Assassinio di un allibratore cinese (L’) - Killing of a Chinese Bookie (The)
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Regia: | Cassavetes John |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: John Cassavetes; fotografia: Mitchell Breit, Frederick Elmes, Michael Ferris; musica: Bo Harwood; montaggio: Tom Cornwell; interpreti: Jack Ackerman (Tony Maggio), Timothy Agoglia Carey (Flo), Salvatore Aprile (Sonny), Val Avery (Blair Benoit), Vince Barbi (Vince), Virginia Carrington (Betty), Seymour Cassel (Mort Weil), Miles Ciletti (Mickey), Elizabeth Deering (Lavina), Alice Friedland (Sherry), Ben Gazzara (Cosmo Vitelli), Donna Gordon (Margo), Soto Joe Hugh (allibratore cinese); produzione: Al Ruban per Faces; distribuzione: Cineteca dell’Aquila; origine: Usa, 1976; durata: 105’ |
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Trama: | Fondatore e direttore del 'Crazy Horse West' Cosmo Vitelli riesce a pagare l'ultima rata che deve agli strozzini per il suo locale e finalmente sente la vida sorridergli. Una sera, in compagnia di tre dipendenti, si reca in un casino dove si indebita per diverse migliaia di dollari. Egli spera di pagare il debito con i proventi del locale, ma ignora di essere caduto nella rete di una losca banda che, facendosi viva, promette di cancellare il debito se Cosmo ucciderò un allibratore cinese residente a Chinatown. Dopo qualche titubanza uccide il cinese ma viene a sua volta ferito ed ora è braccato dalla banda che vorrebbe eliminare lo scomodo testimone. |
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Critica (1): | Subito dopo il notevole successo di Una moglie, il regista mette mano a un progetto, apparentemente meno impegnativo, che in America viene prontamente sottovalutato alla stregua di una vacanza interlocutoria, di un divertissement innocuo. è così che un film geniale come L'asaasinio di un allibratore cinese subisce alla sua prima uscita l'ostracismo di critica e pubblico e deve attendere il nuovo successo di La sera della prima, nel 1977, per "meritare" di essere ripresentato l'anno successivo in un'edizione abbreviata di quasi mezz'ora. Inquadrato nella giusta cronologia, il film riacquista oggi tutta la sua importanza - addirittura premonitrice se si pensa al milieu in cui Cassavetes ha ambientato il suo più recente Gloria - e costituisce a suo modo, nell'economia del trittico che con La sera della prima e Gloria potrebbe formare, la punta emergente. Il trittico investe direttamente quella tematica della Vita come irresistibile Teatro Mascherato che s'è andata evolvendo con la Tetralgia sul matrimonio. Anzi, L'assassinio segna forse il vertice estremo di quell'evoluzione che s'è andata sin qui disegnando. Ha l'apparenza, e la struttura esteriore, di un thriller, imparentato con la grande tradizione hollywoodiana del film nero, ma al suo interno avviene un furibondo processo di svuotamento delle retoriche del genere. Certo la manomessa edizione italiana - ulteriormente mutilata di 23' rispetto alla versione licenziata dal regista nel '78 -ha fatto di tutto per ridurre il film a quello che non è e non vuole essere, un thriller con suspence, e ha tagliato proprio i tempi morti, il disomogeneo, il fuori-copione, tutto quell'accessorio che sappiamo essere in verità l'essenziale, lo specifico del rècit cassavetesiano. Hanno così ridotto il film al suo pretesto, degradandolo a film d'azione, mentre in esso si esplica, come ha notato Jonathan Rosenbaum, un'altra variante dell'umanesimo "cechoviano" di Cassavetes. Nell'edizione originale, sia pure quella "minore", si afferra senza equivoci la procedura dello spaesamento cui l'autore ha sottoposto le strutture narrative di un codice per lui desueto. Ancora una volta il regista si camuffa da neofita della cinepresa e disintegra l'univocità del codice col suo fare divagatorio, con la simulazione della sua sprovvedutezza professionale. Ne risulta ingigantita, ancor più traumaticamente che negli altri film - i quali almeno inscrivevano in sé a priori questa loro rapsodicità di progetto scisso da una normativa codificata - la prassi della frammentazione e dell'atomizzazione, lo straniamento degli stereotipi del genere e il loro aleggiare in un clima rarefatto e fluttuante, svisato e "spostato". Emblema vivente di tale "spostamento" è Ben Gazzarra nel ruolo del Killer, un ruolo che dall'evoluzione dell'aneddoto è costretto a improvvisare e che gradualmente sembra stargli bene, appagarlo. Non perché - come succede ad esempio nel cinema "classico" o in quella struggente rivisitazione recente del cinema "classico" che è Der Americanische Freund (L'amico americano, 1977 di Wenders, giusto per citare un'opera non dissimile nelle intenzioni) - ne resti coinvolto oltre misura. Ma proprio perché quel ruolo stravagante ed eccentrico sembra lusingarlo, compiacere il suo teatro - non così narcisistico e complicato da motivazioni introspettive - esistenziali come quello di Wenders e, sembra arricchire di nuova veste la sua recita quotidiana, il suo carnevale dell'io. In Cassavetes c'è si destrutturazione semantica, ma c'è più che altro parodia. Il Cosmo Vitelli di Gazzarra eredita la maschera del vilain che già Mariti ha appiccicato addosso all'attore, sospendendone la sorte nel finale londinese per ritrovarlo qui, proprietario e gestore di un localaccio di strip-tease sul Sunset Boulevard, a Los Angeles, il "Crazy Horse West", un Teatro nel quale egli proietta tutte le sue smisurate - camevalesche - ambizioni di grandezza. La Myrtle di La sera della prima le proietterà su un palcoscenico ben più rispettabile di questo, così lubrico e scurrile, ma la sostanza non cambierà. Per questo L'assassino è l'incunabolo di La sera della prima e nel segno della continuità nei confronti della Tetralgia. Di essa L'assassinio è il coronamento fantasmagorico. L'estetica della babele scenicodrammaturgica attinge qui il suo acme. Il
"bastardo" Cosmo, immigrato italo- americano col marchio del diverso in un milieu rapace e caotico (l'accoppiata GazzarraBogdanovich per l'ottimo Saint Jack, 1979, discende da qui), esperisce nel breve incalzante arco del suo carnevale tutti i possibili connubii grotteschi: con le graziose spogliarelliste della sua rivista, di cui è ideatore e regista (come dichiara egli stesso al pubblico); con la più avvenente fra di esse, la splendida nera Rachel, di cui è "fidanzato" in beffa a tutti gli equilibri etnico-razziali, col vecchio entertainer della rivista stessa, Mr. Sophistication, suo caricaturale alter-ego, cascante e imbellettato fantoccio dal ghigno ignobile e dalla voce roca, un Karl Valentin ignominosamente decaduto; con la malavita della West Coast, che controlla le bische e intende trasformarlo in Killer, col cinese destinato ad essere la sua vittima e che diviene alla fine un altro imprevedibile alter-ego, nella girandola delle identità scambiate e dei ruoli sovvertiti. La spregiudicatezza di L'assassionio risiede nel suo porre esplicitamente la funzione profanatrice del teatro, inteso nella sua veste più trucibalda, al centro della vita disordinata del protagonista, fino allo sconfinamento dell'uno nell'altra, fino alla reciproca osmosi delle spettanze (anche La sera della prima rifletterà tale dinamica). Il carnevale dell'abietto, inscenato da Mr. Sophistication, ingloba tutto, le sue astuzie sboccate della messinscena e le fertili potenzialità della vita, si fa spettacolo della vita, immagine traslata - su un sordido palcoscenico - della sua irriducibile relatività. Inventore, regista e sovrano assoluto dello spettacolo resta Cosmo Vitelli, un Re del Carnevale che percorre senza scomporsi tutta la traiettoria prevista dalla propria funzione simbolica, dalla buffonesca sovranità indiscussa alla sguaiata perdita di autorità, alla morte-farsa.
Sergio Arecco, Cassavetes, Il Castoro Cinema, 1980 |
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Critica (2): | Nel cinema di John Cassavetes le "storie" contano poco. Così, per darvi egualmente una vaga idea, diciamo che L'Assassinio di un allibratore cinese parla del proprietario di un locale di spogliarello che fa il proprio mestiere con passione. Ma che, in seguito ad un debito di gioco è costretto a commettere un omicidio su ordinazione.
Ma, come detto, a Cassavetes non interessa la storia ed il suo sviluppo. Cassavetes è nato, cinematograficamente, in un momento ben preciso: attorno al 1960, quando con la Nouvelle Vague in Francia, con il Cinema Novo nell'America latina, con il Free Cinema in Gran Bretagna, e, appunto con la scuola di New York negli Stati Uniti, si decideva una volta per tutte di voler rompere gli schemi, le convenzioni che regolavano un cinema ormai sclerotizzato, le formule dettate dai sistemi industriali imperanti nel mondo dello spettacolo.
Con il (relativamente) celebre Shadows (Ombre, 1960) Cassavetes chiariva il suo modo di vedere: la verità, la realtà andava cercata con dei mezzi vicino al documentario, ma un documentario basato su degli attori. Una situazione, insomma, rovesciata: su degli attori, su una situazione umana si produceva un comportamento umano. S'inventava il documento, la verità su degli attori che seguivano una determinata finzione. Al regista interessa un personaggio, i rapporti con il mondo che lo circonda, i condizionamenti che l'uomo subisce dall'ambiente. Delle psicologie inserite nella società in cui viviamo.
"Per me, l'attore è la forza creatrice fondamentale. Se la sua comprensione, se il suo approccio alla materia trattata sono positivi allora il film è riuscito; ed il lavoro dei tecnici diventa quasi secondarlo."Ovvio, a questo punto, che tutto debba nascere, nel cinema di Cassavetes, da questa intimità fra regista e attore: e le interpretazioni, forse improponibili nel cinema di oggi, di Gena Rowlands, di Ben Gazzarra e di tutti gli altri attori che regolarmente fanno parte della banda di Cassavetes sono il risultato di questa intimità. Tutto, nel cinema del regista, è sacrificato a questo scopo: il personaggio dev'essere colto nel modo più naturale possibile, con la maggiore immediatezza e semplicità. Così, quindi, i tempi sono spesso vicini a quelli reali, le durate sono circoscritte. Faces dura un paio di giorni, Husbands (Mariti) una notte, quattro giorni Minnie e Moskovitz; due lunghe scene, separate da un'ellissi di sei mesi, per Una moglie. Pochi giorni per l'Allibratore cinese, e così via.
In questo tempo, e spazio limitato la macchina da presa s'incolla ai personaggi. Li scruta in ogni loro gesto, in ogni loro piccola reazione con una sola regola fissa: quella della massima semplicità. La cinepresa di Cassavetes è sempre al posto più diretto, più logico. Osservando l'estrema originalità dei suoi temi, il fatto che egli non assomigli veramente a nessuno, viene da chiedersi se tutti gli altri non abbiano perso, invece, il dono della semplicità, della naturalezza.
Cerchereste inutilmente uno stile, una regola nel cinema di Cassavetes, proprio perché è dalla mancanza di regole che nasce il suo tono inimitabile. Agli attori è lasciato tutto il tempo a disposizione. Anzi, più del tempo necessario. Con dei tempi lunghi, con una scena che non finisce quando la convenzione vuole che finisca, con un tempo "vuoto" alla fine da riempire, l'attore sarà costretto ad esprimere, a concedere del suo. In quegli interminabili secondi che mancano al "cut" del regista, e che bisogna pur colmare, l'attore finisce con l'esprimere quello che appartiene al personaggio di più intimo e vero.
I film di Cassavetes non sono mai delle storie, ma una serie di ritratti, sconvolgenti di verità, su degli individui, e sui rapporti che questi individui hanno con il mondo che li circonda. Come farfalle impazzite essi vengono sospinti dalla cinepresa in ambienti raccolti, camere d'albergo, scantinati, scale, cucine, locali notturni. Stretti contro le pareti dall'occhio della camera, negli angoli delle stanze. E poi lasciati andare, una volta svuotati del loro contenuto umano.
I film di John Cassavetes, egualmente, non hanno una fine, così come non hanno una storia. Questi termini sono quelli di una convenzione narrativa che l'autore ha sempre rifiutato. Le sue storie si svolgono all'interno dei personaggi. E in quella prospettiva affascinante la nozione di fine ancora non è stata scoperta.
Fabio Fumagalli, rtsi.ch/filmselezione, 23/01/1980 |
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