello del dialogo (o meglio, del tipo di eloquio) dall'altro. Si dirà comunque: d'accordo, la crisi, lo scontro, l'isteria, sono cose abbastanza tipiche di un "film su un film". Certo, ma con una radicale differenza, cui peraltro già si accennava più sopra: a Fassbinder non interessa tanto ragionare qui sul cinema, la sua ambizione è ben più ampia. Il cinema sta per qualcosa di più vasto, per un'idea globale di Arte. Quale idea? Intanto, una direzione di polemica antiromantica. La nostra epoca, con tutte le sue belle teorie precotte, pecca ancora ingenuamente di una concenzione irrazionale dell'arte. Con tutti gli alambicchi creati negli ultimi lustri per ridurla a pura tecnica (sociologia, formalismo, strutturalismo, semiologia, ecc.), è pur sempre rimasto fuori dal quadro ciò che fa l'arte Arte.
Fassbinder non è così ingenuo da tentare di impartirci una lezioncina sul mistero. Gli basta - ed effettivamente non è poco - mostrarci che cosa c'è dietro il sublime, l'inesprimibile, il consacrato.
Insomma, si tratta in ultima analisi di un discorso mistico. Alla santità non si arriva con il rigore, il digiuno, la preghiera. La santità ha dietro di sé crudeltà, violenza, odio, disprezzo. E questo è tanto più evidente in un'arte che, con buona pace di Croce e del pensiero idealista, nasce da una collaborazione di più individui, intelligenze, capacità, esperienze. Non a caso l'ultima battuta, messa ovviamente in bocca al regista Jeff, nodo di riferimento e ordinamento del concorso di tutti, Fassbinder la prende da Thomas Mann. Più o meno: "Sono stanco di parlare dell'umano senza appartenere all'umano". Non sono andato a controllare, ma si può tranquillamente scommettere che la citazione è tratta o dal Dottor Faust o dal Tonio Kröger, notoriamente le due opere dello scrittore tedesco che - ognuna a suo modo - trattano più eloquentemente il problema relativo al rapporto tra maledizione (e vizio, peccato, malattia, diversità, ecc.) e arte. [...] In Attenzione alla puttana santa per di più l'oggetto del discorso è l'arte: e quindi non si tratta di una poetica quanto di una teorica. Appunto in questo senso il momento più eloquente del film è quello finale. Anticipando di almeno cinque anni il Truffaut di L'uomo che amava le donne (anch'essa non a caso un'opera faustiana, la più faustiana del regista francese), Fassbinder impone a Lou Castel di pronunciare la battuta manniana di cui si diceva più sopra soltanto a metà sullo schermo, affidandone la seconda parte alla voce fuori campo dello stesso attore, mentre questi guarda in silenzio verso la mdp in un primissimo piano drammaticamente fisso. Il senso dell'operazione è ovviamente diverso: in Truffaut una lacerazione del testo non poco tipica in un regista di estrazione nouvelle vague; in Fassbinder un passaggio dall'individuale (ancorchè metaforico) rappresentato da Jeff-Castel a un'idicazione più generale dell'artista. O meglio ancora, ad un'allusione, ad un suggerimento che quella voce possa essere proprio di Fassbinder, regista e artista che con l'umano ha ovviamente sempre trattato, che di esso ha sempre parlato, ma che - forse più di altri ancora - all'umano non ha mai appartenuto. Non solo per la sua qualità d'artista, ma anche per le oggettive difficoltà poste dalla sua sessualità in un mondo che, identificando l'umano con la consuetudine sociale, la bandiva, la scherniva, la reprimeva. Discorso sull'arte, dunque, e non semplicemente sul cinema. E il film in sè è già recitato nel momento in cui ne vediamo cast e crew dilaniarsi nella hall e nelle stanze dell'albergo: quello è il vero film, non perché è ciò che costituisce narrativamente questa specifica opera, ma perché ci mostra senza ombra di dubbio di che cosa è fatto un film, di che cosa è fatta l'arte. (...)
Franco La Polla, Cineforum n. 231, 1984

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Rainer Werner Fassbinder
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