Polvere di Napoli
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Regia: | Capuano Antonio |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Antonio Capuano, Paolo Sorrentino; soggetto: Antonio Capuano, Tonino Aiuti; fotografia: Pasquale Rachini; montaggio: Giorgio Franchini; musica: Marco Zurzolo; suono: Tiziano Crotti; scenografia e costumi: Mario Di Pace; interpreti: Silvio Orlando (Ciriaco/Ciarli), Tonino Taiuti (Gerri), Lola Pagnani (Rosita), Teresa Saponangelo (Teresa), Raffaele Musella (Gino), Antonio Iuorio (Bibberò), Gianni Ferreri (Sanguetta), Gigio Morra (Bilancione), Alan De Luca (Eugenio); produzione: Gianni Minervini per Ama Film; distribuzione: Iif; origine: Italia, 1998; durata: 100’. |
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Trama: | Cinque storie tra Napoli e dintorni. |
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Critica (1): | Antonio Capuano parla della sua opera terza come dell’“ideale prosecuzione nel contemporaneo del grande film di zio Vittorio”, cioè L’oro di Napoli (1954), [...]. In effetti, si tratta di un legame più esibito che coltivato, di una civetteria o, più probabilmente, di una provocazione per sottolineare lo scarto, tra due città e due modi di rappresentarle. Intendiamoci, le parentele, ci sono, a partire dal primo episodio, stralunato sequel del marottiano-desichiano I giocatori, in cui Gennarino, figlio del portinaio, diventa compagno di sventura del rampollo di quel conte Prospero B. del quale era solito battere a carte il padre nell’archetipo. L’ambientazione, in questo caso, è ancora la stessa, il fatiscente palazzo barocco in cui l’ascensore è l’unico segno tangibile dei quarantaquattro anni trascorsi. Più in generale, c’è la stessa frammentazione in episodi che ambiscono a dare l’idea del “clima” di una città, della sua temperatura vitale, con l’intensità dello schizzo e la souplesse della fenomenologia. C’è, infine, a fare da collante, una dimensione di commedia che, assieme al melodramma, è quella che il cinema ha più spesso frequentato per mettere in scena la “napoletanità”. Ma Capuano, autore certamente riconoscibile, si muove lungo le direttrici che caratterizzano un po’ tutta la sua scarna e incisiva produzione, condividendo in maniera originale, quando non anticipando, alcune istanze dei cosiddetti post-piscicelliani, i Corsicato, gli Incerti, in parte lo stesso Martone. Scrivendo su questa rivista di Vito e gli altri (1991), Gariazzo afferma che il regista si appropria “del linguaggio diretto immediato forte ‘di strada’ [...] mettendolo a confronto con referenti ‘altri’ [...] strati ulteriori di contaminazione, di ‘media’ accesi, usati e riusati”. A proposito di Pianese Nunzio (1994), Chiacchiari sostiene che il film “è una continua, ininterrotta variazione sul tema, un susseguirsi di stili, un mescolare immagini, attimi, squarci di vita di una città unica, e di personaggi diversi, ognuno con un suo proprio, profondo, male interiore”, in cui protagonista è alla fine “l’anima di Napoli, una città che Capuano riesce a “catturare” e raccontare come pochi [...]. Polvere di Napoli continua in tutta coerenza questo discorso d’autore, anche se risulta avvertibile lo scarto rispetto ai titoli che lo hanno preceduto. C’è, innanzitutto, la frammentazione che diventa esplicita, organizzandosi in una serie di episodi con una loro autonoma narratività, alla quale fa da esile filo conduttore “esterno” la ricorrente vicenda del matrimonio secondo tradizione, da connettivo simbolico-emozionale la polvere, che, [...] è soffiata dal vento su tutti i protagonisti, e che, nell’alba livida dell’agro campano, assume quasi la definitività funebre della neve nel finale dei “Morti” di Joyce. C’è, come già anticipato, un registro di commedia davvero inedito per Capuano, il quale talvolta sembra faticare a padroneggiarlo, come nell’episodio del viaggio di nozze, anche se la sua appare comunque un’operazione di secondo livello [...]. C’è, infine, una maggiore volontà di rischiare con un linguaggio onirico, surreale, survoltato fino al delirio: le carte che occhieggiano i giocatori e finiscono col prendere fuoco [...], il cannibalismo, le pinne dorsali che, di pari passo con il definitivo scatenamento degli appetiti sessuali, spuntano al guardiano degli scavi soprannominato appunto Squalo, mentre una colonna sonora morriconiana rievoca le “rese dei conti” degli spaghetti western, il flou che avvolge l’ambiguo materializzarsi di Richard Gere, l’autopresentazione “guardando in macchina” di Ciarli e Gerri, quell’incredibile madonna blindata la cui apparizione mattutina assurge in qualche modo a simbolo dello sradicamento della periferia pseudoindustriale. Quasi a premunirsi nei confronti dell’azzardo, Capuano costruisce poi una fitta rete di rimandi e connotazioni. Il mito dello spettacolo, innanzitutto: di De Sica abbiamo già detto, anche se forse andrebbe sottolineata la volontà di cercare addirittura la somiglianza sul piano fisiognomico del protagonista, una specie di sosia del regista-attore di Ladri di biciclette; bisognerebbe aggiungere almeno il Rossellini di Viaggio in Italia, del quale l’episodio pompeiano riprende ed esplicita, forse banalizzandola, ma anche squarciandone con l’ironia il velo sacrale, la tensione erotica che per un attimo sembra coinvolgere la Bergman e il custode durante la visita a Pozzuoli, e il jazz dei Parker e dei Coltrane (l’episodio dei neri nel campo di pomodori), alterità e creatività di una cultura in qualche modo parallela a quella dell’improvvisazione delle grandi maschere (Totò e Peppino), e per questo frequentata con impossibili, subalterni tentativi di contaminazione.
A questa mitologia “alta” si contrappone quella turpe dei media, ancora una volta presenti in modo ossessivo sullo schermo: il Richard Gere dell’aspirante attore che ha il suo doppio nel truffaldino Mister Harmony dell’emittente privata, Silvio Orlando guitto di telenovelas, la stessa sequenza della riconciliazione tra i due coniugi che avviene secondo le modalità dei serial televisivi, e come tale viene vissuta (e applaudita) dai passeggeri del tram. Altro filo conduttore del film, dall’ossessione per il gioco del conto e del portinaio al delirio dell’aspirante attore che pianta i chiodi ovunque mentre disserta sulla propria vocazione “artistica”, è la follia, elemento che caratterizza una città segnata anche da un’alienazione più strisciante, becera e condivisa: nelle avances di sesso al telefonino ad uno dei fratelli prosciuttai, nella meticolosa quanto vuota deontologia “sindacale” del guardiano, nel seme usato come lozione per i capelli, nella festa di nozze, così agghiacciante nella sua “normalità”. [...]
Film composito e mosso, fatalmente diseguale anche perché segnato dagli azzardi della ricerca, Polvere di Napoli conferma dunque le carature di un autore in continua crescita, interprete tra i più dotati di quella che con qualche approssimazione viene definita scuola partenopea.
Paolo Vecchi, Cineforum n. 374, 1998 |
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| Antonio Capuano |
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