Let’s get Lost - Let’s get Lost
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Regia: | Weber Bruce |
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Cast e credits: |
Fotografia: Jeff Preiss; montaggio: Angelo Corrao; montaggio del suono: Maurice Schell, Laura Civiello; musica: Chet Baker; musicisti: Chet Baker (tromba e canto), Nicola Stilo (chitarra), John Leftwich (basso), Ralph Penland (percussioni), Frank Strazzeri (pianoforte); interpreti: Chet Baker, Carol Baker, Vera Baker, Paul Baker, Dean Baker, Missy Baker, Diane Vavra, Ruth Young, Dick Bock, William Claxton, Flea, Hersch Hamel, Chris Isaak, Lisa Marie, Andy Minsker, Jack Sheldon, Lawrence Trimble, Joyce Night Tucker, Cherry Vanilla (tutti interpretano se stessi); produzione: Bruce Weber per Little Bear Films; produttore esecutivo: Nan Bush; distribuzione: Lucky Red; origine: Usa, 1988; durata: 119’. |
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Trama: | È la storia di Chet Baker, trombettista jazz, bianco, tre mogli, quattro figli, un numero incalcolabile di donne, amici, ammiratori. Sleale, infedele, mentitore, affascinante, ebbe rapporto costante solo con la musica e con l’eroina. È, dopo Broken Noses, il secondo film di B. Weber, famoso fotografo di moda, che se l’è autofinanziato: un ritratto appassionato e commovente ma anche lucido e non reticente. |
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Critica (1): | A Bruce Weber, fotografo di moda con ambizioni cinematografiche, è andata proprio così. Dopo essere rimasto incollato a Chet Baker per molti mesi durante il 1987, ha visto morire improvvisamente l’oggetto della sua appassionata indagine, e quello che doveva essere un ritratto dell’artista ‘as a ruined man’, si è tramutato in un involontario necrologio, una biografia in articulo mortis che si sforza, spesso senza riuscirvi, di evitare l’agiografia. Così la laconica nota finale sulla morte del protagonista, pur senza specificare nulla sulla causa, istituisce una corrispondenza speculare tra la fine di Chet Baker e quella di Charlie Parker, ribaltando però i termini dell’identificazione. Dopo aver analizzato ogni ruga della contemporanea devastazione del volto di Chet, il regista vuole restituirci, nella trasfigurazione della morte, l’immagine stereotipata del Chet Baker baby face della sterminata iconografia, d’autore e non, sulla quale ha carrellato per buona parte delle due ore del film. È questa ossessione del giovane che invecchia, del bello che degrada, uno dei temi centrali, al di là del fatto che il protagonista abbia vissuto intensamente: la corrispondenza è rafforzata dalla constatazione che il ‘vero’ Baker è certamente, anche artisticamente parlando, quello giovane e bello, e la sua odierna immagine uno stravolto ritratto di Dorian Gray. Ma forse più a Poe che a Wilde ci fa pensare, come se l’immagine del giovane avesse succhiato tutta la forza, ii colori, la freschezza all’attuale, orrendo simulacro vagante. Il giovane musicista, idolatrato ben oltre i suoi meriti, conteso da attricette, cantanti di night-club, nobildonne e fotografi omosessuali, ha infine impedito all’uomo e all’artista di crescere e di maturare. II Chet di oggi, come quello di ieri, è divorato dal suo infantile narcisismo, ma la frattura tra le due immagini è insanabile, proprio perché la persona, pur irriconoscibile ‘fuori’, è sempre tragicamente la stessa ‘dentro’.
Non a caso la sua resurrezione musicale viene dopo un lungo periodo di totale oblìo, a sottolineare la cesura tra le due ‘versioni’, mentre la non perduta propensione a mentire ne evidenzia la sostanziale continuità. La tragica menzogna di Chet Baker contrapposta alla tragica verità di Charlie Parker. Ambedue ingestibili, ambedue devastanti per chiunque gravitasse nell’orbita di questi personaggi, che tuttavia rimangono profondamente diversi pur se accomunati in una simile sorte. «Era come vivere con Picasso», dice una delle donne intervistate, ma non è così. Se il Parker di Bird, come quello reale, e il Turner di ‘Round Midnight esprimevano in una reazione di totale disadattamento la loro completa alterità, in Chet Baker la vicenda personale risulta piuttosto scollata, autonoma rispetto a quella musicale, che non espresse mai nulla di realmente innovativo, inquadrandosi piuttosto nel filone del buon gusto e della misura, canonici nel jazz cosiddetto californiano. II Baker musicista non fu quel ‘maledetto’ che la sua biografia può far supporre, al contrario sfruttò tutte le sue caratteristiche per compiacere il pubblico borghese al quale si rivolgeva. Come trombettista fu stilista di classe, il suo fraseggio elegante e privo di vibrato era accattivante ma ineccepibile da un punto di vista jazzistico. Come cantante con quella voce «infantile e corrotta, disossata e nebbiosa», secondo una recente, pittoresca definizione, strappò più di un sospiro alle sue molte ammiratrici, assolvendo un ruolo non troppo dissimile da quello svolto da Elvis Presley, in differenti ambiti sociali e generazionali negli stessi anni. Certamente il Down Beat non lo avrebbe eletto miglior trombettista per due anni consecutivi né lo avrebbe piazzato, come cantante, addirittura alle spalle di Nat King Cole se il suo aspett fosse stato simile a quello di Jack Sheldon, il trombettista amico che anche nel film non rinuncia a fare la macchietta.
Nel cocktail di caratteristiche che hanno contribuito a fare di Chet Baker un personaggio, la musica ha quindi un ruolo principale ma non unico, e infatti il film relega decisamente in secondo piano le esibizioni musicali, ridotte a brevi flash o a tappeto sonoro per le interviste, le fotografie e le scorribande notturne, e comunque privilegiando il Baker più cantante che strumentista degli ultimi anni. Nella contrapposizione tra il genio maledetto che non esita di fronte alla vertigine dell’arte e il manierista che rinuncia alla ricerca della Verità Assoluta scegliendo la tranquillità esistenziale, Chet Baker si situa in una posizione intermedia. Nel delineare una possibile tipologia del jazzista, abbiamo già evidenziato la sua relativa vulnerabilità, la sua mancanza di filtri culturali a difenderlo dagli effetti devastanti di una passione troppo visceralmente vissuta. Tuttavia il mondo è pieno di artistucoli che perseguono l’autodistruzione, e l’ambiente musicale ‘non colto’ è quello afflitto dai peggiori tic esistenziali, frutto spesso di una tronfia retorica autocelebrativa che coinvolge tutti i livelli, dal fenomeno di massa al battisolfa da balera. Ed è in questa veste che meglio emerge la dimensione realmente musicale di Chet Baker: quando, smessi i panni consunti (e quanto consunti!) del poeta maledetto, e abbandonata ogni pretesa carismatica egli si mette finalmente al lavoro, da quell’ottimo artigiano che è. La ventura di possedere altre qualità gli consentì di arrivare troppo in fretta a vertici che forse non avrebbe meritato come musicista. Ciò costituì la sua effimera fortuna e la sua duratura disgrazia, ma può essere il punto di partenza per una rivalutazione, non sappiamo quanto prevista da un Weber tutto fremente per il suo personaggio, («Ogni suo pezzo potrebbe essere un film»), del tutto musicale di Chet Baker. Non a caso molti mestieranti hanno in lui e in Paul Desmond i loro riferimenti d’eccellenza, annullando, in un discorso esclusivamente musicale, le opposte caratteristiche fisiche dei due.
Non abbiamo mai provato particolare interesse né simpatia per il mondo della moda e per la caterva di immagini che lo accompagna, tuttavia non vorremmo ripetere cose già dette e ampiamente condivise. Il primo incontro cinematografico con Bruce Weber risale alla serie Beauty Brothers, cinque raccontini in bianco e nero realizzati per conto di una nota industria di pelletterie. La singolarità di questi spot, oltre che nell’assenza dell’oggetto pubblicizzato, era nello stile, indubbiamente raffinato e inconsueto anche per gli scafatissimi studios pubblicitari, tanto da far sobbalzare sulle loro sedie molti critici, altrettanto scafati, inducendoli ad amare riflessioni sul «modo in cui i mass-media stanno distruggendo l’originalità e la sincerità del cinema, abbassandolo a puro stile».
Il cinema, con lo sport, costituisce terreno principale dell’indagine fotografica di Bruce Weber. Le sue immagini attuano una singolare sintesi tra il realismo di Diane Arbus e la fotografia divistica hollywoodiana classica, il bianco e nero patinato, ricco di effetti di luce, tipico del ritratto d’attore, da Greta Garbo a James Dean. Quasi mai volti senza corpo, comunque, spesso corpi senza volto che richiamano spudoratamente l’ideale classico, quindi astratti pur nella loro evidenza carnale.
Nella sequela di gruppi scultorei, busti, torsi, schiene, nuche, bicipiti e glutei che popolano libri e cataloghi delle mostre dedicate a Weber, è evidente l’intenzione di raffreddare una materia di per sé esplicita, poco ambigua nella sua franca ostentazione. Siamo lontani sia dalle scandalose esibizioni trasgressive, sottolineate dal violento contrasto bianco/nero, di un Mapplethorpe, sia dal simbolismo ironicoonirico di un Michals, che sminuzza o riduce i suoi corpi a ectoplasmi.
Ma se breve è il passo che separa la divinizzazione mitologica dal cattivo gusto, viene spontaneo l’accostamento tra alcune opere californiane del Nostro, estenuate esibizioni di una manierata «grazia» maschile, e tutta la fotografia ellenistico-mediterranea che ebbe l’esponente di maggior spicco nel nobile von Gloeden.
È grazie alle centinaia di foto scattate agli atleti americani durante le Olimpiadi di Los Angeles che la fama di Bruce Weber ha potuto superare i confini, per certi versi angusti, del mondo della moda. Nato nel 1946 in Pennsylvania, Weber ha studiato con Lisette Model e ha conosciuto Diane Arbus. Ha realizzato servizi fotografici e spot pubblicitari per diversi stilisti, quindi, nel 1987, le miniserie dei Beauty Brothers, interpretata, fra gli altri, da tre fratelli Dillon, e il suo primo lungometraggio, Broken Noses (t. I. Nasi rotti), documentario su un club pugilistico e sul suo animatore Andy Minsker, un peso leggero somigliante sia a Matt Dillon, già ritratto da Weber, sia al giovane Baker, un volto, anche lui, guarda caso, col naso schiacciato, prima che un suono. Come è stato osservato da più parti, il film aggiunge poco o nulla di nuovo sul Chet Baker musicista, compiacendosi piuttosto di evidenziare tutta la meschineria, la falsità e l’esibizionismo vittimista dell’uomo. Di più, aggiungiamo noi, Let’s Get Lost non è nemmeno un film sul jazz, dato che non si preoccupa di definire più di tanto il contesto musicale, culturale e sociale che ha originato Chet Baker (Gerry Mulligan è citato appena). Anche un archetipo come Jammin’ the Blues, film fotografico per eccellenza, ambiva a definire l’estetica del bianco e nero nel jazz, alludendo a ben altri contrasti, mentre Weber stempera in un tripudio di tonalità di grigio le asprezze sottese. Riciclando peraltro il mito del ‘bello e dannato’ senza troppi riguardi per un personaggio che dichiara d’amare e che in realtà distrugge, come uomo (Each man kills...).
Weber comunque evita i tranelli nei quali incappano molti fotografi al loro esordio cinematografico, non cercando vanamente di infondere movimento al proprio patrimonio visuale, e adattando invece le proprie tematiche alle necessità strutturali del nuovo mezzo. Sotto questo aspetto il film è certamente riuscito, e l’immaginario weberiano, popolato da auto decappottabili scintillanti di cromature, volti abbronzati sulle freeways californiane, ciuffi alla James Dean e canottiere alla Marlon Brando, ne esce rinfrescato e rivitalizzato. Non a caso l’autore dichiara di essersi avvicinato alla musica di Baker grazie all’immagine sulla copertina di un suo disco, e probabilmente questo criterio interpretativo lo ha guidato nella realizzazione del film.
La ‘leggerezza’ della visione complessiva trova infine conferma nelle insistite inquadrature riservate ad uno dei figli di Baker, quello che maggiormente mantiene nei tratti del viso brandelli dell’aura paterna a conferma della fugacità e della fragilità delle cose che possono condizionare una vita intera o determinare una scelta artistica.
Marco Vecchi, Cineforum n. 293, 4/1990 |
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