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Grande cocomero (Il)


Regia:Archibugi Francesca

Cast e credits:
Soggetto
: Francesca Archibugi; sceneggiatura: Francesca Archibugi; fotografia: Paolo Carnera; musiche: Roberto Gatto, Battista Lena; montaggio: Roberto Missiroli; scenografia: Livia Borgognoni; interpreti: Sergio Castellitto (Arturo), Alessia Fugardi (Valentina "Pippi" Diotallevi), Anna Galiena (Cinthya Diotallevi), Armando De Razza (Marcello, papà di Pippi) , Silvio Vannucci (Gianni), Alessandra Panelli (Fiorella),Victor Cavallo (Don Annibale), Laura Betti (Aida), Lidia Broccolino (Laura), Gigi Reder (Turcati); produzione: Leo Pescarolo, Guido De Laurentiis, Fulvio Lucisano per Ellepi - Crysalide - Moonlightfilms; distribuzione: Italian International Film; origine: Francia - Italia, 1993; durata: 101'.

Trama:A Roma Valentina, una dodicenne soprannominata Pippi, figlia di Cinthya e Marcello arricchiti ma senza ideali, in seguito ad un attacco di epilessia viene ricoverata nel reparto di neuropsichiatria infantile. Un giovane psichiatra, Arturo - appena uscito da una crisi coniugale che sta sforzandosi di esorcizzare - sebbene convinto che il caso sia piuttosto di natura neurologica che psichiatrica, accoglie la ragazzina nel suo reparto, preso da spontaneo interesse per lei. Pippi rivela subito un carattere scontroso e provocatorio, e risulta in difficile rapporto con i genitori, per cui Arturo si propone di tentare con lei una terapia analitica, studiandone attentamente le reazioni al fine di riportarla alla normalità.

Critica (1):Al reparto di Neuropsichiatria infantile del Policlinico di Roma viene ricoverata una ragazzina di 12 anni, Pippi, presunta epilettica. Si prende cura di lei Arturo, un giovane psichiatra dalla vita privata instabile (vive solo dopo essere stato lasciato dalla moglie) ma capace di sentire e, soprattutto, dì cercare nel disagio sociale e familiare la causa di molti drammi. Nel caso di Pippi, una famiglia di arricchiti prossima allo sfascio.
Il reparto soffre di tutta la precarietà tecnico-organizzativa che si può immaginare, tuttavia Pippi, grazie alla costanza del medico che viene coinvolto anche per una esigenza personale di chiarimento, vi trova un ambiente affettivo accettabile. Ben presto, anzi, è chiamata a collaborare assistendo una bambina cerebrolesa di 6 anni. Quando quest'ultima muore, Pippi sembra sul punto di regredire, ma Arturo riesce a mantenerla nel solco della cura e ad avviare, con fatica e dedizione autocritica, un cammino di "guarigione".
Giunta al suo terzo lungometraggìo (ma anche i corti andrebbero considerati per rintracciare i segni di una vocazione) Francesca Archibugi si addentra in luoghi drammatici sempre più difficili: finora era rimasta nel chiuso della famiglia - anche se quella di Mignon rappresentava un mondo variegato, e la casa di Verso sera avvertiva le pressioni di un esterno imprescindibile - adesso si allarga sulla città ponendo gli individui a confronto con relazioni ambientali "oggettive". Il processo della regista implica dunque una evoluzione del rapporto col comico e con una tradizione italiana che ha sempre tenuto in alta considerazione; all'uscita di Verso sera aveva detto: "...Della "Commedia all'italiana" a me piace l'elemento fondamentale: che ha sempre fatto ridere sulle cose più drammatiche del nostro paese. Questo e non tanto i modi, cioè il modo registico di realizzare le storie... (...) Adesso sto scrivendo una storia ancora più drammatica e dunque più tragicomica di quelle che ho scritto finora; spero di riuscire a completarla col giusto equilibrio, perché se non va in sceneggiatura non la giro ..."
Mi sembra che Il grande cocomero dia esiti confortanti sia riguardo alla sceneggiatura - è infatti un film ben scritto che conferma nell'Archibugi un talento cineletterario specifico sia nel rapporto con la tradizione comica, grazie a un distacco e a una continuità di stile capace di evitare le cadute che appesantivano le prove precedenti. I modi della commedia restano e sono usati dalla regista per trovare un respiro quotidiano a una storia di amori e dolori, ma senza indulgenze al carattere greve; quasi un bisogno di resistenza di fronte alla severità di un "caso clinico" che si evolve (l'epilessia di Pippi si rivela finta, cioè come difesa di fronte ai mali insostenibili della crescita) e informa di sé un ambiente alla deriva. Un ambiente che pesa a sua volta e sul quale lo sguardo viene puntato con disagiata precisione e limpido risentimento: strade anonime e rumorose - la città vagolante e stordita che appare dagli stacchi, dai luoghi paralleli, dagli scorci stressati - parrocchie "terzomondiste", abitazioni eternamente provvisorie.
Immersa in tutto ciò con ispirazione sincera e con un senso di ineluttabilità "lieve" che le permette di reggere la concretezza della materia scelta, Francesca Archibugi vuole anche offrire una sua testimonianza; pur essendo molto giovane ha potuto cogliere il sapore di una stagione, il dopo-sessantotto, assai intensa. Ne danno prova la lettura e l'utilizzo dei testi "psichiatrici" di Marco Lombardo Radice e soprattutto la ricerca, pur faticosa, di un impegno che dura. Mi sembra, insomma, che il male dei suoi personaggi sia anche il nostro di ogni giorno; nostra la loro difficoltà a reggere nell'indifferenza e nella scarsità di prospettive; nostro il loro isolamento, il rischio e l'"anacronismo".
Altra conferma, se si pensa ai film precedenti, viene senz'altro dall'abilità che la regista dimostra nel tenere assieme corpose e disomogenee compagnie di attori: Castellitto le offre lo stesso decisivo contributo che, in tutt'altro stile e carattere, le aveva offerto il Mastroianni di Verso sera; ma anche gli altri, dalla Galiena a Laura Betti, dalla bravissima Alessia Fugardi ai giovani non professionisti, sono messi nelle condizioni migliori per interagire. Per quel che riguarda il lavoro di regia in senso stretto, si può misurarlo per rifrazione da quello di scrittura, di dosaggio della messa in scena e di armonizzazione, cioè nel segno di una "castità" che implica aderenza ai personaggi e nascondimento. Non mancano però i colpi d'ala come quello, per ricordarne uno, che ci mostra la morte della bambina cerebrolesa dai due lati di una barriera trasparente.
Tullio Masoni, Cineforum n.322, 3/1993

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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