Intervista
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Regia: | Fellini Federico |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura:Gianfranco Angelucci; soggetto: Federico Fellini; fotografia: Tonino Delli Colli; musiche: Nicola Piovani; montaggio: Nino Baragli; scenografia: Danilo Donati; interpreti: Federico Fellini (se stesso), Sergio Rubini (il giornalista), Antonella Ponziani (Antonella, la ragazza sul tram), Maurizio Mein (aiuto regista), Paola Liguori (la diva), Lara Wendel (la sposa), Antonio Cantafora (lo sposo), Nadia Ottaviani (la vestale), Anita Ekberg (se stessa), Marcello Mastroianni (se stesso), Tonino Delli Colli (se stesso), Christian Borromeo (Christian), Adriana Facchetti (donna che accompagna Sergio), Ettore Geri (caposquadra costruttori), Eva Grimaldi (aspirante attrice), Armando MarraIl (famoso regista), Mario Miyakawa, Maria Teresa Battaglia, Roberta Carlucci, Pio Di Savoia, Germana Dominici, Patrizia Sacchi, Antonello Zanini; produzione: Ibrahim Moussa per la Aljosha Productions / Rai1 / Cinecittà; distribuzione: Academy Pictures; origine: Italia, 1987; durata:113’ |
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Trama: | Fellini sta girando a Cinecittà un film tratto da America, il romanzo di Kafka. Incalzato dalle domande di giornalisti giapponesi il regista racconta la sua prima visita, nel 1940, agli studi romani; era anche lui giornalista, agli esordi, venuto a Cinecittà per intervistare una diva famosa. I ricordi di Fellini (gerarchi in orbace, contadine che salutano romanamente mentre lui attraversa in tram la campagna romana e poi gli elefanti imperiali, gli indiani a Cinecittà, ecc.) si affollano e si intrecciano con le domande dei suoi frenetici intervistatori, che filmano tutto. Ecco il giovane Fellini che finalmente intervista la diva, e intanto il suo aiuto regista attuale è in cerca di volti nuovi nella metropolitana. Poi arriva la polizia, avvertita da una telefonata della presenza di una bomba; quindi entra in scena Marcello Mastroianni con indosso il frac di Mandrake. E la bacchetta magica di questi farà apparire le immagini della Dolce vita, tra gli applausi dei presenti e le lacrime di Anita Ekberg. Il giorno dopo si riprende a girare America, ma un uragano interrompe le riprese. Una banda di indiani attacca Cinecittà con antenne tv come lance. Le riprese del film terminano, e tutti si salutano augurandosi buon Natale. |
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Critica (1): | È stato detto che Intervista è Otto e mezzo con Fellini in persona al posto di Mastroianni, tanti pasticci sentimentali in meno, tanta saggezza in più. Ma è la saggezza di un vecchio clown, capace ormai di “sorridere alla vita e di ogni suo contenuto” (per dirle con le parole di un altro emulo di Charlot, Zeno Cosini). Federico sorride alla solerzia con cui i giapponesi si impegnano a carpirgli l’ultima verità; sorride al limite della lacrima sull’invecchiamento (a bella posta esagerato) di Marcello Mastroianni e Anita Ekberg paragonati alle loro immagini carismatiche in La dolce vita, sorride degli incidenti che costellano la lavorazione del film. Ma, sotto sotto, sorride anche di noi che prendiamo tutte queste sue fantasie per verità assoluta. Intervista è la pagina di un diario apocrifo intriso di sentimenti reali: il sentimento del tempo che cambia, la minaccia di un futuro imbarbarito (televisione uguale assalto degli indiani), l’indecifrabilità di un passato squallido (il fascismo e il suo cinema) o mitizzato (la giovinezza).
Tullio Kezich, La Repubblica, 2 ottobre 1987 |
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Critica (2): | Per capire e amare Intervista, e intenderne i limiti come conviene, basta conoscere la sua genesi produttiva: nato come programma televisivo, è diventato un tv-movie e, infine, un film-film per le sale, come se a Fellini fosse cresciuto tra le mani. È un piccolo film, in un certo senso, ma di quale grazia e garbo e brio. Certo che si può dire: lo si è già visto. Ma è anche ingeneroso dirlo se si pensa al piacere che dà. Può dirlo soltanto chi non ha saputo, o voluto, abbandonarsi al suo ritmo festoso, alla sua natura di film che cresce su se stesso come per partenogenesi, all’avvicendarsi di malinconia e allegria, di disarmata sincerità e impudico gioco di prestidigitazione, al disordine sapientemente organizzato, alla sua serenità armoniosa anche se lievemente triste, quella di un cineasta che ormai non ha più bisogno di dimostrare il suo talento o di giustificare le proprie feconde contraddizioni.
Morando Morandini, Il Giorno, 6 ottobre 1987 |
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Critica (3): | «Dove va la musica quando tu non suoni?» chiedeva il bambino a un musicante in Prova d'orchestra. Dove vanno a finire i film, i loro personaggi, quali strade percorrono nell'immaginario del pubblico, nell'intricata immaginazione di un autore?
Fellini venticinque anni dopo recupera, grazie a un Mastroianni-mago, qualche sequenza de La dolce vita, lo spirito di 8 e 1/2, il finale dei Clowns, la narrazione da scoppio, violentemente antinarrativa delle sue opere migliori, l'impalpabile essenza dei semi di pioppo di Amarcord: nasce così Intervista, piccolo film per la TV diventato grande strada facendo, trionfatore a Mosca; nato per la TV e finito nelle sale contro la dichiarata (e per questo non certa) volontà del suo autore. Autobiografia non autorizzata di uno sguardo deformante, disposto a tutto pur di piegare la realtà, pur di tradurla nel suo vocabolario di eccessi, Intervista è un amarcord del cinema secondo Fellini, straripante e universale, eccentrico e privato. In Intervista Fellini non fa altro che completare la lunga carrellata su se stesso; i materiali profilmici sono già il film, non hanno più bisogno di trasferirsi convenzionalmente dentro un racconto, dentro un discorso. Prendiamo la scena iniziale: nella notte si prepara il set per le riprese, a Cinecittà. Le gru salgono lentamente, illuminate dagli spot, c'è qualcosa di magico nel loro salire, qualcosa di più magico nel modo in cui il regista le osserva, le filma. Le macchine destinate a produrre spettacolo per una volta sono esse stesse spettacolo. E, questo Intervista, un omaggio, un regalo di compleanno per Cinecittà offerto dal suo figlio più amato, indisciplinato e capriccioso, qualche volta riconoscente. C'è un rapporto particolare, indissolubile, che lega Fellini a Cinecittà: è un rapporto forte, fatto di materialità e di sentimenti, di budget che lievitano senza motivo per la gioia della "macchina cinematografica" che lavora per, intorno, su Fellini e la disperazione dei produttori, attenuata dalla speranza di alimentare un capolavoro.
C'è questo rapporto, nel film, un po' idealizzato, nella vena di realismo bugiardo, di una concezione di "fedeltà" tutta personale. La fedeltà di Fellini verso Cinecittà assomiglia a quella verso Roma, suo serbatoio privilegiato e insostituibile di gags, immagini, figure. Dalle strade, dalle piazze, dalle osterie sull'angolo, Fellini attinge caricature involontarie, dialoghi di potenzialità straordinarie destinati a spegnersi in un attimo e li porta nella cassaforte dei sogni abusati sulla via Tuscolana. Solo lì, dentro i confini di una grande fabbrica di realtà provvisorie, Fellini dà corpo alla sua realtà, è sicuro che nulla può più sfuggirgli. Può svanire l'idea iniziale, può svanire il racconto e rendere improbabile qualsiasi data, qualsiasi limite, ma loro (situazioni, volti, esplosioni) non sfuggiranno più. Abituato a seminare gli inseguitori disegnando false tracce, magari ripercorrendole senza saperlo, Fellini popola questo suo ultimo film di fantasmi e ossessioni (la scena dello spot-musical con una enorme macchina da scrivere che fa da palcoscenico), di reperti di nostalgia e vecchie suppellettili. La scena più emblematica, forse anche la più bella del film è quella al deposito dei vecchi tram. È con uno di questi ferrivecchi azzurri che egli è arrivato la prima volta a Cinecittà. Ora sono luoghi privilegiati per la polvere del tempo. Fellini organizza una lunga, impegnativa sequenza, fa ricostruire il tram e la troupe parte accompagnata dalla musica
di Nino Rota (citazione diretta di altri film). La troupe che parte, il tram diviso in due, tutto è già straordinariamente cinema; la preparazione della sequenza, più affascinante delle immagini che consentirà (1).
Con Intervista Fellini dimostra (magari senza volerlo) che i codici che definiscono il suo stile in un genere possono anche diventare nuclei generativi dei suoi film successivi. Può darsi che un giorno anche le rovine della scenografia di Mastorna (il mitico film non realizzato) diventino lo spunto per un'opera che della sceneggiatura originaria non conserva altro che la nostalgia. Guardandosi dentro, Fellini parla di un esterno introvabile, che si materializza sullo schermo. La sua Roma sparita, la sua Roma tradita non finiranno mai negli scatti delle macchine fotografiche degli impassibili giapponesi. È una città che sfugge, come il passato, come il cinema stesso. I film si radunano dentro scatole di metallo nei magazzini delle cineteche e di loro restano sensazioni quasi tattili, pulviscoli di senso. Gli indiani attaccheranno ancora, come i giganti della montagna scendendo dalle colline. Oggi impugnano antenne televisive, domani chissà. Davanti a Cinecittà c'è l'elefante che Fellini ha fatto costruire per Intervista. Succede solo con Fellini che un materiale scenico diventi parte del mondo.
Paolo Taggi, Segno cinema n. 30, 1987
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(1) In Good Morning Babilonia dei Taviani c'è una sequenza analoga. Il tram porta ad Hollywood i due fratelli toscani in cerca di fortuna e attricette intimidite. L'epoca è quasi la stessa, identico il punto di arrivo, "il luogo dove nascono i fotogrammi". Ma quanta distanza tra le due sequenze. Per Fellini conta il processo della messa in scena, per i Taviani la sua misurata perfezione. |
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Critica (4): | |
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