Camera con vista - Room with a View (A)
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Regia: | Ivory James |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal romanzo omonimo di E. M. Forster; sceneggiatura: Ruth Prawer Jhabvala; fotografia: Tony Perce-Roberts; musica: Richard Robbins, Gianni Puccini, Victor Herbert; montaggio: Humphrey Dixon; scenografia: Gianni Quaranta, Brian Ackland-Snow; costumi: Jenny Beavan, John Bright; suono: Richard King; interpreti: Maggie Smith (Charlotte Bartlett), Helena Bonham Carter (Lucy Honeychurch), Denholm Elliott (Mr. Emerson), Julian Sands (George Emerson), Daniel Day Leliott (Mr. Emerson), Daniel Day Lewis (Cecil Vyse), Simon Callow (reverendo Beebe), Judi Dench (Miss Lavish), Rosemary Leach (Mrs. Honeychrch), Rupert Graves (Freddy Honeychurch), Patrick Godfrey (Mr. Eager), Fabia Drake (Catherine Alan), Joan Henley (Teresa Alan), Maria Britneva (Mrs, Vyse); produzione: Ismail Merchant, per A Room with a View Productions; distribuzione: BIM; origine: Gran Bretagna, 1986; durata: 120'. |
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Trama: | Nel 1907 Lucy, appartenente a una nobile famiglia inglese dagli austeri costumi vittoriani, arriva in Italia con parenti e amici sui quali "troneggia" la rigida cugina Charlotte. A Firenze, alla pensione Bertolini, le è stata promessa una camera con vista sull'Arno. La stanza però non è disponibile perché occupata da altri inglesi, gli Emerson, che accettano comunque il cambio. Tra Lucy e il giovane figlio degli Emerson, George, nasce un amore, complici le bellezze naturali e artistiche del capoluogo toscano. Per vivere in pieno il suo sentimento, Lucy deve però superare lo scandalo della rottura del fidanzamento ufficiale con il nobile Cecil, scelto dalla famiglia. |
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Critica (1): | Film sorpresa della stagione, Camera con vista, produzione a basso budget ha conquistato prestigiose posizione al box-office Usa, e si sta comportando egregiamente anche sugli altri mercati. Finalmente un buon segno sul fronte occidentale. Il fenomeno è infatti interessante perché Camera con vista non sacrifica a mode correnti, ispirate tutte all'aventura e alla frenesia del mondo dei cartoons. Al contrario Camera con vista è un film molto letterario, egregiamente costruito, pensato, mediato, elaborato, un film di sceneggiatura e di recitazione, ispirato ad un autore difficile: E. M. Forster. Da cui, l'anno scorso, David Lean aveva tratto Passaggio in India. Tematiche complesse quelle di Forster: un modo "pesante" (o pensante) che contrasta con la leggerezza e la vacuità di tanto cinema recente. Più che sorprendente, dunque, il successo inaspettato di questo Camera con vista che non annovera nessun elemento di facile richiamo. nemmeno fra gli interpreti: tutti eccellenti, ma non molto noti al grande pubblico, compresi Maggie Smith o Denholm Elliott; le loro prestazioni anche se hanno superato indubbiamente lo stato dei caratteristi non hanno mai avuto accesso all'olimpo esclusivo dei divi. E che dire della stupenda protagonista Helena Bonham Carter che deve indubbiamente la fama alla fortuna di questo film, ma prima non era altro che un'illustre promessa ancora da scoprire.
Fra i meriti di richiamo non c'è nemmeno il nome di un regista famoso. James Ivory non è David Lean. Eppure Camera con vista batte in lungimiranza e conquista in popolarità per il fascino stesso con cui è intimamente costruito il racconto: c'è un'atmosfera ed una seduzione narrativa, unita ad una notevole dose di humour e d'ironia che sono quasi incantevoli. La precisione dei particolari, l'attenzione verso il dettaglio, la magia opportunamente restituita di una Firenze e di una campagna inglese d'inizio secolo, anno 1907, la moda aristocratica con cui i nobili anglosassoni sembravano prestare infinita attenzione alla produzione artistica italiana: tutto questo è l'humus fondamentale di un film che si offre in modo specifico come affresco di un'epoca.
Di Ivory e del suo sodalizio con la sceneggiatrice Ruth Prawer Jhabvala e il produttore Ismail Merchant ben poco è filtrato sul mercato italiano. Strano caso, se si pensa che ventuno sono i film da loro realizzati insieme. Film spesso con attori famosi, come i quattro giunti in Italia: Party selvaggio con Raquel Welch, del 1974, Roseland (1977) con Teresa Wright e Geraldine Chaplin, Quartet (1981) con Isabelle Adjani, Maggie Smith, Alan Bates, Pierre Clementi, e Calore e polvere (1983) con Greta Scacchi e Julie Christie. L'attenzione di critica e pubblico è sempre stata modesta anche se, in alcuni casi, sarebbe stato doveroso un maggior rilievo. Erano necessarie le iniziazioni sentimentali della signorina Lucy Honeychurch e della sua faticosa ricerca verso il vero amore per scuotere l'indifferenza internazionale. Il suo piccolo e tortuoso calvario di menzogne (agli altri ma anche a se stessa) che la porta da un bacio appassionato, in un picnic a Fiesole, al fidanzamento con lo snob Cecil Vyse, fino al matrimonio con George, suo vero amore; con questo piccolo calvario, dunque, è un ottimo riscontro della confusione mentale che ancora sovente impera nei sentimenti. Come se si fosse all'alba della ragione del cuore. Forse non a caso la luce del film è spesso simile alle albe di Turner, poeta della luce ancora incerta e diffusa in un'atmosfera di indeterminazione delle forme. È più che logico che in una situazione generale di ritorno (non al futuro) ma agli ambiti privati, molto privati, l'odissea del cuore, raccontata in Camera con vista, così precisa, perfetta ed esatta, possa attirare l'attenzione. In fondo la cosa più semplice è sempre la strada della verità anche se deve attraversare i molteplici ponti dell'inganno. Mentire a se stessi, in definitiva, è anche il miglior modo per essere felici. Dunque: per giungere più velocemente alla gioia è più onesto imparare e vedere nel proprio cuore. Dentro se stessi, come dice Mr. Emerson, padre dì George, c'è già tutto il mondo, basta cercate di leggervi con chiarezza. Ivory come Rohmer ci alle bellezze ' visionarie, alle folgorazioni suscitate dai raggio verde. Il raggio verde dell'autocoscienza.
Carlo Scarrone, Segno Cinema n. 26 gennaio 1987 |
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Critica (2): | Nel catalogo della mostra di Venezia, a proposito di Camera con vista, lvory, dopo aver sottolineato gli amori per l'Italia e per l'India che condivide con Forster, dichiara: “So anche che le vere ragioni per cui ho deciso di girare Camera con vista sono più profonde e nascoste, e che un giorno mi si riveleranno improvvisamente, come si è verificato per la maggior parte dei miei film. Forse il mese prossimo, o forse tra una decina d'anni. Quando questo accadrà, ve lo farò sapere. Per non sembrare troppo misterioso, dirò che in tutto questo c'entra probabilmente Cecil Vyse”.
Il che è quanto meno sibillino, visto che Cecil è un personaggio senza riscatto. O meglio, il suo riscatto arriva talmente tardi, in sottotono e segnato dall'impotenza da collocarsi automaticamente al di fuori degli sviluppi della storia. Nel romanzo di Forster e, più sotterraneamente, nel film, attraverso l'interpretazione di Daniel Day Lewis (molto più sottile di quanto appaia a prima vista), Cecil esce dall'ultimo colloquio con Lucy con grande dignità e consapevolezza. Non solo; la sua sostanziale purezza (insieme a quella di segno contrario di George) fa emergere per un attimo la vera natura di Lucy. “Spense la lampada. La luce non le permetteva di pensare, né di sentire. Smise di cercare di capire se stessa, e si unì alle vaste schiere di persone comuni, che non seguono né il cuore né il cervello e marciano verso il loro destino con degli slogan. Le schiere sono piene di gente simpatica e pia. Ma costoro hanno ceduto all'unico nemico che conti... il nemico che è dentro di noi. Hanno peccato contro la passione e la verità, e vana sarà la loro gara per inseguire la virtù. Come gli anni passeranno, saranno criticati. La loro cordialità e la loro pietà mostreranno delle crepe, il loro spirito diverrà cinismo, la loro generosità ipocrisia; sentiranno e cagioneranno inquietudine dovunque vadano. Hanno peccato contro Eros e contro Pallade Atena, e non per intervento celeste, ma seguendo il normale corso della natura; quelle divinità alleate saranno vendicate. Lucy entrò a far parte di queste schiere quando volle dar a intendere a George che non lo amava e quando volle convincere Cecil che non era innamorata di nessuno”. (…)
Camera con vista è una delle opere giovanili di Forster, ancora molto lontana dalla tormentata visione cui lo scrittore arriverà forse solo in Passaggio in India. È quindi abbastanza ovvio che il quadro tracciato in Camera con vista sia più schematico. Ivory prende questa linearità e ci si diverte, schizzando (sorretto, questa volta, da un cast esemplare) un vero e proprio “bestiario” dell'eccentricità, banalità, naiveté, pudore, idealismo anglosassoni. Esemplarmente costruito per quadri, come accade nel romanzo e nella tradizione narrativa anglosassone sette e ottocentesca, Camera con vista procede verso la sua naturale conclusione con una lievità estranea al tormento e al dubbio. La felicità di Lucy sta esattamente in ciò che i suoi istinti di borghese campagnola le dettano; lì rotola il film, nonostante gli scarti e i bronci della ragazza, e le contrarietà e coincidenze (ma il caso non esiste, come spiega il reverendo Beebe) sono gli artifici narrativi naturali ai toni della storia.
Film di costruzione e regia esemplari, nella sua flebile ironia, Camera con vista è senza dubbio una delle opere più scorrevoli e facili di Ivory. Fin troppo, verrebbe da obiettare, se non sapessimo che non esistono film troppo scorrevoli, ma eventualmente solo film superficiali. E questa è un'accusa che non si può rivolgere a un film tanto netto e penetrante da tracciare con pochi tocchi fisionomie e nodi storici complessi. Certamente Camera con vista è il più anglosassone dei film di Ivory, il quale tuttavia riesce a riconquistare la propria estraneità per osservare con acuta distanza le idiosincrasie costitutive di un popolo e della sua cultura. Se c'è un osservatore esterno qui, è proprio il regista, che, per quanto è possibile, non filtra il proprio punto di vista attraverso alcun personaggio. La tesi del romanzo è tanto limpida che non va necessariamente condivisa per essere raccontata; per di più, essendo una tesi universalmente accettabile (il trionfo dell'istinto amoroso e della felicità sulle convenzioni e le difese personali), non va neppure difesa.
Non c'è dubbio però che Ivory ami sfumature più complesse e che forse il gioco dell'ironia non sia sufficiente all'approfondimento di sotterranee contraddizioni. Ecco allora che si affeziona palesemente ai due personaggi più controversi (e forse proprio per questo più ridicolizzati): la “povera Charlotte” e il rigido Cecil, la cui evoluzione psicologica è molto più interessante di quella della protagonista. Infatti, mentre Lucy procede lungo una strada ovvia, Charlotte e Cecil operano un ribaltamento. Charlotte si trasforma in “messaggera d'amore”, mentre Cecil diventa per un attimo l'amore perduto di Lucy. “Il tipo d'uomo che non sa conoscere intimamente nessuno... Perfetto finché si trova a contatto con cose, libri, quadri, ma uccide quando si avvicina alla gente”, sembra essere una frase chiave del film (e del romanzo), talmente azzeccata che alcuni personaggi se la passano di bocca in bocca come fosse propria. E la definizione che George dà di Cecil, e che Cecil accoglie come una vera rivelazione. In questa frase, al di là dell'ovvia aggressività di George, è concentrata una verità sullo sguardo che per un regista (e soprattutto per un regista estetizzante come Ivory) non può non essere inquietante. Cecil (e con lui Charlotte, che però alla fine, recuperando un'istintualità tutta femminile, agisce) è una di quelle persone che guardano gli altri vivere. Adoratore della bellezza, ha trascorso l'esistenza nel rispetto dell'armonia che regola linee, forme e colori di quadri, libri, musiche, paesaggi, persone. Non distinguendo la naturalità di queste ultime, non ne ha scoperto l'anima, o, forse, ha conferito loro la stessa anima delle opere d'arte. È infastidito davanti all'imperfezione che si rivela, e sbigottito alla scoperta del proprio errore di valutazione. Cecil è un personaggio molto meno discutibile e univoco di quanto non appaia per tutto il film. (…)
Emanuela Martini, Cineforum n. 262, marzo 1987 |
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