Roma città aperta
| | | | | | |
Regia: | Rossellini Roberto |
|
Cast e credits: |
Soggetto: Sergio Amidei, Alberto Consiglio; sceneggiatura: Sergio Amidei, Federico Fellini, Carlo Celeste Negarville, Roberto Rossellini; fotografia: Ubaldo Arata; musiche: Renzo Rossellini; montaggio: Eraldo Da Roma; scenografia: Renato Megna; interpreti: Vito Annichiarico (Marcello), Nando Bruno (Agostino, il sagrestano), Aldo Fabrizi (don Pietro Pellegrini), Harry Feist (Magg. Fritz Bergmann), Giovanna Galletti (Ingrid), Francesco Grandjacquet (Francesco), Anna Magnani (Pina), Marcello Pagliero (Ing. Manfredi), Turi Pandolfini (Il Nonno), Eduardo Passarelli (Brig. Metropolitano), Amelia Pellegrini (Nannina), Carla Rovere (Lauretta); produzione: Excelsa Film; distribuzione:Cineteca di Bologna; origine: Italia, 1945; durata: 100'. |
|
Trama: | Durante i nove mesi dell'occupazione nazista di Roma, la polizia tedesca è sulle tracce di un ingegnere che è a capo di un movimento della resistenza. Il giovanotto sfuggito in tempo alla perquisizione nel suo appartamento, trova rifugio nella casa di un parroco della periferia, benemerito della lotta contro l'oppressore. Ma la delazione di un'attricetta che ebbe una relazione con l'ingegnere, attratta dal miraggio di lauti guadagni, porta all'arresto dell'ingegnere e del parroco. Sottoposti a crudeli sevizie perché rivelino i nomi dei loro compagni, i due resistono eroicamente e, mentre il giovane perde la vita sotto i ferri di tortura, il prete, contro il quale si sfoga inutilmente la bestiale ira dei poliziotti, viene condannato alla fucilazione. |
|
Critica (1): | Film emblematico in molti sensi, Roma, città aperta delimita e al tempo stesso supera i confini del cinema. “Dentro” il cinema, è l'opera che apre la nuova stagione cui fu dato il nome di neorealismo. “Fuori” del cinema, fissa la svolta della storia italiana con cui si esaurisce l'esperienza fascista. Ha scritto uno storico marxista: “Chi voglia rendersi conto di quale fosse lo spirito dell'Italia della Resistenza pensi ai film di Roberto Rossellini, che inaugurarono la storia del neorealismo italiano, da Roma, città aperta a Paisà. Di questo spirito essi sono rappresentativi non solo perché molti dei loro personaggi sono uomini e donne della Resistenza (...) ma soprattutto per il tentativo in cui essi pienamente riuscirono di fornire dell'Italia e del suo popolo una immagine autentica e viva, per il rifiuto di ogni retorica consolatrice e di ogni recriminazione, per la serietà del loro impegno e della loro scabra passione” (Giuliano Procacci, Storia degli Italiani, vol. II, Bari 1968). In realtà Roma, città aperta più che fornire dell'Italia e del suo popolo “un'immagine autentica e viva”, ne fornì una fortemente connotata in senso positivo. Perché ciò andasse fatto, e con quale linguaggio, è il problema fondamentale (cinematografico, ma anche politico e storico) che Roberto Rossellini (Roma, 8 maggio 1906 - ivi, 3 giugno 1977) si trovò ad affrontare quando – dopo avere girato quattro film nel corso della guerra, uniformandosi per i primi tre alle esigenze di un enfatico nazionalismo – ebbe tra le mani un soggetto sulla vicenda di un prete ammazzato dai nazisti durante l'occupazione della capitale. Roma era stata liberata da poco (giugno 1944).
Da una storia lineare si passò, per successive aggiunte, alla complessità di un affresco. Due sono le vicende principali che, muovendo da punti diversi, confluiscono più volte e più volte si separano, per convergere nella lunga sequenza finale della tortura di Manfredi e della fucilazione di don Pietro. La Gestapo cerca un sedicente ingegner Manfredi, se lo fa sfuggire durante una perquisizione, studia un piano per catturarlo servendosi della collaborazione di una ragazza (Marina, un'attricetta) che lo frequenta. Nello stesso tempo don Pietro, che sta arbitrando una partita di calcio fra i ragazzi dell'oratorio, viene chiamato a casa di Pina, un'operaia vedova che convive con il tipografo Francesco: domani i due si sposeranno. Ma non è per questo che il parroco è stato chiamato. Quando arriva, scopre che da Pina si è rifugiato Manfredi. Questi lo incarica di portare una forte somma di denaro a una staffetta che la farà pervenire a un gruppo partigiano. Don Pietro esegue, dopo essere passato in canonica ed avere incontrato Pina, venuta a confessarsi prima delle nozze (un altro incontro ha fatto: con un disertore austriaco che gli chiede di essere messo al sicuro). La sera, nel grande palazzo popolare dove abitano Pina e Francesco, con Marcello (il ragazzino figlio del primo matrimonio di lei), accadono fatti preoccupanti. Si ode una forte esplosione giungere dal vicino scalo ferroviario e poco dopo si vedono comparire alcuni ragazzi della casa (fra i quali Marcello) che i genitori avevano cercato invano. E sono ceffoni generosamente distribuiti a questi eroi che rifiutano di dire che cosa hanno fatto. Quando tutto è tornato calmo, Pina e Francesco, seduti su uno scalino, fanno progetti per il futuro. Alla sede della Gestapo, intanto, il maggiore Bergmann – certo ormai della vera identità di Manfredi, membro comunista del Comitato di Liberazione – ordina a Ingrid, sua preziosa collaboratrice, di stringere i tempi con Marina. La mattina seguente, quando Pina e Francesco si apprestano a recarsi in chiesa per il matrimonio, i tedeschi circondano il palazzo, fanno scendere tutti in cortile e trascinano via gli uomini. Alcuni (fra cui Manfredi) riescono a mettersi in salvo. Altri, come Francesco, sono caricati sui camion. Pina, disperata, corre verso di lui. Una raffica l'abbatte sulla strada. Poco dopo, fuori città, un attacco partigiano (guidato da Manfredi) arresta la colonna dei camion e libera i prigionieri.
Marina, ricattata da Ingrid che le fornisce la cocaina di cui non può fare a meno, guida la Gestapo sulle piste di Manfredi, che ha ospitato la notte in casa sua. Il giorno dopo, don Pietro consegna a Manfredi e al disertore austriaco carte di identità false. Quando esce con loro, per accompagnarli in un convento, la Gestapo interviene e li arresta. L'ultima parte del film – che ha un notevole sviluppo ed è ritmata in crescendo sull'interrogatorio di Bergmann e le torture di Manfredi è sottoposto alla presenza di don Pietro – alterna a pagine di grande intensità (che restano fra le sequenze memorabili del neorealismo) fiacche divagazioni sul delirio dei tedeschi che sentono prossima la fine. Manfredi non parla e muore sotto la tortura. Don Pietro scaglia la sua maledizione contro gli assassini e ne chiede perdono a Dio (è il momento più alto del film. Sarà fucilato sullo spiazzo di un forte, davanti ai ragazzi dell'oratorio venuti a portargli l'estremo saluto. E con i ragazzi che se ne vanno di spalle (il panorama della città sul fondo) si chiude Roma, città aperta.
Il film è il prodotto di una forte passione morale e di una acuta sensibilità per i fatti e gli ambienti dell'esperienza quotidiana. Rossellini tende a rifiutare qualsiasi mediazione, fra sé e il reale, che non sia quella della nuda struttura del racconto. Il che, per un verso, lo induce a semplificare l'atteggiamento ideologico da assumere di fronte alla storia (“dell'Italia e del suo popolo” costruisce una immagine radicalmente positiva, senza sfumature, se non quelle di un macchiettismo non sempre felice) e, per l'altro, lo pone dinanzi a problemi di drammaturgia difficili da padroneggiare (il tessuto del dramma non possiede quella esattezza e flessibilità che solo una autentica civiltà cinematografica - in Italia, allora, inesistente - gli avrebbe consentito di ottenere). Cionondimeno – e qui risiede l'importanza del film – Roma, città aperta rivela una matrice ancora più profonda della passione morale e della genuina vocazione al realismo: quello che si potrebbe chiamare il senso tragico della vita, e la capacità di esprimerlo nella forma asciutta di una constatazione diretta e inevitabile. La fermezza dello sguardo rosselliniano che “crea” la realtà del film, inquadratura per inquadratura, implacabilmente si vorrebbe dire, coincise, all'alba del dopoguerra, con un movimento più generale della cultura italiana.
Fernaldo Di Giammatteo, 100 film da salvare, Mondadori, 1978 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| |
| |
|