Donna che visse due volte (La) - Vertigo
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Regia: | Hitchcock Alfred |
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Cast e credits: |
Soggetto: Pierre Boileau, Thomas Narcejac; sceneggiatura: Alec Coppel, Samuel Taylor; fotografia: Robert Burks; musiche: Bernard Herrmann; montaggio: George Tomasini; scenografia: Henry Bumstead, Sam Comer, Frank McKelvey; effetti: John P. Fulton; interpreti: James Stewart (John “Scottie”), Kim Novak (Madeleine/Judy), Barbara Bel Geddes (Midge), Tom Helmore (Gavin Elster), Henry Jones (uff. giudiziario), Raymond Bailey (il dottore), Ellen Corby (padrona albergo), Konstantin Shayne (Pop Leibel, libraio); produzione: Alfred Hitchcock per la Paramount; distribuzione: Cineteca di Bologna; origine: Gran Bretagna, 1958; durata: 129’. |
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Trama: | L'agente di polizia Johnny Ferguson ha una certa predisposizione alle vertigini, e tale sua particolarità è causa di un incidente che provoca la morte di un suo collega: in seguito a questo fatto Johnny dà le sue dimissioni. Un suo amico, Galvin Elster, lo incarica di vigilare sulla propria moglie Madeleine, la quale da qualche tempo si comporta in modo strano. I suoi atteggiamenti sembrano dar credito ad una incredibile supposizione: che in Madeleine riviva lo spirito di una sua bisnonna morta suicida in tragiche circostanze. Johnny si rifiuta di credere a tale assurdità, ma non riesce a trovare una spiegazione logica di quanto ha modo di accertare. Egli salva una prima volta Madeleine che, in preda ad un'allucinazione, si getta in mare; ma non riesce a salvarla una seconda volta quando la donna, sfuggitagli, sale su di un campanile e si getta nel vuoto... |
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Critica (1): | James Stewart, appena dimesso dall’ospedale dove era stato ricoverato in seguito alla crisi che lo aveva colpito, è a casa dell’eterna fidanzata, Barbara Bel Geddes, ai piani alti di un grattacielo di S. Francisco. In un impeto di ottimismo vuole spiegare alla donna come riuscirà da solo a vincere la malattia che gli procura il senso di vertigine: si tratterà di abituarsi a poco a poco a tenere i piedi lontani dal pavimento, per esempio salendo dapprima su uno sgabello. Ecco che subito dà una dimostrazione: “Guardo su e guardo giù”. Lo sgabello è pericolosamente vicino alla finestra, che, per fortuna, è chiusa.
La donna sta al gioco. Lo sgabello è troppo basso, bisogna incominciare da qualche centimetro più su: ne porta un altro, un po’ più alto, e lo sistema accostandolo ancora di più alla finestra, naturalmente senza rendersene conto. Il nostro eroe, ormai galvanizzato, sale impavido: la m.d.p. mostra il dettaglio dei piedi ancora incerti nell’equilibrio, il gioco sembra ripetersi, “Guardo su e guardo giù”, ma questa volta quando Stewart abbassa lo sguardo non vede solo il pavimento: là in basso, lontana, c’è la strada. La tensione che la messa in scena ha orchestrato esplode e si esaurisce nella crisi che ne segue e che conclude la sequenza: Stewart perde l’equilibrio, ma cade verso l’interno, tra le braccia della Bel Geddes, turbata e pentita d’aver dato corda all’arrischiata esibizione.
In questa sequenza iniziale di Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) Hitchock coniuga, con il tocco da gran maestro dello humor nero, il meccanismo del suspence all’altro elemento, altrettanto familiare ed essenziale alla definizione del suo cinema: la fascinazione per il vuoto, per il camminare sull’orlo del baratro, per l’orrore del precipitare. In breve, la fascinazione per la vertigine. Questa vera e propria ossessione per la caduta, intesa quale motore drammatico e, in certi casi, come punizione esemplare rispetto alla colpa originaria, si concretizza formalmente nella puntuale comparsa del motivo “vertigine” nei suoi film, sia come elemento caratterizzante certe azioni o situazioni, che a livello del disegno compositivo strutturale, là dove la storia acquista la sua forma. Certamente non è un caso se tra le sequenze più ammirevoli del suo cinema figurano quelle finali di Saboteur (I sabotatori,1942), con la resa dei conti (e la conseguente caduta) in cima alla Statua della Libertà, e di North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959) sul bordo del precipizio del monte Rushmore. L’esemplarità di simili sequenze è il risultato di una lunga frequentazione di questo tema da parte di Hitchcock, e dunque dovuto in ugual percentuale all’inventiva tecnico–linguistica che alla sensibilità morale nei suoi confronti. Vertigo – il cui titolo italiano risulta piatto e banale, fuori bersaglio rispetto alla lapidaria messa a fuoco operata da quello originale – è senz’altro un film-manuale, in cui Hitchcock combina una volta per tutte i vari elementi. L’identificazione tra vertigine e colpa che sta all’origine delle peripezie del protagonista si capovolge simmetricamente nella morte–punizione finale: la caduta dall’alto del campanile. La presenza di quest’ultimo è la traduzione visivo-spettacolare del tema portante: Hitchcock, come al solito, vi si dedica con particolare applicazione, alla ricerca dello strumento tecnico che permetta alla sua inventiva visuale di tradursi in immagine compiuta: diciannovemila dollari dell’epoca spesi per la realizzazione di un’unica inquadratura (l’effetto soggettivo di vertigine nell’interno del campanile), come spiega nella fondamentale intervista-libro concessa a François Truffaut. Infine, occorre sottolineare tutta l’importanza di quel vero e proprio “buco” nel racconto, costituito dal lungo periodo della malattia di Ferguson/Stewart durante il quale Madeleine/Kim Novak acquista la sua nuova identità e il nuovo aspetto fisico, prima che il “caso” la riporti all’uomo che si era prestata ad ingannare così crudelmente. La presenza centrale di questa malattia non raccontata costituisce il vuoto intorno a cui ruotano i due momenti del film: vi si avvita l’ir-resistibilità del movimento discendente che porta Ferguson a perdersi negli abissi della sua passione, vera e propria “picchiata” interiore che gli fa perdere ogni riferimento e autocontrollo, fino alla shock finale, ambiguo momento di illuminazione ma anche di privazione/punizione.
Adriano Piccardi, Cineforum n. 239, 11/1984 |
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