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Sta fermo, muori e resuscita - Zamri, oumri, voskresni


Regia:Kanevskij Vital

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Vitali Kanevski; fotografia: Vladimir Bryliakov; musica: Sergei Banevitch; montaggio: G. Kornilova; scenografia: Yuri Pachigorev; suono: Akaana Strouguina; interpreti: Pavel Nazarov (Valerka), Dinara Droukarova (Galia), Elena Popova (madre di Valerka), Valeri lvtchenko, Vadim Ermolaev, Viatcheslav Bambouchek, Nikolai Mikleev; produzione: Lanfilm Studios; distribuzione: BIM; durata: 105'; origine: URSS; anno: 1990.

Trama:Siberia 1947. Nel distretto minerario di Sutchan la sopravvivenza è legge. Prima ancora di crescere, soli da sempre, Valerka e Galia imparano le regole del gioco e vivono la breve stagione di un amore acerbo e dispettoso.

Critica (1):Se la terra fosse piatta, Sutchan sarebbe ai confini del nulla. Luogo di uomini dimenticati cui la storia passa sulla pelle. Il fango spesso è dovunque, non distinguibile, nel b/n, dalla merda "lievitata" fuori dalle latrine e il professore di Mosca lo magia impastato con la farina. Un velo sporco offusca il cielo e le nuvole e diffonde un'uniformità grigia squarciata da improbabili lame di luce. La ferrovia che ferisce la pianura sbuca dal nero del tunnel minerario e raggiunge Vladivostok insidiosa e sinistra. Il paesaggio è l'equivalente non simbolico ma propriamente materico di speranze mai nate e orizzonti preclusi. Il senso di lontananza da ogni scelta possibile, di marginalità che esso trasmette fa pensare che oggi tutto sia rimasto come allora, laggiù. Il dilatarsi temporale del pensiero verso memorie lontane diventa così tutt'uno con il permanere delle loro tracce alla periferia della storia. Forse non è un caso se la nascita di Kanevski regista, ritardata da lunghi anni di prigione e premiata con la Camèra d'Or a Cannes '90, si colloca a crinale tra la maturità della perestrojka e lo sgretolamento definitivo del socialismo reale. Una specie di zona privilegiata in cui gli eventi sembrano ormai in grado di marciare da soli e l'uomo può permettersi il lusso di pensare all'uomo. Mentre i registi sovietici del dopo maggio '86 sentono l'esigenza di terremotare la stasi iconica di Paradjanov, di "sporcare" con il reale e persino con il grottesco l'estasi poetica di scuola tarkovskijana, Kanevski non rinnega il valore catartico della contemplazione, e la cerca dentro se stesso. Si abbandona alle "sue" visioni in stato di ipnosi. Manca tuttavia in Sta fermo... ogni trasfigurazione. La macchina da presa è mobilissima e il senso viaggia su onde corte penetranti: orrore per il gattino fatto annegare dalla vecchia in una bacinella d'acqua, divertimento per l'uomo nudo che insegue due ragazzi nella neve, irrisione per la patria "potente" che nel corteo della scuola diventa "puzzolente" per uno scherzo degli alunni, indifferenza per le ricchezze rubate a rischio della vita. Aggirando la denuncia sociale e imbattendosi come per caso nelle preziosità estetiche, senza porsi pragmaticamente come innovatore, Kanevski usa gli spazi che il nuovo corso ha aperto nell'apparato del Goskino per resuscitare un sogno rimasto per 30 anni fermo come morto. Sta fermo.. è autobiografia nuda, che come tale si legittima e si racconta. Kanevski non si limita a volgersi indietro con lo sguardo dell'uomo/ cineasta che ha perfezionato le capacità critiche e affabulatorie: si lascia inghiottire dal suo passato e il presente si richiude su di lui come un immobile lago mero. L'incubo che si muove sotto la superfice é nello stesso tempo reale e impossibile al massimo grado, sconcertante sul piano percettivo come il disegno dei tre cilindretti di Martin Krampen. C'é il villaggio minerario/gulag/campo di prigionia per i giapponesi, testimoni del loro orgoglio e di una pace siglata con troppo ritardo. Ci sono le esecuzioni dei prigionieri, le code per la farina, le donne che si vendono per un irrealizzabile riscatto, i reduci con le stampelle e ancora addosso la divisa, gli intellettuali impazziti, i ritratti di Stalin, la vodka. Ma il disorientamento di Valerka ci sottrare ad ogni prospettiva storica, ci ruba ogni chiarezza, sconvolge la portata dei fatti. Il regista é consapevole che ogni suo sapere di oggi é debitore verso il ragazzo che la storia ha messo in condizione di vivere esperienze terribili senza avvertirne consciamente il dolore: ciò che prova é soltanto assenza di felicità che si concretizza in una serie di privazioni grandi e piccole, materiali e non. Valerka gioca a mosca cieca con la realtà che lo circonda e tutto ciò che tocca appartiene di diritto come risarcimento della sua infanzia rubata. Il film passa come una carta assorbente sul susseguirsi delle sue "scoperte" ed evidenzia su questo percorso di autoeducazione un delicato filo narrativo: l'amore ingenuo tra il ragazzo e la più matura, più saggia, previdente ma non abbastanza, Galia.
È straziante per lo spettatore guardare le mostruosità della storia con la faccia di Valerka e sotto la guida di una ragazzina di 12 anni, senza il sostegno di una tesi, senza l'onniscienza di un narratore. Ridere di ciò che fa ridere un bambino, non capire quando lui non capisce: i pattini che recupera con l'aiuto di Galia saranno davvero i suoi? Perché la mamma lo denuncia al direttore della scuola? Perché il ferroviere lo picchia selvaggiamente? Perché la polizia lo acciuffa a casa dei nonni appena scappato di casa? Perché i giapponesi cantano davanti all'impiccato che brucia?... Dov'é e che cosa, fa il resto del mondo? Nelle interviste ("Positif ' m. 355; "La Revue" m. 464) Kanevski ama parlare della sua opera come di un figlio: spiega commenta illustra, chiarisce ogni dubbio. Fuori dal film. All'interno di esso invece salvaguarda con ostinazione la totale identità con se stesso bambino. Pavel Nazarov, ragazzino sperduto nella Russia di oggi, sul volto i segni di una madre alcolista e un padre chiuso in prigione, gli si presta (meglio, gli si doma) ora attento ora confuso, ora malizioso ora sconsolato. Un solo bambino: "di cinema" gli assomiglia. Il Jean-Píerre Léaud di I 400 colpi Kanevski, che lo ha scelto ancora insieme a Dínara Droukarova, "resuscitata" come sorella di Galia, per la suo opera seconda accolta senza rumore quest'anno a Cannes, non lo abbandona mai (non dimentichiamo che in origine il titolo destinato al film era L'angelo custode). In prima persona doppia Victor, l'aspirante padre di Valerka, e canta le canzoni d'amore che ritmano malinconicamente gli stacchi e i passaggi di stato. Addirittura composta da lui all'età di 12 anni é la canzone che Valerka dedica a Galia poco prima che venga uccisa. un pilota cade con il suo aereo e la sua più cara amica, anche lei pilota, si getta senza paracadute per raggiungerlo. Proprio la morte di Galia segna il livello di saturazione emozionale del film e rompe il miracolo della perfetta simbiosi uomo/bambino. L'uomo nasconde il bambino (é finito in ospedale, si dice) ed esce allo scoperto. Urla nel corpo di una donna impazzita. Parla da regista e da demiurgo. La madre di Galia folle di dolore corre muda a cavallo di una scopa. La voce di Kanevski ordina all'operatore e poi a lei di fermarsi, di smettere. Un'esplosione, inaspettata e shoccante, di dolore adulto che solo un'urgenza creatrice ancora più forte può trattenere sullo schermo e controllare. La memoria da sola non me sarebbe capace.

Adelina Preziosi, Segno Cinema N. 56 Luglio-Agosto 1992

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