E la nave va
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Regia: | Fellini Federico |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Federico Fellini e Tonino Guerra; fotografia: Giuseppe Rotunno; scenografia: Dante Ferretti; costumi: Maurizio Millenotti; musica: Gianfranco Plenizio (testi scritti da Andrea Zanzotto); montaggio: Ruggero Mastroianni; scenografia: Dante Ferretti; costumi: Maurizio Millenotti; effetti: Adriano Pischiutta; interpreti: Freddie Jones (Orlando), Barbara Jefford (Ildebranda Cuffari), Peter Cellier (Sir Reginald Dongby), Norma West (sig.ra Dongby), Victor Poletti (Granduca), Pina Bausch (sorella del Granduca), Philip Locke (ministro del Granduca); Marika Rivera (Teresa Valegnani Saltini Cioffi), Gordon Kay, Sarah Jane Varley, Elisa Mainardi, Valentin George e Hawtrey Charles (maestri di canto), Janet Suzman; produzione: Franco Cristaldi per RAI / Vides Produzione/Gaumont; distribuzione: Cineteca di Bologna; origine: Italia, 1983; durata: 132'. |
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Trama: | Il film è la storia di un viaggio, un viaggio per mare, per compiere un rito, un viaggio che si suppone sia avvenuto sessant'anni fa, alla vigilia della prima guerra mondiale". Così, molto dimessamente, Fellini presenta il suo film: "E la nave va". Siamo infatti nel luglio 1914. Il piroscafo "Gloria N" sta per salpare dal molo n. 10 di un porto italiano. E' una crociera omaggio-funebre alla cantante dalla voce divina Edmea Tetua, le cui ceneri saranno disperse sul mare, nei pressi dell'isola Erimo, dove la cantante è nata. Ci troviamo così sulla nave con un campionario di varia umanità: cantanti, impresari, maestri di canto, direttori d'orchestra, ammiratori, nobili, perfino un granduca prussiano, Harzock, con la sorella cieca veggente principessa Lherimia e la loro piccola corte, oltre agli ufficiali e marinai di bordo. Su tutti aleggia la grande cantante scomparsa, Edmea: di lei si parla, si tessono elogi, si cerca perfino di evocarla con una seduta spiritica. Fra questa folla s'insinua, compare e scompare, il giornalista Orlando, il quale si affanna a raccontare agli spettatori aneddoti, indiscrezioni, confidenze, presenta i vari personaggi, con le loro piccole storie e ridicole manie. Tutto prosegue fra le noie e le varietà del gran mondo, finchè il piroscafo accoglie a bordo dei serbi, naufraghi, sfuggiti agii orrori della guerra scoppiata con l'Austria, dopo l'uccisione del granduca Ferdinando a Serajevo. Il campionario umano della "Gloria N" si arricchisce del variopinto folklore popolare. Le due società, nobile e plebea, fraternizzano, finchè compare la nave ammiraglia austriaca a richiedere la consegna dei naufraghi. Solo per l'intervento del granduca Harzock è possibile completare la crociera funeraria e spargere le ceneri di Edmea in prossimità dell'isola Erimo. Quindi i naufraghi serbi vengono calati nelle scialuppe per essere consegnati agli austriaci; ma un giovane serbo lancia una bomba sulla ammiraglia austro-ungarica, la quale scarica i suoi cannoni sulla nave italiana e la "Gloria N" cola a picco. L'ultimo saluto agli spettatori lo darà, con uno sberleffo, il giornalista Orlando, mentre si mette in salvo con una scialuppa. |
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Critica (1): | L’anno scorso Federico Fellini, parlandomi di E la nave va..., cui si accingeva a dare il primo giro di manovella, mi disse di averne avuta la prima idea leggendo di un gesuita che, in una sua corrispondenza con un ambasciatore, aveva dato delle cause della Prima Guerra Mondiale una versione diversa da quella dell’attentato di Sarajevo.
La verità, le verità, le menzogne. È le menzogne della Storia. Se mente la Storia perché non potrebbe mentire anche il cinema, che, per sua stessa natura, è finzione? Finzione, perciò, artificio, con il sussidio, ancora una volta, della fantasia ma, qui, in modo più prepotente, nuovo e deciso che non in altri film di Fellini, con il sussidio anche dell’immaginario, per confondere il reale con il suo simbolo, la metafora con l’estasi ludica, la verità nascosta non solo con quello che nasconde ma anche con lo strumento che, per interpretarla, la fabbrica: ancora una volta il cinema, cioè, che dopo aver tutto inventato e costruito, arriva a smontare questo tutto rivelando i suoi retroscena e le sue quinte, per denunciare la finzione ma anche per proclamare la poetica delle verità raggiunte con il gioco. Perché se ogni cosa mente, la sola realtà è l’immagine così come ce la evoca il Poeta.
Un poeta, però, che non se ne sta chiuso in una sua torre d’avorio e che invece, uscito fuori ormai dalle ricerche del suo tempo perduto personale, torna a guardarsi attorno come aveva già fatto nella Dolce vita e in Prova d’orchestra e scorgendo nuovamente fra di noi i “mostri” provocati dal “sonno della ragione”, dà l’allarme. Senza ammonire, senza minacciare, anzi, secondo la propria indole, mistificando la profezia sotto l’apparenza dello scherzo, ma non tacendo, per questo, né il dolore né l’orrore. Perché Maràn athà, il “Signore viene”, l’Apocalisse è vicina...
La nave va. E noi sulla nave. Con un rinoceronte nella stiva e delle ceneri sul ponte di comando, delle ceneri di un’illustre defunta perché quel viaggio in realtà è un funerale e la sua meta, dopo la partenza da Napoli, è un’isola dell’Egeo dove, per volere della defunta, che era stata una grandissima cantante lirica, quelle ceneri andranno disperse al vento, tra cielo e mare. Un viaggio–funerale e come conclusione una sepoltura. Di più. Anche tutti quelli che viaggiano sulla nave, gente di teatro, artisti lirici, colleghi e ammiratori della grande cantante, sono già cenere senza che lo sappiano, destinati anche loro a sepoltura. Come il mondo e l’epoca che li accolgono, la Belle Epoque arrivata alle soglie della Grande Guerra, come noi che, in questi anni Ottanta, non siamo molto diversi, per situazioni e problemi, da quelli che vissero il 1914 e si inabissarono con “belle morti”, nella “bella guerra”.
Mostri nella stiva, mostri sul mare (la guerra, qui, non la fa scoppiare Sarajevo bensì l’affondamento della nave – italiana ma con dei profughi serbi a bordo – ad opera di una “ammiraglia” austriaca incrociata poco dopo l’attentato). Dei mostri, però – e qui interviene il poeta con il suo gioco – che della nave che li accoglie, pur essendo lo specchio del mondo (quello di ieri e quello di oggi), fanno un circo e che trasformano lo spettacolo con cui sono portati in scena in una incantata magia dove reale, irreale, iperreale e surreale si fondono e si sovrappongono di continuo: come in una favola che voglia essere ad un tempo cronaca e sogno, menzogna scopertissima e giustificazione costante, e amara, di una menzogna che invece è la sola verità.
Bastano, a chiarirlo, le pagine iniziali, fra le più alte di tutto il cinema di Fellini, e anche di molto cinema contemporaneo. Siamo al momento della partenza della nave. Non sappiamo ancora nulla di nulla e, per prima cosa, ci accorgiamo che non sappiamo e non capiamo nemmeno il tipo di film cui ci stiamo avvicinando. È un film muto, con le immagini di un bianco e nero tinto di seppia e, soprattutto, con i modi, i ritmi, le cadenze e persino le didascalie impreziosite da disegni floreali del cinema muto fra il Dieci e il Venti. Un film, ma, in primo piano, si vedono anche quelli che lo stanno girando, con le loro macchine sui trespoli, e si vede ogni tanto un tale che, rivelandosi giornalista, ha l’aria di commentare o presentare le immagini che ci vengono proposte. Immagini curiose, nate alla lettera dai film di quegli anni, con la gente che qua e là guarda in macchina (non dissimile in questo dalle odierne folle televisive) e con altra gente, altrettanto curiosa ma anche misteriosa, che si fa via via attorno alla nave sul molo: impietrita, ad un certo momento, dall’arrivo di un funerale solennissimo dal cui carro viene tolta una piccolissima urna, scortata deferentemente a bordo da tutto l’equipaggio.
Con quell’arrivo si scioglie il primo incanto e insensibilmente, grazie ad un prodigio di tecnica che sembra operato da un prestigiatore o da una bacchetta magica, dal muto e dalla seppia si trapassa (verrebbe fatto di dire “ci si sublima”), nel parlato e nel colore, approdando a un altro film che non dimentica, però, nella fabbricazione dell’immaginario, il film iniziale, la sua sostanza, le sue apparenze: specie in quel mare tutto finto su cui si levano finte lune e calano finti soli mentre si attende, all’ultima pagina, l’apparizione altrettanto finta e dipinta dell’“ammiraglia” austriaca, un nerogrigio mostro da incubo i cui cannoni finti, però, sputano fuoco vero, per distruggere, al momento stabilito, tutto quel mondo due volte finto.
Vediamolo questo mondo: in viaggio su quella nave che ora, pur essendo sempre di cartone, con i colori ed i suoni accoglie con più verosimili spazi tutta quella gente stravagante, specchio per metà di un’epoca e, per un’altra metà, riflesso nostro, emblematico ma non coperto. C’è la rivalità, c’è l’invidia, c’è, insieme con la brama del successo, la difficoltà di vivere la vita, o i sentimenti, o le famiglie; c’è il senso della classe e delle classi (come oggi, non illudiamoci), ci sono gli intrighi dei politici, le trame degli arrivisti, le vacuità e le fatuità dei perdigiorno; i vizi (molti) e le virtù (poche). In una girandola di personaggi, di situazioni, di fatti e di non fatti cui il Poeta, per amore dell’attimo fuggente o dell’ellissi, non si preoccupa intenzionalmente di dare altra logica, altro legame al di fuori della condizione in cui si trovano, e della cornice – la nave – che li accoglie. Contano, certo, quei personaggi, ma contano altrettanto, se non a volte di più, i climi in cui sono immersi, che determinano o che li determinano, e quegli sfondi finto–veri su cui si stagliano ora come esseri umani, ora invece solo come maschere e clowns.
Come in Prova d’orchestra gli orchestrali, anche qui tutti questi personaggi hanno un elemento in comune, l’opera lirica. Gli orchestrali, in Prova d’orchestra, suonavano per raggiungere invano un’armonia in un mondo minacciato dalla disarmonia della fine, i passeggeri della nave cantano illudendosi all’inizio di cantare in memoria di una defunta, accorgendosi da ultimo che stanno invece cantando l’inno funebre di se stessi, senza riuscire, con questo, a esorcizzare né il naufragio, né la morte. Una morte “bella”, perché salutata con il canto, ma sempre la morte, il diluvio, anche se il personaggio–filo conduttore, il giornalista che durante tutto il film, parlando ai suoi futuri ascoltatori ha parlato anche a noi, tiene ad assicurarci, su una barchetta arca di Noè, che da quella “fine del mondo” qualcuno si è salvato, lui, per esempio, e il rinoceronte, che è femmina e che dà un latte buono.
Il canto, la musica. A “far bello”, ma anche a beffare. Non solo perché a quelle opere liriche di Verdi o di Rossini son state cambiate le parole dei libretti (da Andrea Zanzotto), per dare al senso narrativo del film anche un senso ironico d’opera, ma perché il canto, la musica intervengono di prepotenza a colorire spesso questo o quel personaggio o a dar sfondi nuovi, e più fondi, a questa o quella situazione. L’esibizione vanitosa dei cantanti, ad esempio, di fronte ai fuochisti, nella stiva della nave, comicamente dettata da uno spirito acre di rivalità e, in un’altra pagina, quello Schubert suonato in cucina tra i bicchieri, e con i bicchieri, dai due vecchi maestri di musica, parodia amabile di loro stessi, con lirismi, però, tenerissimi e sottesi; per chiudere, appunto, con il finale tutto cantato che, avviato come un rito funebre di fronte alle ceneri della cantante, si risolve in una autoapocalisse, con immagini, ritmi, tensioni ed effetti di un fascino addirittura lacerante, colmo di tutti gli splendori del cinema, dei suoi misteri, dei suoi arcani, delle sue beffe; non a caso demistificati subito dopo dal Poeta (che il cinema lo ama e vuol farlo amare anche come baraccone) con quella scoperta del film mentre si fabbrica, e la rivelazione inattesa e improvvisa, dei trucchi, degli ordigni e dei congegni del teatro di posa di Cinecittà. Il molteplice gioco delle verità, la radiografia di una poesia che, proprio perché soggettiva, immaginata e immaginifica, si muove totalmente nella finzione. Anche se per arrivare al fantastico parte dal reale (che studia, che tiene dolorosamente chiuso in sé, che ci trasmette).
Altri elementi da apprezzare tutti, nella “gran fabbrica” di Fellini, la recitazione e le tecniche. Il film non ha protagonisti, ma ha tutte facce, in un coro in cui ognuna ha la sua collocazione giusta, la sua evidenza colorita e colorata. Passo sopra quella del giornalista–filo conduttore (Freddy Jones), forse la meno insolita per certe sue ammiccanti citazioni di Frank Capra, ricordo (e con particolare intensità) le altre, già incise nella memoria, già affidate alla storia del cinema, da cui, come tante altre eccezionali facce felliniane, non usciranno mai più. La principessa cieca, per prima (Pina Bausch), gli occhi vitrei, il viso glabro, un mistero fra amore, distacco, disprezzo e potere così preciso e sottile da diventare emblematico, Poi un’altra donna, il soprano (Barbara Jefford) che vorrebbe scoprire i segreti canori della defunta, lei con gli occhi bene aperti, accesi, curiosi, ma fissati sul nulla. Quindi l’ex amante o il presunto amante della defunta (Pasquale Zino), un fantasma di se stesso in contemplazione muta di un altro fantasma, e lo snob inglese (Peter Cellier), vittima di una moglie ninfomane, e il tenore tronfio e goloso (Victor Poletti), e la fanciulla testimone dell’eterno femminino felliniano (Sarah Jane Valery), e il granduca deforme e infantile (Fiorenzo Serra), esatto parallelo, nell’umano, di un “bestiario” in cui, oltre al rinoceronte mostro fra i mostri, si possono anche incontrare una gallina, che finirà ipnotizzata, e un gabbiano che, impaurendo tutti, lascerà cadere una piuma nel décolleté di una dama. Ma ci sono anche politici asburgici, ufficiali di bordo, sovrintendenti di teatri lirici e, nella pagina più crucciata, una torma di profughi serbi che, anche loro, si illudono di esorcizzare con balli e canti la fine che li attende. Mentre sulle immagini si addensano luci di piombo.
Queste immagini, a tu per tu con le scenografie di Dante Ferretti scaturite dai disegni sempre onirici di Fellini, sono frutto, ancora una volta, dell’occhio magico di Giuseppe Rotunno: è suo il memorabile, quasi indistinto trapasso dal bianco e nero al colore, sono sue quelle luci d’incubo attorno alla corazzata austriaca tutta avvolta nel suo fumo dipinto, sono sue quelle tinte di serra e d’acquario in cui all’inizio la crociera–funerale si fa avvolgere con il gusto aereo del Liberty. in equilibrio, sempre, fra un reale che si vuoi smentire e un mentito, una menzogna che si tende a trasformare in reale. Nella cifra sortilegio di Fellini, per il suo sublime e stregato gioco di prestigio.
La gioia della favola. Anche quando è nera e si tinge d’angoscia.
Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 7/10/1983 |
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Critica (2): | Il mare è finto, la corazzata è una sagoma, tutto il film è stato girato in studio. Perché, allora, il pubblico accetta? Mi sono risposto che la verità delle sue immagini s’impone allo spettatore con l’evidenza di un sogno. Come nella vita non abbiamo mai la scelta del sogno, ma è il sogno che sceglie noi, così E la nave va bussa come un sogno alla nostra porta, anzi la sforza – dice Caillois – “come un visitatore impaziente e scostumato” [...] Felliniano senza fellinismi, o quasi; film sulla musica che alla musica tende (ma la mancanza di Nino Rota si sente...); tutto posto sotto il segno del lutto, ma sereno e come dolcemente distaccato; ricco di molte bellezze, ma senza prevaricazioni scenografiche; allarmante e qua e là angoscioso, ma anche divertente, allegro, pervaso da un quieto e cauto amore per la vita, E la nave va è un film diverso: appare come la prima tappa della terza età di Fellini. Questa diversità s’avverte anche nell’atteggiamento verso le figure e le figurine che affollano la nave, tra le quali bisogna citare almeno l’enigmatica principessa cieca Pina Bausch. Fellini mette la sordina al suo gusto della caricatura, dell’irrisione scherzosa, del mostruoso: c’è affetto ma con distacco critico verso questi personaggi e c’è soprattutto rispetto.
Morando Morandini, Il Giorno, 7 ottobre 1983 |
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Critica (3): | (...) Eppure questo è un film con tanti cassetti segreti, pieno di doppi fondi e di sorprese. Facilissimo da capire anche per un bambino, immediatamente moltiplicabile in un’estrema varietà di suggestioni e significati. E la nave va è innanzi tutto una cosa da guardare perché è bella, traboccante di animazione e di colori. Poi una cosa su cui riflettere: non sistematicamente, non con lo spirito di chi cerca una risposta a un problema. Tra le contraddizioni di Fellini, nemico da sempre di ogni forma di “engagement”, c’è anche quella di non riuscire a sottrarsi al momento in cui vive. E neanche alla tentazione del “guru” che, dopo essere stato tanto sollecitato, emette suo malgrado una sentenza, un viatico, qualcosa che aiuta a vivere: l’immagine di Orlando sulla stessa barca del rinoceronte, come un Ismaele che si sia tirato Moby Dick sul relitto della nave. Il Testimone e il Mostro, l’Intelligenza e la Natura nella sua totalità: stretti insieme sull’ultima cosa che galleggia, sull’acqua, dopo il naufragio di tutte le grandi navi della storia, indispensabili l’uno all’altro, imprescindibili, legati per sempre. Un film che si può affrontare senza l’assillo dei superpensieri e dei superimpegni, proprio la favoletta di cui Fellini ha tanto parlato. Ma anche un film da sfogliare immagine per immagine, avanti e indietro, vedendolo e rivedendolo nell’attesa immancabile che si compia il miracolo dell’agnizione. Perché in quella folla di personaggi buffoneschi e caricaturali, lieti o minacciosi, là in un angolino della foto di gruppo, tra una dama e un ufficiale, tra un serbo e un fuochista, ci siamo anche noi.
Tullio Kezich, La Repubblica, 7 ottobre 1983 |
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Critica (4): | Forse l'unica strada per non lasciarsi trarre in inganno dalla manipolazione del mito, per non impantanarsi nella coreografia delle celebrazioni a futura memoria e nella beatificazione dell'"autore che finalmente ha partorito", è quella di avvicinarsi all'ultimo film di Fellini prendendolo per quello che è: un repertorio, una silloge di materiale e stimoli non più coesi in un racconto ma dipanati con consapevole manierismo.
In una mostra, come la 40esima, di Venezia, che ha visto trionfare le ricerche d'identità e gli insegnamenti del tempo perduto, da Godard a Resnais, da Allen a Costa Gravas, da Bergman a Pupi Avati, Fellini gioca la proverbiale carta del "raccontarsi addosso" non più come punto di partenza bensì come punto d'arrivo narratologico, dal quale ripartire in un percorso all'indietro, denudante e demistificante.
Il cinema e l'opera, la musica e la Storia: lungo questi temi-ossessioni gli "autori" srotolano le proprie poetiche della disfatta e della memoria, catalogando ogni emozione e pulsione secondo pratiche dell'immaginario che non corrispondono più a schemi di ricapitolatorie e summatorie minate dalla serialità e, ovviamente, dalla prevedibilità. La riuscita delle singole perlustrazioni (o, se volete, autoanalisi) dipende evidentemente dalla latitudine e longitudine sotto cui si svolgono; nel caso di E la nave va, gioca un ruolo fondamentale quell'area culturale veneto-romagnola della quale, ad esempio, il melodramma è ingrediente essenziale, come momento di recupero e diluizione del mito. Purtroppo però il provincialismo, inteso non come declassamento di una cultura autenticamente "di provincia", ma come rimpicciolimento compiaciuto e pettegolo di tematiche e sentimenti, è in agguato dappertutto, a New York come a Parigi: figuriamoci sull'asse Rimini - Pieve di Soligo, costituzionalmente fertilissimo per seminare fantastiche degradate e "riluttare" orgogliosamente kitsch. L'"entente cordiale" Federico Fellini-Andrea Zanzotto, che nel Casanova viveva di improvvise accensioni verbali e mortuari ripiegamenti lirici, qui si semplifica e sfilaccia in annotazioni per così dire a margine dell'opera, non significanti né significate. Rilibrettare pagine verdiane per accompagnare l'"ultima crociera" di un composito universo umano in pellegrinaggio alla memoria della grande soprano scomparsa e continuamente evocata, è un'impresa nel contempo facile e difficilissima. Imbastire un intero film con un set nel set, iscrivendolo e distanziandolo, tra un prologo ed un epilogo dichiaratamente "truccati" e ammiccando, nel finale, al "set fuori dai set", non è di per sé operazione metalinguistica ma può banalmente ridursi ed escamotage furbesco; carrellare all'infinito su voltimaschere infinitamente déjà vus, aiutandosi con l'anfitrione ancora distanziante (ma che ancora non distanzia un bel nulla) Freddie Jones, molto meno efficace del nano della Nave dei folli di Kramer (film cui senz'altro Fellini guarda, insieme al mito del Titanic) e, di nuovo, un dato sospeso, un discorso continuamente interrotto che si aspetta per più di due ore di veder coerentemente concludere.
Invece Fellini non conclude ma socchiude il film costringendoci ad origliare nel suo magazzino di incubi pubblici e privati, finalmente decontestualizzati e privati di qualsiasi alterità. Ne risulta, paradossalmente, che pur essendo - come è stato detto - più un film "à la maniére de" Fellini che di Fellini stesso, E la nave va è il più felliniano dei suoi film. Proprio perché, tirate le somme, in esso "l'autore" svela senza pudori o reticenze la grottesca "cosalità" del proprio cinema. Il sogno che sogna sé medesimo, negandosi al dormiente.
Roberto Pugliese, Segno Cinema, n. 10 novembre,1983 |
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