È stata la mano di Dio
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Regia: | Sorrentino Paolo |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Daria D'Antonio; musiche: Lele Marchitelli; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Carmine Guarino; costumi: Mariano Tufano; effetti: Rodolfo Migliari; suono: Emanuele Cecere, Silvia Moraes, Mirko Perri; interpreti: Filippo Scotti (Fabietto Schisa), Toni Servillo (Saverio Schisa), Teresa Saponangelo (Maria Schisa), Marlon Joubert (Marchino Schisa), Luisa Ranieri (Patrizia), Renato Carpentieri (Alfredo), Massimiliano Gallo (Franco); produzione: THE APARTMENT; distribuzione: LUCKY RED-Netflix; origine: Italia-Usa, 2021; durata: 130'. |
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Trama: | La storia di un ragazzo nella tumultuosa Napoli degli anni Ottanta. Una vicenda costellata da gioie inattese, come l'arrivo della leggenda del calcio Diego Maradona, e una tragedia altrettanto inattesa. Ma il destino trama dietro le quinte e gioia e tragedia s'intrecciano, indicando la strada per il futuro di Fabietto. |
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Critica (1): | Per Paolo Sorrentino l’autobiografia è la storia del suo immaginario; il suo incontro con le idee, il suo scontro con la realtà. In È stata la mano di Dio, nel quale racconta la propria giovinezza attraverso l’alter ego Fabio, per tutti Fabietto, liceale nella Napoli tra il 1984 e il 1986, ragazzo studioso e introverso, legatissimo alla famiglia – al padre, alla madre, al fratello più grande, ala sorella sempre chiusa in bagno, alla pletora di zie, zii, cugini e parenti vari – e ancora di più al Napoli e a Maradona, la crescita del protagonista avviene attraverso l’esperienza del desiderio, del piacere, del dolore, della morte.
Se in La grande bellezza il bene più prezioso del protagonista era custodito nella memoria, un ricordo così luminoso e abbagliante da farsi indefinito, in questo film ogni spazio, personaggio o evento, anche il più doloroso, appartiene a un universo raccontato ed evocato a distanza, con rimpianto, affetto e soprattutto circospezione. Sorrentino ha quasi timore di entrare nella propria vita, nei propri ricordi, nel passato di adolescente diventato orfano a 16 anni, dopo la tragica morte dei genitori uccisi da una fuga di monossido di carbonio nella casa di vacanze a Roccaraso, in Abruzzo.
E questo perché, come dice continuamente lo zio avvocato, ogni cosa è deludente e soprattutto, ancora, come dice il fratello di Fabio citando le parole sentite dallo stesso Fellini (sceso a Napoli per una serie di provini), la realtà è convenzionale e il cinema serve a fuggire dalla realtà. Sorrentino, in tutta la sua normalità di ragazzo senza passioni e idee convinto di diventare regista, è semplicemente spaventato dalla possibilità di deludere il suo stesso mondo; di rendere la sua realtà convenzionale e spaventosa.
Per questo, probabilmente, È stata la mano di Dio è pieno di luoghi misteriosamente chiusi (il bagno dove staziona la sorella), di bellezze desiderate (la zia Patrizia, disinibita e matta), di situazioni assurde a cui credere come a una fede (l’iniziale apparizione di San Gennaio del Monacello, che per un attimo diventa anche un film nel film, e quella di Maradona per la strada), di desideri covati, sognati, realizzati (l’arrivo di Maradona, la prima scopata, la dichiarazione d’amore per la zia) e poi dolorosamente e simbolicamente abbandonati (il televisore spento sui festeggiamenti del primo scudetto del Napoli...). Il cinema, insomma, aiuta a fuggire dalla realtà, ma le sue immagini quella stessa realtà la frantumano, la involgariscono, togliendola dal regno della memoria e dell’immaginario. Non è un caso, allora, che quello stesso immaginario nei film di Sorrentino si riformi sullo schermo nel segno dell’eccesso, dell’invenzione, della magniloquenza stilistica non necessaria. Come se il regista sapesse di non avere scampo, imprigionato nella sua stessa idea di liberazione e creazione.
Con È stata la mano di Dio scopriamo che alla base del cinema del regista napoletano c’è un’immagine non vista, qualcosa – non riveliamo cosa – risparmiato al protagonista Fabio e riconosciuto come unica storia in suo possesso: da un’assenza nasce dunque una presenza fin troppo ingombrante. Nel film mancano o quasi i soliti espedienti stilistici sorrentiniani, e quando appaiono – la galleria di orrori in audizione di Fellini – è proprio per evocare l’altro fantasma del suo immaginario, l'altro totem da uccidere per aprirsi al futuro.
Fellini, intravisto da Fabio ma significativamente lasciato fuoricampo, è il maestro, il modello, il rimosso. E come con tutto il resto, anche con lui Sorrentino ha bisogno di rompere, esplicitando la frattura fra sé e il mondo, ammettendo che ogni cosa è merda – come gli dice il regista Antonio Capuano, suo maestro aggressivo e ammirato – che ogni uomo è solo e che solo gli stronzi vanno a fare cinema a Roma.
Ovviamente a Roma a fare cinema Sorrentino ci è andato (il film si chiude con il suo viaggio d’andata), perché la sua stessa vita è stata tradimento e rottura, immersione nel passato e ingresso nel futuro, viaggio verso Roma e canzone dedicata a Napoli. “Resta unito, non ti disallineare”, dice ancora Capuano a Fabio, “resta unico”. Eppure Fabio, quando fa per la prima volta l’amore, entra tra le gambe della vicina di casa in quella che la donna chiama “la spaccatura”, la “grande fessa”… Non c’è scampo, non c’è unione, dunque: ogni corpo, idolo o corridoio (il film è pieno di corridoio in contruce attraversati da lenti carrelli in avanti…) è destinato a essere attraversato e lasciato.
Nella famosa scena della coda al cinema di Io & Annie, il professore della Columbia che strilla le sue opinioni nelle orecchie di Alvy Singer dice di non amare Fellini perché lo trova “indulgente… troppo indulgente”… Ecco, con È stata la mano di Dio è come se Sorrentino, consapevole di essere una sorta di parodia di Fellini, ammettesse la propria normalità nel modo più indulgente possibile. Ammette di essere un onesto imbroglione, chiede di essere guardato, non capito, e nemmeno per forza di cose amato.
Roberto Manassero, cineforum.it, 2/9/2021 |
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Critica (2): | Vent’anni dopo l’opera prima L’uomo in più Paolo Sorrentino torna a Venezia, in Concorso, con E’ stata la mano di Dio, prodotto da The Apartment e Netflix: arriverà in cinema selezionati il 24 novembre, per approdare sulla piattaforma streaming il 15 dicembre.
Il film prende spunto dalla biografia del regista e sceneggiatore, sui binari del racconto di formazione: non è quello personale, intimo l’unico motivo inedito, e perfino sorprendente, nella filmografia di Sorrentino, giacché anche la messa in scena si risolve a una semplicità, e perfino elementarità, che non avremmo detto, ché fin qui non avevamo visto. Un ritorno al futuro che apre prospettive inedite per l’autore, dopo l’impasse del dittico Loro su Berlusconi e l’esperienza seriale dei due Papi. Lo stile trasmuta in sensibilità, l’adrenalina in confidenza, l’iperbole in paratassi, l’exploit in consapevolezza: non è un film esaltante, perché non lo vuole essere.
Nel cast Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Marlon Joubert, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, prende il titolo da un’impresa di Maradona, “il più grande calciatore di tutti i tempi”, e dalla salvezza che garantì a Paolo, che anziché accompagnare i genitori nella casa di Roccaraso seguì il Napoli, scampando al monossido di carbonio.
Il dato autobiografico si travasa nella Napoli Anni Ottanta nell’alter ego Fabietto Schisa (Scotti), diciassettenne che cerca il proprio posto nel mondo, forte di una famiglia schietta e complicata (Servillo e Saponangelo i genitori, Joubert, bravo, il fratello) e di una città che freme per il possibile arrivo del campionissimo Diego: la disgrazia cambia tutto, per Fabietto e per il film, che alla commedia accosta la tragedia, al riso le lacrime, sopra tutto quelle che il giovane non riesce a versare.
È qui la genesi del film e, si direbbe, del nuovo cinema Sorrentino, nato – e ora rinato – da una pulsione scopica negatagli dalla vita: “Non me li hanno fatti vedere”, confesserà al mentore Antonio Capuano in riferimento ai genitori scomparsi. Certo, l’abbrivio felliniano è “la realtà (che) è scadente”, eppure, la trasfigurazione stavolta è calmierata, giacché Sorrentino fa professione di fede prima nel vissuto e poi nell’immaginato: misurato, trattenuto, sicché lo spettatore vorrebbe a tratti una soluzione di continuità nel controllo, un’apertura incondizionata all’emozione, che forse trova il suo clou – non casualmente – sui titoli di coda, nel contributo esterno – non casualmente – di Napul’è di Pino Daniele.
Ma nell’inusitata regola monastica – vedi monacello – che Sorrentino s’è dato rimangono gli interstizi per la vecchia grandeur immaginifica, la ragazza con l’hoola hoop, i nudi della zia di Fabietto (Luisa Ranieri, super, le tette sono sue?), le tavolate con i parenti serpenti (la sequenza più divertente), e per le battute di senso: “Noi siamo comunisti. Siamo onesti a livello interiore” (Servillo, super); “L’importante è togliersi dal cazzo questa prima volta” (Servillo); “Pettinami la spaccatura”; “La superfessa”; “Senza conflitto è solo sesso, e il sesso non serve a niente” (Ciro Capano che fa Capuano); “Chi non ha coraggio non va a letto con le femmine belle” (Capuano); “Se non hai le idee ti serve un dolore”; “La speranza è una trappola”; “Solo i strunz vanno a Roma”.
Film di faglia tra quel che è stato e quel che sarà, E’ stata la mano di Dio, parafrasando l’unico altro film che Sorrentino ha girato a Napoli, potrebbe alternativamente intitolarsi Il dolore in più.
Federico Pontiggia, cinematografo.it |
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