Misteri del convento (I) - O convento
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Regia: | De Oliveira Manoel |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Manoel de Oliveira; soggetto: da un idea di Augustina Bessa-Luis fotografia: Mario Barroso, Valerio Loiseleux; scenografia: Zè Branco; interpreti: Catherine Deneuve (Hèlène Padovic) John Malkovich (Michael Padovic), Luis Miguel Cintra (Baltar). Leonor Silveira (Piedade), Durante d'Almeide (Baltazar) Heloisa Miranda (Berta). Gilberte Gonçalves (il pescatore): produzione: Paulo Branco per Madragoa Films / La SeptCinéma; distribuzione: Mikado; origine: Portogallo-Francia, 1995; durata: 90'. |
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Trama: | Il professor Michael Padovic, studioso di letteratura, giunge con la bella consorte Hélène in un antico convento portoghese per ricercare nella biblioteca ivi esistente tracce di un'ipotetica origine iberica di Shakespeare. Li accoglie un guardiano laico, Baltar, mentre Balthazar, un anziano erudito, guida i due coniugi ad una visita delle celle dei primitivi anacoreti, affiancato dalla cartomante-astrologa Berta. Per aiutare Michael nelle sue ricerche il mefistofelico Baltar gli affianca una giovane donna tanto graziosa quanto riservata, Piedade. Hélène, i cui rapporti con il marito sono tesi, è immediatamente gelosa della giovane, tanto da proporre a Baltar, che la porta a visitare una caverna dove vi è un antico tempietto satanico e non nasconde la sua passione per lei, di far perdere la giovane in una vicina foresta al cui centro si nasconde una pericolosa voragine. Dopo aver sognato di essere il professore, Piedade, che ha regalato una copia inglese del libro Faust a Michael, viene attirata da Baltar nella foresta perdendovisi. Dal canto suo Michael, recatosi sulla spiaggia dove un pescatore tesse le sue reti, vede sorgere dal mare, come una nuova Venere, la moglie che indossata una candida veste si avvicinava a lui. |
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Critica (1): | Esiste un modello di cinema, quello dominante dal punto di vista della produzione e del pubblico in cui per prima cose viene il racconto, l'intreccio, spesso l'azione, il movimento progressivo dei fati concatenati tra loro (penso per esempio quelle opere hollywoodiane che ancora s possono considerare semplicemente di genere non di ricerca stilistica ma neppure, più brillante, di impegno tematiconarrativo). In molti casi vi predominano una rarefazione e una schematizzazione delle idee sul mondo, oltre naturalmente all'obbligatorietà dei percorsi. Talune volte le idee possono essere più ricche, più consistenti nel loro spessore. E nelle circostanze più rare e fortunate diventano. invece di comodi accessori per una struttura consolidata e ripetibile all'infinito, il punto di partenza per fornire l'impianto di nuove soluzioni formali, che siano allo stesso tempo esplicito divertimento, ma anche occasione di riflessione e approfondimento su alcuni temi. Il cinema di Manoel de Oliveira rappresenta una terza via: quella in cui le idee prevalgono decisamente sul racconto, si tende a fare a meno, a renderlo quasi inconsistente, preferendo procedere attraverso la fissità delle immagini e l'immobilità dei percorsi. Tanto che lo spettatore non può accorgersi con evidenza di quei rari momenti in cui il suo sguardo viene chiamato a cogliere qualcosa di sottilmente diverso: un piccolo movimento del quadro. una dissolvenza incrociata, un ralenti (e insisto con l'articolo indeterminativo non a mo' di esempi, ma proprio perché di momenti unici si tratta). Sono i personaggio femminili il motore di questi sussulti dell'occhio e quindi gli artefici dei rari scossoni dati all'immobilità del mondo: il volto giovane e fresco di Piedade, ad esempio, ancora pieno di segreti e leggermente sfuggente, che attraverso lo sguardo del professor Padovic sfuma in quello già visto, bello ma classico, senza lampi o misteri, della moglie Hélène, sostituisce alla bibliotecaria dopo che quest'ultimo è stata rapita dal guardiano Balter. In una breve serie di inquadrature costruite sullo stesso punto di vista (su una donna, sull'altra, sul vuoto) il regista racchiude la dinamica tra vecchio per ricordarsi di aver vissuto. Fino al punto in cui il vecchio diventa troppo pieno, troppo pesante per essere abbandonato, e quindi il solo percorso possibile. Come quello che fa la macchina da presa nel finale del film, sotto gli occhi di Michael Padovic che vede la moglie uscire dall'acqua e poi segue il momento dei suoi piedi sulla spiaggia fino a quando questi non lo raggiungono. Prima di allontanarsi con lei, abbracciati, sulla spiaggia. E qui il muoversi della macchina segna l'inevitabilità di un percorso, la presenza di una calamita dei sentimenti, un'affinità dettata dal tempo e dall'esperienza del dolore e dei sorrisi che si sono convissuti. Piedade rimane laggiù, ormai è già lontana fissata in quell'immagine rallentata (l'ultima immagine di lei) che la vedeva in fuga da Baltar e dal bosco e che la didascalia finale relega nell'assenza assoluta della morte avvenuta. Tutto avviene sotto gli occhi impassibili di un pescatore abituato a guardare lontano, sul mare verso ciò che c'è oltre. Niente. Almeno per un bel po' di chilometri... È l'immagine del Portogallo, della serena malinconia della nostalgia che è speciale perché non riguarda soltanto il passato, ma anche il presente e il futuro. Di chi sa già fin troppo bene come vanno le cose. E la saudade: la nostalgia del mondo mentre questo ancora c'è, presente e tangibile ai nostri sensi. E ciò che dà continuità all'esistenza, che sempre c'è e ci sarà, sopravvive all'immagine dei coniugi, come sottolinea la soggettiva conclusiva del pescatore, svuotata della presenza del professore e della moglie. E l'ineffabilità di una condizione, quella degli uomini, che devono misurarsi con la consapevolezza di essere solo di passaggio in dimensione regolata dall'immobilità assoluta, estranea alle loro sofferenze. E le immagini del villaggio che passano dal giorno senza che nulla in mezzo accada o vi si frapponga, il dettaglio sui complessi ingranaggi di un orologio che scandiscono il tempo all'infinito. O ancora quella lunga inquadratura sulla scultura in pietra di un monaco legato e bendato alla maniera dl Cristo (per non parlare dell'albero isolato e maestoso che giace nella savana in No o la folle gloria del comando), non possono non riportarci alla mente il cinema di Ozu. la sua natura e la sua architettura indifferente. Nel cinema, più le inquadrature persistono nella loro immobilità e durata e più si accentua la relatività degli uomini, la loro marginalità, la loro scarsa incidenza sul ritmo delle cose. Al contrario di ciò che avviene all'estremità opposta, nel cinema d'azione tout court, ma anche (più semplicemente) nel cinema narrativo classico, dove l'Uomo, la figura umana, il personaggio, sono la misura del mondo, il suo motore, l'indispensabile e il necessario. E se questo non bastasse, già al loro arrivo al convento il regista segrega i due protagonisti in un quadro, nella cornice di una delle tante porte che dividono i cortili della costruzione. Così come, nelle scene degli esterni, le figure umane sono spesso spunzoni di superficie capitati lì per caso, rigorosamente tenute separate dal montaggio, isolate ciascuna con sé stessa, formazioni di lava inquadrate frontalmente ma con decise angolazioni dell'alto e dal basso tali da dar l'impressione che siano rotolate chissà da dove. Da questa riduzione del ruolo dell'Uomo riguardo alle proprie sorti ed a quelle del mondo derivano l'ironia e lo scetticismo di de Oliveira, ingredienti preziosi del suo cinema, che forse meglio si potrebbero chiamare distacco e disillusione compiaciuta, forzosamente divertita, senza appunto quell'adesione alla polpa della vita che troviamo ad esempio nella Commedia di Dio di Joao César Monteiro [...]. Tanto Monteiro spreme i suoi personaggi, facendoli letteralmente colare di sostanze corporee, quanto de Oliveira si guarda bene dal farli risultare altro che presenze strumentali per esprimere la propria parola frammentaria e non definitiva sul mondo.
Umberto Mosca, Cineforum n. 356 lug/ago 1996 |
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