Generale Della Rovere (Il)
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Regia: | Rossellini Roberto |
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Cast e credits: |
Soggetto: da un racconto di Indro Montanelli; sceneggiatura: Sergio Amidei, Diego Fabbri, Indro Montanelli; fotografia: Carlo Carlini; musica: Renzo Rossellini; montaggio: Cesare Lavagna; interpreti: Vittorio De Sica (Victorio Emanuele Bardone/Grimaldi), Herbert Fischer (Walter Hageman), Hannes Messemer (Colonnello Muller), Vittorio Caprioli (Aristide Banchelli), Maria Greco (Madama Vera), Lucia Modugno (ragazza partigiana), Kurt Selge (Schrantz), Giuseppe Rosetti (Pietro Valeri), Sandra Milo (Olga), Giovanna Ralli (Valeria), Luciano Picozzi (detenuto spazzino), Anne Vernon (Carla, vedova Fassio); produzione: Zebra (Roma), Gaumont (Parigi); distribuzione: Cineteca Nazionale; origine: Italia, 1959; durata: 130’. |
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Trama: | Al tempo dell'occupazione tedesca un truffatore, certo Bertone, che è sempre vissuto di espedienti, viene arrestato dalle SS: è accusato di essersi fatto versare delle somme dai parenti dei fucilati e dei deportati, vantando inesistenti aderenze presso il Comando tedesco. Ora lo stesso Bertone è esposto al pericolo di essere fucilato; ma all'alto ufficiale che lo interroga viene l'idea di valersi, per i suoi fini, dell'abilità dimostrata dall'imputato nel tessere imbrogli. Gli offre quindi la libertà se acconsente ad entrare nel carcere di San Vittore, figurando di essere il generale badogliano Della Rovere, così da poter raccogliere le confidenze dei prigionieri politici ivi detenuti e procurare alle SS preziose informazioni. L'imbroglione accetta, ma vivendo accanto a degli autentici valorosi, durante giorni di ansie mortali e notti di terrore, Bertone a poco a poco si trasforma e si redime. Egli non tradisce i suoi compagni e insieme ad essi muore da eroe, vittima di una rappresaglia. |
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Critica (1): | Accanto alla storia individuale di una presa di coscienza emerge quella sociale vissuta coralmente dai perseguitati (siano essi partigiani o familiari delle vittime); Rossellini cerca di osservare in modo imparziale la realtà, rifuggendo dalle ideologie e soprattutto rendendo i patrioti meno epici e più umani anche rispetto a Paisà o Roma città aperta. Cambia appunto il rapporto col personaggio e con l'ambiente: il primo si fa più diretto e penetrante, mentre il secondo, inteso come affresco corale, non predomina sull'insieme narrativo, anche se la sua presenza è appunto molto rilevante come sfondo, presupposto, storia su cui intessere la cronaca.
Il finale solo in apparenza mostra una situazione senza speranza: in realtà il protagonista incarna un ruolo di piena emblematicità: sintetizzando e assumendo quei valori che non muoiono con le persone, imprime un senso religioso allo stesso film (avvertibile, sempre nel finale, attraverso le preghiere collettive degli altri prigionieri). Il generale Della Rovere risulta anche il lungometraggio più rigidamente organizzato di Rossellini, in cui manca, per l'ascendenza letteraria (e i pochi giorni per le riprese), il solito gusto per la libera improvvisazione. Ma Rossellini è imbrigliato nella ferrea sceneggiatura anche per il rapporto con l'interprete-protagonista Vittorio De Sica, altro glorioso maestro neorealista (che però aveva sempre svolto in parallelo una carriera di attore comico-brillante): il ruolo, o meglio la recitazione del popolare cineasta, è carica di spregiudicatezza, benevolenza, profondità e al contempo, grazie alla regia, contenuta negli slanci passionali e retorici in cui eccedeva nei film di genere. Rossellini, sia pur indirettamente, ingaggia una lotta contro lo stereotipo dell'immagine attoriale, vincendola attraverso il radicale slittamento (come era avvenuto con Fabrizi e la Magnani) dal registro espressivo leggero a quello tragico.
Questa metamorfosi avviene però gradualmente poiché il film stesso è un crescendo emotivo, in cui ad una prima parte con le atmosfere da commedia partigiana (descrizioni compiaciute delle bravate dello sfruttatore) segue un apologo drammaticamente simbolico sulle virtù e sugli eroismi del popolo italiano, in cui appunto la figura del protagonista dapprima è giudicata come a sé stante nella complessità dei motivi psicologici, poi va assunta nel più ampio significato di portavoce di ideali e di valori, non soltanto legati alla rievocazione storica, ma in quanto riflessione elegiaca su speranze e delusioni dell’essere umano.
Guido Michelone, Invito al cinema di Rossellini, ed. Mursia |
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Critica (2): | A contatto di nuovo con la dolente realtà italiana degli anni dell´occupazione tedesca, il regista ha ritrovato intatto quel suo portentoso dono di trasfigurazione della cronaca in termini di verità fantastica, traboccante di impegno umano. Nella drammaticità scarna e potente de Il Generale Della Rovere, abbiamo ritrovato (specie nelle sequenze milanesi del racconto – chè in quelle genovesi è vagamente avvertibile la forzata ricostruzione scenografica in teatro di posa, altro procedimento insolito per il regista-) la facoltà, ben rosselliniana, di evocazione prodigiosamente e angosciosamente autentica di un clima (quella città squallida e livida nella nebbia, animata dalle presenze sinistre); abbiamo ritrovato – nella seconda metà della narrazione, ambientata a San Vittore – la sua capacità di condurre le vibrazioni umane fino ad un diapason tragico, sempre dominato da una asciuttezza virile: si vedano le scene in cui i detenuti protestano per il trattamento riservato ad un loro compagno ammalato e per la tortura subita dal generale; si veda soprattutto la mirabile scena conclusiva della fucilazione, così rapida (forse anche troppo) e spoglia, scena che è analoga e pur tanto diversa , nella sua asciuttezza, nel suo stesso clima meteorologico ed ambientale, da quella che conclude Roma città aperta.
Giulio Cesare castello, Bianco e Nero, 1959, n. 11 |
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Critica (3): | Scritta da Sergio Amidei e Diego Fabbri (sulla scorta di un racconto di Indro Montanelli ispirato a un fatto vero) la sua vicenda ha per protagonista un avventuriero senza scrupoli che, durante l’occupazione nazista, vive truffando le famiglie dei prigionieri dei tedeschi. Colto sul fatto, anziché essere condannato, viene assunto dalle S.S. come spia e viene rinchiuso nel carcere di San Vittore, a Milano, sotto la falsa identità del generale Della Rovere (un ufficiale badogliano ucciso per sbaglio dai nazisti). Il suo compito, in apparenza, non è difficile: deve solo attendere, infatti, che un capo partigiano si faccia vivo con lui credendolo il vero generale e, rivelandosi, consenta ai tedeschi di metter le mani sul movimento clandestino. Sennonché, l’abito fa il monaco e l’avventuriero, amato e rispettato da tutti in carcere come un generale, finisce per immedesimarsi a tal segno nella sua parte da preferire di farsi fucilare piuttosto che di tradire. Un tale dramma è stato svolto da Rossellini con l’impeto, il fuoco, la decisione dei suoi momenti migliori, senza disdegnare però (elemento per lui insolito) una felice nota di humour che, almeno agli inizi, gli fa tratteggiare con una certa ironia la figura, spesso laida, ma sempre un po’ caricaturale dell’avventuriero. Anche se la seconda parte del film qua e là ristagna e vagola alla ricerca di soluzioni narrative sufficientemente logiche e valide, come non lodare quel clima di guerra che grava su tutta l’azione (e che ricorda spesso le lezioni migliori del neorealismo) e come non apprezzare l’acutezza tutta interiore con cui il regista delinea il travaglio psicologico del protagonista, la misura, l’asciuttezza, lo scabro rigore con cui poi visivamente ce lo esprime senza concessioni eccessive ai sentimenti più facili? Guardate, per un esempio, le due grandi pagine finali, quella dedicata all’ultima notte degli ostaggi nella cella comune (le preghiere cantate dagli ebrei, il Pater Noster, sommessamente recitato, degli altri) e quella conclusiva della fucilazione, ritmata dal De Profundis del cappellano del carcere che prima sussurrato e quasi spento, riempie poi di sé tutto il sonoro dopo l’ultima scarica di fucili. Tra i pregi del film, non va dimenticata l’interpretazione, soprattutto quella di Vittorio De Sica, felicissimo anche se forse un po’ troppo colorito nel difficile gioco interiore del personaggio principale.
Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 8/10/1959 |
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Critica (4): | |
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