Manifesto
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Regia: | Rosefeldt Julian |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Julian Rosefeldt; fotografia: Christoph Krauss; musiche: Nils Frahm, Ben Lukas Boysen; montaggio: Bobby Good; scenografia: Erwin Prib; arredamento: Melanie Raab; costumi: Bina Daigeler; effetti: Florian Gellinger, Rise FX; interpreti: Cate Blanchett; produzione: Julian Rosefeldt; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Germania-Australia, 2015; durata: 95'. |
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Trama: | I manifesti artistici e politici degli inizi del XX secolo (Situazionismo, Futurismo, Architettura, Vorticismo/Der Blaue Reiter/Espressionismo astratto, Stridentismo/Creazionismo, Suprematismo/Costruttivismo, Dadaismo, Surrealismo/Spazialismo Pop Art, Fluxus/Merz, Arte concettuale/Minimalismo) uniti a quelli dei primi anni del XXI di registi come Stan Brakhage, Lars Von Trier, Jim Jarmusch e Werner Herzog. Tredici personaggi diversi, tredici scenari che attraverso intensi monologhi e immagini costituiscono un omaggio a un movimento letterario o politico. Il regista riprende e ricontestualizza le parole immortali di artisti e pensatori e, attraverso le loro parole, rilegge il mondo contemporaneo. Raccontando quello che è cambiato e quello che non cambierà mai. |
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Critica (1): | Si stacca dalla medietà di certo cinema contemporaneo l'über-manifesto dell'artista tedesco Julian Rosefeldt, ardito e arguto cantore di disgiunzioni audio/visive ad alto tasso semantico. Originato dalla propria omonima video installazione, Manifesto adotta il talento di Cate Blanchett in dodici performance opportunamente ri-montate, ciascuna portatrice dei fondativi manifesti nella storia culturale ed artistica del '900, enunciati tuttavia in contesti del tutto estranei alle parole pronunciate. La ricontestualizzazione estrema è il centro drammaturgico dell'opera, tanto sorprendente quanto provocatoria e affascinante (...) una 'surrealistica' catena di forme e contenuti ironicamente assemblate. Notevolissimo, intelligente e attuale.
Anna Maria Pasetti, Il Fatto Quotidiano, 19/10/2017 |
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Critica (2): | Cate Blanchett, parrucca rossa, schiena rigida e uno sguardo duro, severo, fisso in camera. Legge il manifesto dadaista a una folla in lutto, a una tomba ancora aperta, a un feretro che sta per essere sepolto (che contiene l'Arte con la A maiuscola?). Legge e grida, con dolore, con forza, con passione. A una folla, allo spettatore, a se stessa, a nessuno e a tutti.
È solo una delle tante situazioni che Manifesto, il film di Julian Rosefeld nato da un'installazione artistica, mette in scena. Un momento che racchiude tutta la logica di questo lungometraggio senza trama, inclassificabile – è fiction o documentario, o nessuno dei due? È cinema o un'installazione filmata, o entrambi? – e per certi versi assurdo.
Tutto ruota attorno alla Blanchett, che interpreta, in 94 minuti, tredici personaggi differenti per aspetto, atteggiamento, estrazione sociale e accento. C'è la madre operaia e c'è la coreografa russa, la giornalista e l'inviata, la burattinaia e la maestra, la donna devota e la rock star sotto stupefacenti, e c'è persino la senzatetto che segue il suo cliché di alienata dal mondo reale. Ognuna di queste donne, inserita nel suo contesto di vita, non parla però di sé o di ciò che la circonda. Parla di arte. Non a qualcuno, non in un dialogo, ma sempre e solo in forma di monologo, spesso inascoltato da chi le sta attorno.
Ognuna di queste donne non recita, ma sente e vive un diverso manifesto del '900. Oltre al Dada, quindi, il Surrealismo, l'Arte Concettuale, Fluxus, l'Arte Pop, e perfino il Manifesto Comunista e il Dogma 95 di Lars Von Trier. Una trovata che, già fin qui, è non poco bizzarra. A ciò, tuttavia, si deve aggiungere l'ingegnosa idea della regista di accostare ciascuna “lettura” al personaggio e allo scenario che più le sta agli antipodi, in un gioco di coppie “fatto male”, che punta all'ironia e al contrasto.
Così, le parole di Claes Oldenburg vengono messe in bocca alla pia donna in preghiera; i principi di eliminazione dei confini tra arte e vita, propri di Fluxus, scorrono su una coreografia metodicamente controllata di ballerini-alieni; “l'architettura che brilla” viene esaltata contemplando un cumulo di macerie. Opposti e contraddizioni che non sono solo interni alle diverse scene-storie, ma anche, chiaramente, alla base dell'affiancamento dell'una all'altra, con il risultato che si dice e poi si nega uno stesso principio in pochi istanti.
Ma se il caos e la contraddittorietà fossero alla base stessa dell'arte? Da sempre ci si arrovella nel tentativo di dare una definizione a questo termine, tanto piccolo, quanto complesso. Se la definizione fosse proprio nel suo essere tutte queste cose, tutti questi principi, tutti questi credo e movimenti e manifesti? Se “arte” fosse un coro cacofonico di dodici voci che parlano ognuna per proprio conto (come nel finale del film)? Allora forse anche lo stesso Manifesto sarebbe, anche nel suo non poter essere definito, semplicemente “arte”, sia essa la settima o quella senza numero.
Katia Dell'Eva, cineforum.it, 20/10/2017 |
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