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Fellini - Satyricon


Regia:Fellini Federico

Cast e credits:
Soggetto: ispirato al romanzo di Gaio Petronio Arbitro; sceneggiatura: Bernardino Zapponi, Federico Fellini, Rodolfo Sonego; fotografia: Giuseppe Rotunno; musiche: Andrew Rudin, Nino Rota, Tod Dockstader, Ilhan Mimaroglu; montaggio: Ruggero Mastroianni; scenografia: Luigi Scaccianoce, Danilo Donati; costumi: Danilo Donati; interpreti: Martin Potter (Encolpio), Magali Noël (Fortunata), Luigi Montefiori (il Minotauro), Gordon Mitchell (il Predone), Elisa Mainardi (Arianna), Hiram Keller (Ascilto), Fanfulla (Vernacchio), Alain Cuny (Lica), Capucine (Trifena), Lucia Bosé (La Matrona), Max Born (Gitone), Mario Romagnoli (Trimalcione), Danika La Loggia (Scintilla), Giuseppe Sanvitale (Abinna), Joseph Wheeler (Il Suicida), Hylette Adolphe (Schiavetta), Salvo Randone (Eumolpo); produzione: Alberto Grimaldi per la Pea/Produzioni Europee Associate; distribuzione: Cineteca di Bologna; origine: Francia-Italia, 1969; durata: 135’ – 35 mm

Trama:Due giovani romani, Ascilto ed Encolpio, sonno innamorati dell’efebo Gitone. Ascilto lo “ruba” ad Encolpio, e questi scopre che è stato venduto a Vernacchio, attore di scurrili pantomime. Encolpio riesce e riprendersi Gitone, e con lui si rifugia in un palazzo, dimora di viziosi. Giunge anche Ascilto, e Gitone rivela che è lui il “preferito”. Encolpio immagina il suicidio, ma un terremoto distrugge il palazzo; scampato il pericolo, incontra il vecchio poeta Eumolpo che lo accompagna da Trimalcione, uno schiavo liberato e arricchito. Durante una volgare e snobistica festa il vecchio poeta viene bastonato a sangue, e Trimalcione si fa vanto di mostrare la sua tomba. Encolpio, fatto schiavo, ritrova sulla nave del pirata Lica Gitone e Ascilto. Gitone è costretto ad accoppiarsi con una bambina mentre Encolpio, sconfitto in duello da Lica, diviene suo sposo. Le peripezie dei tre continuano, tra violenze carnali e combattimenti, perfino con il Minotauro. Encolpio riesce a dimostrare la sua virilità, ma la morte dell’amato Ascilto lo colpisce duramente. Si imbarca sulla nave di Eumolpo, diretta in Africa, e rifiuta – alla morte del vecchio poeta – di cibarsi delle sue membra rinunciando a divenirne erede.

Critica (1):Prepotente esplosione di interiorità, esaltante affermazione di una tensione immaginifica senza pari, il film di Fellini.
Un viaggio senza soste di due giovani dell'antica Roma imperiale, opulenta e putrida, che passano da un ambiente all'altro, da una situazione all'altra, con passione e disinvoltura, sollecitati da uno sfrenato vitalismo. È infatti la storia di Encolpio e Ascilto, rivali nel contendersi le grazie del conturbante Gitone e uniti nel vivere di avventura in avventura, ma Ascilto si spegnerà come lume di candela, mentre Encolpio migrerà a altri lidi, rifiutando con viva noncuranza di consumare le carni putrefatte del poeta Eumolpo.
Il film è costruito in una successione, apparentemente priva di filo conduttore, di granitici blocchi
o nuclei narrativi. Un impianto strutturale che tende al mosaico, al grande affresco, in cui trovano arioso e sinfonico spazio i vari episodi.
Non esiste, a livello narrativo, una giustificazione al loro dipanarsi largo e massiccio. Ciascuno di essi vive un suo tempo e un suo spazio, conchiuso in un principio e in una fine. È invece a livello strutturale, di sublimazione dei raccordi, che il racconto mostra la sua vivida tensione tematica.
Ciascun blocco narrativo alterna bagliori di vita o di morte: lotta e distruzione, vitalità e storica violenza ecc. Dalla lotta tra Encolpio e Ascilto per il possesso delle grazie di Gitone allo schiantarsi apocalittico, infernale del bordello. Dall'incontro di Encolpio con il poeta Eumolpo alla cena di Trimalcione, deliziato dal compianto dei servi. Dall'episodio di Lica all'uccisione di Cesare. Dal sereno suicidio dei due aristocratici al soddisfacimento inebriante dei due giovani protagonisti. Dall'uccisione dell'ermafrodita alla lotta con il Minotauro. Dall'impotenza umiliante
e tragica di Encolpio nel Giardino delle delizie al taumaturgico antro della maga Enotea. Dalla morte di Ascilto all'imbarco di Encolpio.
E, infine, le parole che chiudono il racconto: «In un'isola ricoperta d'erbe alte, profumate, mi si presentò un giovane greco e raccontò che negli anni... » Un'ultima immagine trasmuta in sovrimpressione il volto di Encolpio, che si f a pietra.
Sono tutti nuclei che assecondano nel loro dipanarsi un movimento quasi picaresco. È importante il ruolo che i due protagonisti assumono all'interno di ciascun episodio.
Encolpio e Ascilto non sono protagonisti nel senso tradizionale del termine, non hanno cioè una dimensione psicologica a tutto tondo. Sono piuttosto forze di propulsione e di sviluppo del composito racconto: la loro caratteristica, narrativa e strutturale, è di trovarsi implicati in certe situazioni e di uscirne in qualche modo, senza lasciare nulla dietro di sé.
La loro funzione strutturale è quella di essere « presenti » in qualche modo, ora l'uno ora l'altro oppure tutti e due insieme; è quella in certi casi di provocare essi stessi uno sviluppo all'interno del blocco (sono loro che rapiscono l'ermafrodita ecc.). Presenza e assenza nello stesso tempo. Sono cioè partecipi di un mondo, di una società in cui vivono, e insieme svincolati dalle morse che sembrano invece avvinghiare in una ruota funebre tutti gli altri personaggi.
Nell'essere presenti, vivono quel mondo; nell'essere assenti, ne costituiscono in qualche modo l'alternativa. Completamente immersi in un groviglio putrescente, che esala umori di cancrena, a questo bordello storico essi sopravvivono in qualche modo, passando intatti, incontaminati a quanto sembra, da un avvenimento all'altro.
E nello stesso tempo, proprio per il fatto di sembrare svincolati dalla decadenza di un mondo, assumono il richiamo dell'alternativa: nel senso che alimentano un carosello a giro continuo, che garantiscono lo scorrere della vita. Dei due protagonisti, però, solo Encolpio sopravvive. Ascilto si spegne in prossimità della meta. È una morte apparentemente senza cause precise, è la canna che si spezza sotto la sferza d'una vampata violenta: morte gratuita e occasionale, misteriosa insieme. Ascilto è il compagno d'avventura, che si perde per strada, per questo cammino senza soste, senza mete. È la vittima incosciente, inconsapevole di quello stesso mondo, da cui Encolpio si stacca invece definitivamente. Encolpio infatti si piega sensibile sul corpo inanimato di Ascilto. Ancora una volta, la morte è davanti a lui. Eppure, non si ferma, approda a altri lidi. L'ultimo aggancio, opportunistico e malizioso, gli è offerto dall'eredità del poeta Eumolpo, lasciata a chi ne mangerà le carni putrefatte. Encolpio rifiuta anche questo, se ne parte con altri amici e compagni, mentre altri si cibano sulla spiaggia, con indifferenza, con vivo senso del compromesso di quella macabra eredità. Nella diversa sorte dei due protagonisti, è la colorazione ultima al discorso tematico di Fellini. Ascilto e Encolpio sono caricati di una prepotente tensione emblematica. Ambedue appartengono alla vita, si sono imbevuti di tutto ciò che essa ha loro offerto, ne hanno condiviso i miti e i riti. Dei due, uno soccombe per una ferita occasionale, quasi biologica, l'altro sopravvive e s'incammina alla ricerca di altri miti.
Encolpio è la voce di un'umanità assetata di cose sempre nuove, sempre rinnovantesi; un'umanità non piegata dalle distruzioni apocalittiche, dalle delusioni esistenziali. Encolpio è «uomo» (emblematizzato ) che ha bisogno di rinnovare, o meglio di vivere una dimensione mitica per sopravvivere; ed è per questa sua forza interiore ch'egli non si esaurisce in una morte occasionale. L'ultimo mito a cui l'umanità si aggrappa è quello della vita, del suo ritmo incessante e vorticoso, delle sue brutture e delle sue gioie. In tutto il discorso tematico di Fellini si nasconde il tremore della morte e l'esaltante luce della vita, vi traspare da una parte l'angoscia del provvisorio, dell'inutile, del precario e dall'altra la sublimazione di un ritmo vitale, incessante, continuo, che è condizione prima e ultima della sopravvivenza biologica, animalesca. È in questo senso di continuità, di qualcosa che non si esaurisce o si arrende, in questa forza vitalistica che la tematica di Fellini-Satyricon trova la sua vasta e inebriante apertura. Non è la conclusione de La dolce vita: a attendere Encolpio non è il sorriso della fanciulla che richiama Guido e non ottenendo risposta lo segue pietoso e rassicurante; non è quella di Giulietta degli Spiriti o di Otto e mezzo.
Non sono in Satyricon aperture trascendenti. Tutto sembra circoscritto in una cosmica dilatazione immanentistica. Eppure, l'approdo a un mito così bello, così realistico, qual'è appunto l'avventura della vita, è forse - per negativo - la più concreta apertura di Fellini ai valori del trascendente. (…)
Giulio Schmidt, Cineforum n. 88-89, 1-2/1970

Critica (2):« L'aspetto più tentante di questa operazione cinematografica (…) è quello di evocare questo mondo non attraverso il frutto di una documentazione scolastica, libresca, di una letterale fedeltà, ma come l'archeologo con i frammenti di coccio ricostruire qualcosa che allude alla forma di un'anfora o a quella di una statua. Il film attraverso la serie a volte frammentaria dei suoi episodi dovrebbe restituire l'immagine di un mondo scomparso senza completarlo come se quei personaggi, quelle usanze, quegli ambienti vi apparissero per forza medianica richiamati dal loro silenzio da un rituale stregonesco ».
Federico Fellini, da un’intervista a “Vie Nuove”, cit. in Cineforum n. 90, 3/1970

« Ciò che importa (…) mi sembra, non è la precisione descrittiva, la fedeltà storica, l'aneddoto compiaciutamente erudito, l'organicità narrativa, ma che i personaggi e le loro avventure vivano davanti ai nostri occhi come colti di sorpresa e con la stessa libertà con cui si muovono, si azzuffano, si sbranano, nascono, muoiono, le belve nel folto della giungla quando non sanno di essere spiate. Il film dovrebbe suggerire l'idea di qualcosa che è stato dissepolto, le immagini dovrebbero evocare la terra, la polvere e pertanto il film sarà frammentario, disuguale, ad episodi lunghi e nitidi ne seguiranno altri più lontani, più sfocati, quasi irricostruibili nella loro franmmentarietà, cocci, briciole, polvere di un mondo scomparso. Certo è difficile cancellare dalla nostra coscienza 2000 anni di storia e di cristianesimo e porci davanti ai miti, agli atteggiamenti, ai costumi di popoli che ci hanno precedúto, senza giudicarli, senza farne oggetto di un compiacimento moralistico, senza riserve critiche, senza inibizioni psicologiche, senza pregiudizi, ma credo che lo sforzo sarebbe proprio quello di tentare l'evocazione di questo mondo e di saperlo guardare con l'occhio limpido, sereno, distaccato ».
« Se gli altri film sono stati opulenti, barocchi (…) questo, invece, è anche figurativamente diverso. L'ho voluto più contenuto, senza eccessi, senza sbavature; più essenziale, più «casto». L'intenzione è stata questa. raccontare in maniera meno istrionica. Non solo: ma anche il modo di raccontare i vari episodi questa volta è un po' diverso. Ho tentato, infatti, di sov-ertire quelle regole a cui lo spettatore è abituato da anni, cioè una specie di tastiera che viene premuta a comando. qui il momento della risata, qui la suspense, qui la commozione, qui si chiude. Ma perché mai? Chi l'ha detto? A furia di imbastire tilm su queste regole abbiamo abituato lo spettatore a un ritmo obbligato, ovvio, tutto esterno. No, nel Satyricon ho voluto assolutamente liberarmene. Il racconto, se mi è riuscito, deve procedere soltanto da una necessità interiore, come in un poema o in un romanzo. Sì, questa è anche una operazione anticinematografica e piuttosto
rischiosa ».
Federico Fellini, intervista all’ANSA, cit. in Cineforum n. 90, 3/1970

Critica (3):La Roma di Fellini non ha nessuna parentela con quella che abbiamo imparato sui libri di scuola e ci ha prestato il cinema delle bighe. È un luogo posto al di fuori del tempo storico, una zona dell’inconscio in cui le vicende raccontate da Petronio sono assunte tra i fantasmi di Fellini. [...] Il suo Satyricon è un itinerario nelle favole per adulti. Se ci tocca è perché la voce di Fellini, mentre racconta, un poco si svela, quasi si turba. È abbastanza evidente che Fellini, incontrando nelle figure antiche la proiezione dei propri interrogativi umani e artistici, si chiede se la condizione universale ed eterna dell’uomo non sia riassunta nel demoniaco sentimento della caducità della vita che passa come un’ombra.
Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, 5 settembre 1969

Critica (4):Fellini ha definito Satyricon “un saggio di fantascienza del passato”, come se i romani della decadenza vi fossero osservati dagli attoniti viaggiatori di un disco volante. In tale sforzo di oggettività, curiosamente, il regista ha fatto un film tanto soggettivo da reclamare un’analisi di tipo psicanalitico. Inutile chiedersi se l’opera propone un’interpretazione plausibile della romanità, se è in qualche modo un’illustrazione di Petronio: le parti meno sorprendenti sono proprio quelle che rispecchiano il testo o abbozzano una sia pur larvata dimensione storica. L’estro fantastico dell’autore invece si scatena nel giro della Suburra, nelle nozze grottesche di Alain Cluny in abito femminile, nella lotta finale col falso Minotauro: quasi sempre in un clima malato, claustrofobico, notturno.
Tullio Kezich, Panorama, 18 settembre 1969
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