Ultima tentazione di Cristo (L') - Last Temptation of Christ (The)
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Regia: | Scorsese Martin |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Paul Schrader, dal romanzo “O teleutaios peirasmos” di Nikos Kazantzakis; fotografia: Michael Ballhaus; montaggio: Thelma Scoonmaker; musica: Peter Gabriel; suono: Eliza Paley, Gail Showalter, Steven Visscher; scenografia: John Beard, Andrew Sanders; costumi: Jean-Pierre Delifer; interpreti: Willem Dafoe (Gesù), Harvey Keitel (Giuda), Barbara Hershey (Maria Maddalena), Verna Bloom (Maria, madre di Gesù), André Gregory (Giovanni Battista), Harry Dean Stanton (Saul/Paolo), David Bowie (Pilato), Irvin Kershner (Zebedeo), Nehemiah Persoff (il sacerdote del tempio), Randy Danson (Maria, sorella di Lazzaro), Peggy Gormley (Marta), Tomas Arana (Lazzaro), Victor Argo (l’apostolo Pietro), John Lurie (Giacomo), Michael Been (Giovanni); produzione: Harry Ufland e Barbara De Fina per Testament Production, New York; distribuzione: UIP; origine: USA, 1988; durata: 161’. |
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Trama: | Tratto da un romanzo (1955) del greco Nikos Kazantzakis, si alimenta di tre idee strutturali. La prima è di raccontare un uomo che tenta di opporsi alla scoperta della propria divinità e che avrebbe potuto vivere una vita comune, ma è costretto ad accettare la sua missione, ubbidendo a Dio padre. Questa è la parte che ha dato esca allo scandalo. La seconda idea è il rapporto di Gesù con Giuda, presentato come il primo, il più intelligente e appassionato dei suoi seguaci, costretto a tradirlo dal disegno divino, e con Maria Maddalena, diventata prostituta a causa del suo rifiuto di amarla. La terza idea è la dimensione figurativa: Martin Scorsese rifiuta i tre modelli cinematografici a disposizione (il colossal hollywoodiano, Rossellini, Pasolini) e persegue una propria via, discutibile ma sicuramente personale. |
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Critica (1): | Preceduto dal clamore che tutti sappiamo, esaurito nelle sue potenzialità pubblicitarie due mesi prima dell’uscita sugli schermi, osteggiato e vilipeso al “buio”, L’ultima tentazione di Cristo incassa poco, o comunque certamente meno di quanto ci si poteva aspettare. Sdegnosamente anti-commerciale (per la sua durata in primo luogo, ma soprattutto perché, a differenza di altri colossal d’autore, non strizza l’occhio a raffinatezze ed estetismi, sempre più facili e “digeribili”), il film di Scorsese rifiuta anche di soddisfare aspettative scollacciate e pruriginose: la famigerata scena d’amore tra Gesù e Maddalena è infatti risolta in poche inquadrature segnate da una tenerezza finalmente appagata. Si volesse proprio cercare un’appiglio morboso, bisognerebbe risalire all’inizio del film, a quella giornata interminabile che Gesù trascorre accovacciato in un angolo, fissando Maddalena che fa l’amore con tutti i suoi clienti: un pezzo di cinema ossessivo e tristissimo, capace di evocare i confini indinstinguibili tra impotenza e santità, incapacità di darsi e rigore. Troppo sfumato e troppo fine, comunque, per offrire appigli censori; troppo casto (si intravede sì e no il seno di Barbara Hershey) per richiamare un pubblico di guardoni.
Niente sesso, perciò; pochissimi accenti blasfemi (almeno rispetto a certi caustici campioni europei, come Buñuel, con i due Cristi messi in scena in L’âge d’or e La via lattea, e Bene, con Salomé); una moderata revisione iconografica (certamente non paragonabile a quella del Vangelo secondo Matteo di Pasolini); nessun pomposo narcisismo autoriale. Cosa resta dell’Ultima tentazione? Da una parte “l’operazione”, montata (magari con la tacita approvazione della distribuzione) dal fanatismo religioso statunitense e accolta a braccia aperte (complici la fiacchezza agostana e i giochi di potere veneziani) dalla stampa nostrana. Dall’altra il film in sé e per sé, senza confronti con il passato e con testi più o meno sacri.
Perché Scorsese ha fatto Cristo biondo e tormentato invece che nero e iroso come quello di Pasolini? E perché ha voluto la musica di Peter Gabriel invece che quella, che so, di Haendel? Perché Giuda parla con quel feroce accento newyorkese (disgraziatamente perduto nell’edizione italiana), e Giovanni Battista sta in mezzo alle baccanti e Lazzaro sembra la mummia di Fisher? Tutte queste scelte corrispondono con precisione esemplare a una concezione cinematografica totale, perfettamente coerente con le opere precedenti dell’autore e non riducibili a una pura elencazione di particolari. Il peggior torto che si possa fare all’Ultima tentazione è smembrarne i diversi elementi compositivi, selezionando quello che piace o che non piace, quello che si addice o non si addice a Cristo e a Scorsese. Perché è un film assoluto ed estremo, incapace di scendere a patti con il proprio stile, di mediare il tormento, di ripulire le suggestioni che assillano la fantasia dell’autore. Il che non ne riduce il rigore espressivo, portato alle estreme conseguenze della sfida dichiarata. Una sfida che non è certo teologica (ripeto, abbiamo visto Cristi, apostoli e Madonne molto più radicali, rivoluzionari e irridenti), ma che si muove sul piano autoriale da una parte e su quello del pubblico dall’altra. È risaputo che Scorsese pensa da anni alla realizzazione di un film su Cristo. «Ho sempre desiderato fare un film su Gesù. Non so cosa sia arrivato prima, se il cinema o la Chiesa. I miei ricordi infantili riguardano prima i film, poi il coinvolgimento con la religione cattolica. Sentivo che, in qualche maniera, le due cose coesistevano». Poi, nel 1972, durante la lavorazione di America 1929: sterminateli senza pietà, Barbara Hershey gli fa leggere il libro di Kazantzakis, e Scorsese decide che quello è l’approccio giusto per lui. Dopo di che, passa anni a elaborare il progetto, raccogliendo materiali iconografici, geografici, biblici, letterari e, soprattutto, alla ricerca di finanziamenti.
È il successo di pubblico di Fuori orario e Il colore dei soldi che gli consente, alla fine, di condurre in porto l’operazione. Fa il film esattamente come vuole, senza condizionamenti, con il coraggio di non compiacere nessuno: non il pubblico di massa, che difficilmente accetterà 161 minuti di sostanziale understatement, senza grandi scontri e proclami demilliani, ma neppure il pubblico intellettuale e (in larga maggioranza) la critica, entrambi alla ricerca di operazioni più dichiaratamente “colte”, magari stravolgenti e noiose, ma leccate, sentenziose, esplicitamente profonde, di quell’eleganza asfittica che è ormai diventata l’etichetta delle superproduzioni d’autore.
Scorsese ha il coraggio di rimettere in discussione la propria compattezza stilistica, la misura essenziale dei suoi ultimi film, di giocarsi, sul tappeto della passione, il proprio statuto autoriale, mescolando gli eccessi visivi e la tormentosa freddezza analitica dei due film che, al momento della loro uscita, dispiacquero maggiormente (rispettivamente New York New York e Re per una notte). Nella sua composizione, si confronta con molti dei modelli passati, compreso, giustamente quello hollywoodiano (e soprattutto questo i critici rimproverano a Scorsese “autore”), sfidando contemporaneamente il pubblico ad accettare Gesù come eroe cinematografico totale, tale da indurre, per esempio, meccanismi di identificazione/proiezione. E questo magari non si addice alla divinità, ma certamente si addice al cinema, che ha mostrato fin troppi Gesù di spalle e in lontananza, costretti a cedere il tormentato protagonismo ad altri personaggi meno sacri (per esempio, San Pietro - Michael Rennie nella Tunica). A parte il sofferto processo di sdivinizzazione di Pasolini (probabilmente l’unico prima di Scorsese ad avere affrontato Gesù come personaggio drammatico), quasi tutti gli altri hanno messo in scena la figura di Cristo senza perderne d’occhio la sacralità (di volta in volta, per confermarla pomposamente o per ribaltarla ferocemente).
Scorsese invece tratta Gesù come qualsiasi protagonista di uno dei suoi film, trasformandolo nel più paradigmatico dei suoi eroi, sconvolti dalla predestinazione e tormentati dalla scelta tra il martirio e una vita acquietata.
Quante passioni ha già messo in scena Scorsese prima di arrivare a quella “definitiva”? Quella di Big Bill Shelley in America 1929, dove David Carradine viene letteralmente crocifisso; quelle cupe, metropolitane e schizofreniche di Mean Streets e Taxi Driver (costellate dei simboli del folclore religioso che ritornano come le più folgoranti invenzioni di L’ultima tentazione); il calvario disperato di Jake La Motta (Toro scatenato) e quello solo apparentemente comico di Paul Hackett (Fuori orario). Sul piano stilistico e su quello della concentrazione della narrazione, questi due film sono indubbiamente i più vicini, preludi immediati a L’ultima tentazione. La violenza devastante, le ferite e il dolore in primo piano di Toro scatenato passano di peso all’Ultima tentazione. Le due crocifissioni rifiutano il buon gusto di una soluzione mistica e agiografica, ma vanno fino in fondo nell’accecante prepotenza del dolore fisico, come il sangue che sprizzava in bianco e nero dal corpo di Jake La Motta nel combattimento con Ray Robinson. Gesù che fabbrica croci con i romani e li aiuta mentre inchiodano i condannati, sa bene a cosa va incontro se accetta il proprio ruolo. E Scorsese lo chiarisce mettendo in scena fin dall’inizio una crocifissione in primissimo piano, dove i chiodi lunghi venti centimetri, i colpi di martello e le mani che si spaccano non hanno proprio nulla di ascetico. Il terrore della predestinazione è anche un terrore fisico, che ritorna, ossessivo, fino alla crocifissione finale.
D’altra parte, la fisicità è una delle chiavi di volta del film, il mezzo tormentoso che trasforma questi “miti” in personaggi. Non solo la fisicità del dolore (incombente, dall’inizio alla fine), ma anche della vecchiaia (le rughe e le stempiature di Gesù e degli apostoli nel sottofinale), della morte (il puzzo che emana da Lazzaro risorto), della forza (Giuda soprattutto, che a gambe nude va in giro a sgozzare romani) e la sensualità femminile, sintetizzata con grande forza cinematografica dalla prima apparizione di Maddalena: un particolare, i suoi piedi nudi e tatuati che avanzano, si allarga poi alla figura intera. L’impasto carnale è tale da trascinare nella propria sfera anche il lavorio mentale. Le ossessioni del protagonista, quando non si materializzano nella brusca aggressività di Giuda o nelle visioni, lo tormentano comunque fisicamente, trascinandolo a bruschi soprassalti e a estenuanti marce.
Dio (e comunque l’elemento soprannaturale, perciò anche il diavolo) è una macchina da presa che piomba giù a identificare e isolare il suo protagonista, preso in mezzo a un universo dove tutti, più o meno inspiegabilmente, vogliono da lui qualcosa, un certo gesto, una certa scelta, una certa coerenza. [...]
Scandito con ossessione dalla grande colonna musicale di Peter Gabriel (che è a sua volta una commistione tra rock e musica africana), è emerso un film magnificamente composito, dove nulla stona rispetto all’inquadratura precedente e successiva, purché si sia disposti ad accettare il gioco del cinema assoluto e coinvolgente, non conciliato, dubbioso, fieramente ostile al buon gusto medio. Inno al “cattivo gusto” (di Powell, Sirk, Minnelli e, magari, David Lynch), L’ultima tentazione si oppone alla volgarità delle buone maniere e dei sontuosi flou del cinema contemporaneo.
Emanuela Martini, Cineforum n. 278, 10/1988 |
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