Piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza (Un) - En duva satt på en gren och funderade på tillvaron
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Regia: | Andersson Roy |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Roy Andersson; fotografia: István Borbás, Gergely Pálos; montaggio: Alexandra Strauss; scenografia: Ulf Jonsson, Julia Tegström, Nicklas Nilsson, Sandra Parment,Isabel Sjöstrand; costumi: Julia Tegström; interpreti: Holger Andersson (Jonathan), Nils Westblom (Sam), Charlotta Larsson (Lotta Zoppa), Viktor Gyllenberg (Carlo XII), Lotti Törnros (Insegnante di flamenco), Jonas Gerholm (Colonnello solitario), Ola Stensson (Capitano/Barbiere), Oscar Salomonsson (ballerino), Roger Olsen Likvern (Custode); produzione: Roy Andersson Filmproduktion, in co-produzione con 4 ½ Fiksjon As-Essential Filmproduktion-Parisienne De Production-Sveriges Television Ab-Arte France-Cinéma, Zdf/Arte; distribuzione: Lucky Red; origine: Svezia-Norvegia-Francia-Germania, 2014; durata: 100’. |
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Trama: | Come una coppia di Don Chisciotte e Sancio Panza dei nostri tempi, Sam e Jonathan, due venditori ambulanti di travestimenti e articoli per feste ci accompagnano in un caleidoscopico viaggio attraverso il destino umano. È un percorso che svela la bellezza di singoli momenti, la meschinità di altri, l'ironia e la tragedia nascosti dentro di noi, la grandezza della vita, ma anche l'assoluta fragilità dell'umanità. |
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Critica (1): | Quattordici anni ci sono voluti a Roy Andersson completare la trilogia attraverso la quale ragiona sull'esistenza e sulla condizione umana o, per dirlo con parole sue, «sull'essere un essere umano». Quattordici anni, scanditi da tre opere, nei quali la poetica del regista svedese ha assunto lentamente i contorni di una filosofia sul significato ontologico del vivere e dello stare al mondo da parte dell'individuo, ma anche dell'essere un individuo in mezzo agli altri. Con quest'ultimo film, più che con i precedenti Songs from the Second Floor (2000) e You the Living (2007) però, Andersson sposta gradualmente la lente della propria indagine e il proprio sguardo dal concetto di vita a quello di morte. Linizio del film – che come i precedenti affastella una successione di quadri fissi (trentanove per la precisione) all'interno dei quali personaggi quasi del tutto privi di espressività conducono esistenze piatte, infelici e forzatamente condivise con quelle altrui – mette in fila una serie di morti volutamente ridicole, surreali e insulse. Quasi come se l'intenzione fosse quella di celebrare in un canto funebre monocorde o in un'omelia silenziosa, tanto la devastante solitudine che alla morte si accompagna, quanto la quasi totale coincidenza fra la vita e la morte stessa. E in fondo i personaggi paiono come degli strumenti nelle mani della morte: sono uomini e donne che nell'ergere l'insoddisfazione e l'infelicità a condizione di vita, finiscono per rendersi interpreti di una recita nella quale i gesti e parole smarriscono ogni significato: gli uni per mezzo della reiterazione priva di senso al quale sono soggetti (mangiare, bere, dormire, andare al bar, cantare una canzone), le altre per via del fatto di essere ribadite pigramente senza l'intenzione di voler significare nulla di preciso (la frase «Sono contento di sapere che state tutti bene!», ripetuta a più riprese in questo film, ha la stessa valenza di «Domani è un altro giorno!» o «Nessuno mi capisce!» sentite negli altri episodi della trilogia). Personaggi che si illudono di comprendere il senso del piacere attraverso la sua negazione, come i venditori degli scherzi tristi e squallidi, individui egoisti e mediocri, come re Carlo VIII che si ferma a bere in un bar di Göteborg, o crudeli e cinici, come gli aristocratici che ricercano la propria soddisfazione nel dolore degli altri.
Il piccione del titolo, a detta di Andersson, è ispirato a quello che nel quadro Cacciatori nella neve di Bruegel (forse lì è una cornacchia) che osserva dall'alto di un ramo le vite degli uomini farsi piccole e insignificanti. Il regista, a differenza del piccione, i suoi personaggi li guarda frontalmente, a distanza ravvicinata. E li tratta come figurine che, con gli spazi nei quali si trovano imprigionati, finiscono per confondersi. Le tonalità grigie, verdognole e ocra degli interni, togliendo profondità alla scena, appiattiscono ulteriormente anche le psicologie di chi vi si trova inglobato. Lo sguardo disincantato e amaro di Andersson, pur lasciando sempre spazio al lato ironico di ogni situazione, immagina un mondo fatto di muri e barriere abitato da persone che sono ancora vive pur essendo già morte. Una contraddizione esplicitata da campi medi completamente privi di tridimensionalità nei quali troviamo sempre, in profondità di campo, una via di fuga. Una prospettiva cioè, che conduce lontano e sottende la possibilità di una liberazione, ma che tuttavia resta sempre distante, inaccessibile, del tutto impossibile da raggiungere.
Lorenzo Rossi, Cineforum n. 538, 10/2014 |
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Critica (2): | |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
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