Croce di ferro (La) - Cross of Iron
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Regia: | Peckinpah Sam |
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Cast e credits: |
Soggetto: tratto dal romanzo Das Geduldige Fleisch (La carne paziente) di Willi Henrich; sceneggiatura: Herbert Assodi, Julius J. Epstein; fotografia: John Coquillon; musiche: Ernest Gold; montaggio: Mike Ellis, Tony Lawson; interpreti: Senta Berger, James Coburn, Klaus Lowitsch, James Mason, Maximilian Schell, David Warner; produzione: Emi (Londra) - Rapid (Monaco) - Terra (Berlino); distribuzione: Cineteca Lucana - Cineteca Griffith; vietato: 14; origine: Germania - Gran Bretagna, 1977; durata: 135'. |
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Trama: | Nel 1943, nella penisola di Talman, in Russia, un battaglione della Wehrmacht agli ordini del colonnello Brandt tenta un'impossibile resistenza all'avanzata dei sovietici. Tra gli uomini che piu' si distinguono nell'impari lotta è il sergente maggiore Rolf Steiner. Prima di finire in ospedale per una grave ferita alla testa, Steiner si è inimicato - rifiutando di avvalorare una sua menzogna, che gli consentirebbe di guadagnarsi la "croce di ferro" - il capitano Stransky, un aristocratico prussiano che si è fatto trasferire a Talman proprio per conquistarsi quell'ambita decorazione. Quando Brandt dà l'ordine di ritirarsi, Stransky si vendica di Steiner lasciandolo all'oscuro della decisione. Benchè intrappolato, col suo plotone, nelle retrovie sovietiche, Steiner riesce egualmente a ritrovare il suo battaglione, al quale segnala, per radio, l'arrivo suo e dei suoi uomini. Stransky, allora, induce il tenente Triebig - un ufficiale omosessuale che egli tiene in pugno - ad accogliere a colpi di mitra Steiner e il suo plotone. E' un massacro, ma Steiner si salva, uccide Triebig e, pur risparmiando la vita a Stransky, lo riduce alla propria mercè. Un ultimo scoppio spazzerà via anche loro. |
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Critica (1): | La Croce di Ferro è il secondo film "europeo" di Peckinpah dopo Cane di paglia, ed è anche il primo che il "regista della violenza" ambienta durante un conflitto bellico. In precedenza, soltanto in Sierra Charriba si avvertiva la presenza, indiretta ma acuta, della guerra (in questo caso quella di Secessione), mentre ne // mucchio selvaggio Pike e compagni combattevano e morivano partecipando privatamente ad una rivoluzione significativamente localizzata nel Messico, per eccellenza spazio altro o dell'utopia.
Per il resto, le sue storie hanno sempre avuto una dimensione individualistica, giocata sulla contrapposizione tra i sopravvissuti di una non più mitica "no man's land", luogo dell'istinto ma anche dell'onore, e l'inarrestabile progredire di una "civilizzazione" tanto più lurida quanto più si sforza di offrire di sè un'immagine necessaria e razionalizzante. Contro di essa non valgono più il recupero del fantastico, in un altrove da cartolina o in una continua sfida a sé stessi (Junior Bonner), l'ironica constatazione della validità - nonostante tutto - di pochissimi principi elementari ma fondamentali (Getaway!), la diversità tollerata e sostanzialmente innocua di qualsiasi Forte Summer (Pat Garrett e Billy Kid (...). Non è quindi paradossale che il regista dei devastanti effetti delle Colt si sia accostato soltanto ora al genere bellico. La violenza istituzionalizzata, incanalata nelle ferree guide della gerarchia e della disciplina, esula probabilmente dai suoi interessi, mentre gli mancano sicuramente lucidità e cultura per dare corpo ad un discorso non raffazzonato su questo argomento già troppe volte affrontato dal cinema. Ora, è certamente vero che i produttori, europei che hanno affidato a Peckinpah il compito di portare sullo schermo il romanzo "Das Geduldige Fleish" di Willi Heinrich, volevano realizzare niente altro che un prodotto "di genere", magari fatto meglio, sulla falsariga dei successo degli ultimi ponti o delle battaglie nel Pacifico. Ma il sangue non è acqua, e questo straordinario autore, i suoi personalissimi "trade marks", non possono essere costretti nell'ambito angusto della confezione. Fedele ad una sua "linea" tematica, Peckinpah, con La Croce di Ferro, la continua e la arricchisce.
Come al solito in Peckinpah, i titoli di testa, lunghi e curatissimi, assumono un'importanza decisiva (come d'altronde quelli di coda) a determinare il senso complessivo del film. I brani di cinegiornale contrappongono responsabilità collettive e tragedie individuali, bellicismo coreografico da parata e durissima realtà dei campi di battaglia, baciamano del Fuhrer e sventolii di bandiere della hitlerjugend. La canzoncina infantile e la successiva marcetta, così poco marziale, "staccano" nettamente colle sequenze, mentre il passato si coniuga al passato e il documento sfuma nella finzione. Una data e un'indicazione geografica precisano ulteriormente il momento storico, quello della ritirata dell'esercito nazista. Ma è subito evidente che nel film non c'è nessuna volontà di "fare storia".
Tra tutte le coordinate che vengono indicate, l'unica che interessa realmente Peckinpah è quella dello sfacelo, dello sfascio totale di,un sistema di riferimenti morali e sociali, della riduzione di tutto al primordiale istinto di sopravvivenza. Se il west è una "no man's land" che presto verrà "civilizzata", il fronte si trova in una situazione simile, ma capovolta: la guerra ha fatto piazza pulita dei "valori" socialmente rilevanti ed ha intaccato lo stesso principio gerarchico. Nessuno, neppure, si badi bene, lo stesso Stransky, crede nel trionfo del Reich millenario o nella supremazia della razza ariana, e, l'unico nazista,Zoll, è una figura di secondo piano, un fesso che si fa mutilare da una soldatessa russa (e Steiner lo abbandona alla furia delle compagne). Luogo della precarietà e della morte, il fronte livella le differenze e, nella ripetizione continua della violenza, la rende normale, determinando soltanto una serie di sfumature nell'atteggiamento di fronte ad essa. Attento osservatore della dinamica interna ai gruppi (Il mucchio selvaggio), Peckinpah divide in due tronconi i suoi "uomini in guerra": da un lato il plotone di Steiner, dall'altro gli ufficiali (ad eccezione di Meyer). I componenti del primo, insieme "dirty dozen" e "wild bunch", senza però la gratificazione di un riscatto nel dovere o nella morte, sono mossi da una sconsolata professionalità e da un istintivo vitalismo, trovando nella solidarietà e nell'azione la loro giustificazione morale e narrativa. Gli altri sono soldati comprensivi ma impotenti (Brandt), intellettuali lucidi ma inutili (Kiesel), damerini pavidi e omosessuali (Triebig). Nel loro rapporto di dare e avere, su cui pesano in modo non marginale ragioni di classe, è subito chiaro da che parte pieghi la bilancia.
Questa scelta di campo operata dal regista è esemplificata dalla diversa considerazione che avvenimenti analoghi vengono ad assumere nei due gruppi, avvenimenti sui quali egli insiste con un voluto parallelismo del montaggio. Si veda, ad esempio, l'atmosfera cameratesca della festa per il tenente Mayer, allietata dal ragazzo russo (che Stransky voleva far fucilare), che porta la torta, fortemente contrastante con quella fredda e formale del brindisi degli ufficiali, la bonomia con cui viene accolta l'uscita infelice della recluta che brinda alla vittoria (mentre a Kiesel va di traverso lo stesso brindisi), o il significato completamente antitetico che viene ad assumere il bacio in bocca al soldato in preda a una crisi isterica rispetto alle "attenzioni" di Triebig nei confronti del suo attendente. Ma dove l'atteggiamento partecipe e ghignante di Peckinpah si rivela più scoperto è nella sequenza dell'attacco russo, a cui si oppongono in modo spettacolare e suicida Meyer e Steiner, mentre, in parallelo, Stransky tenta di organizzare, pilotato telefonicamente da Brandt, un grottesco contrattacco, pur rimanendo sempre in trincea e lamentandosi alla prima scalfittura. È l'elogio (cinematografico) dell'azione, della sua dimensione ludica.
Figure-simbolo e insieme casi limite di queste due situazioni contrapposte, Stransky e Steiner sono legati ad un medesimo destino, arricchendo progressivamente in una sintesi che si rivela. necessaria l'iniziale, semplicistica antitesi militare buono-militare cattivo.
In modo meno ricco e sfumato rispetto a Sierra Charriba, per molti versi analogo nel rapporto Dundee-Tyreen, le motivazioni che spingono questi due personaggi risultano ben presto palesi.
Stransky è un nobile, uno Junker, la Croce di Ferro costituisce per lui un obiettivo indispensabile al mantenimento di una dignità di casta.
Ma, abituato aristocraticamente a "non sporcarsi le mani", gioca la sua partita secondo le regole del cinismo e della viltà calcolata. Razzista, seppure in modo meno grossolano rispetto all'ideologia 'nazista, è abituato al privilegio e lo considera suo appannaggio anche nello sfacelo generale. Ultima raffica di una casta militare settecentesca, conserva, per Peckinpah, una sia pur lurida dignità ("Ti farò vedere come combatte un ufficiale prussiano") che gli permette, nonostante la sua natura spregevole, di sollevarsi al di sopra dei suoi pari. Di origine proletaria, Steiner incarna invece l'ambigua ideologia del vitalismo americano, il pragmatismo eroico, la violenza istintiva nell'azione e nei sentimenti. Motivato da un passato appena accennato, dalla perdita di un numero non meglio precisato di figli, cerca sostituti (il plotone, il bambino russo) su cui riversare carica affettiva e vocazione pedagogica. Nel fronte, nel truculento "gioco della guerra", si riconosce e trova la propria dimensione ottimale. Odia gli ufficiali non per motivazioni classiste, ma perchè vede in loro l'ultima reincarnazione, moribonda, di una normatività devitalizzante che sta portando al disastro lo stesso genere umano. Tuttavia è anche, a modo suo, un intellettuale che cita Von Clausewitz e conosce Kant e Schubert, che rivendica i diritti della capacità individuale contro la presupposta superiorità di casta. Ma la sua ideologia risiede soprattutto nell'azione, che traccia le coordinate del suo essere-pensare meglio di un sillogismo. La sua assunzione finale di Stransky a plotone-figlio-bambino, la dimensione ironicamente esplicativa a cui si piega quella che lo spettatore pensa sarà una terribile vendetta, riduce a sintesi una contrapposizione che in un primo tempo poteva sembrare irriducibilmente manichea. (...)
Paolo Vecchi, Cineforum n. 173, 4/1978 |
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| Sam Peckinpah |
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