Kemp. My Best Dance Is Yet To Come
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Regia: | Gabbriellini Edoardo |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Edoardo Gabbriellini; fotografia: Daria D'Antonio; montaggio: Andrea di Fede, Walter Fasano; interprete: Lindsay Kemp; produzione: Mammut Film, con il contributo di Toscana Film Commission; distribuzione: ; origine: Italia, 2019; durata: 63’. |
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Trama: | Lindsay Kemp, ballerino, mimo, coreografo, regista, recentemente scomparso, è stato un’icona della danza contemporanea, sperimentatore eccentrico e provocatorio, fonte d’ispirazione per altrettante grandi personalità, che vanno ben oltre i suoi campi d’azione, come la sua influenza nella musica di David Bowie e Kate Bush e anche nel cinema con l’amico e genio dell’avanguardia inglese, Derek Jarman.
Il documentario racconta l'ultimo anno di vita di Lindsay Kemp a Livorno, tra memorie e tentativi di mettere in scena il suo ultimo spettacolo dedicato a Nosferatu. |
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Critica (1): | È essenziale, sintetico (appena 63 minuti di durata) e va dritto al cuore della straordinaria arte e personalità di Kemp, questo lavoro di Gabbriellini, che sceglie di far parlare il grande coreografo – per lo più nella sua casa di Livorno piena di fiori e di carte da parati in stile vittoriano, cambiando stanza di volta in volta – creando una sorta di conversazione con se stesso da giovane, così come ci viene mostrato nei vecchi filmati che il regista ha reperito dalla BBC e dalla TV australiana e svizzera. Figlio di un marinaio, ha ereditato il movimento delle onde del mare – dice Kemp di se stesso – e probabilmente dalla madre, definita una vera “party girl”, la propensione per l’alcol e gli allucinogeni (“con l’LSD ho trovato me stesso”). Datosi come missione quella di elettrizzare e stimolare il pubblico (bisogna uscire cambiati da uno spettacolo teatrale, secondo lui, altrimenti è solo noia), parla di sé come di un poeta clown, capace di innalzarsi ad alte vette ma anche di cadere col culo per terra, in una dialettica tra alto e basso in cui ciò che più conta è “mettere lo spettatore sotto il mio incantesimo”, anche in un locale di strip-tease.
Impossibile non rimanere ammaliati dal fascino e dalla straripante creatività di questo uomo visionario, dal suo modo di parlare e dalla sua mimica, come quando lo ascoltiamo raccontare una scena del suo Dracula, quello che avrebbe dovuto realizzare di lì a poco, e ti sembra proprio di vederla. Gabbriellini avrebbe potuto fare un doc più classico, raccontare la biografia di Kemp, intervistare gli artisti che a lui si sono ispirati (Peter Gabriel, Kate Bush…), e invece ha scelto di concentrarsi su di lui, oggi. Ed è una scelta vincente, perché restituisce l’essenza di un artista dal genio inesauribile, allievo di Marcel Marceau (che gli ha “dato le mani”), che ha mostrato a David Bowie “come essere meraviglioso visivamente oltre che musicalmente”, ma per il quale, a 80 anni – e lo dice con il sorriso sornione di chi è sempre in scena – “il meglio deve ancora venire”.
cineuropa.it |
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Critica (2): | Lindsay Kemp mi ha aperto la porta di casa in kimono. Conoscerlo, poi, è stato un incanto". Così quello che doveva essere un solo, unico incontro tra Edoardo Gabbriellini (…) e il grandioso coreografo, ballerino, mimo - scomparso lo scorso 24 agosto - si è trasformato in tanti incontri e racconti, che Gabbriellini ha poi raccolto nel documentario Kemp, di cui alcuni estratti verranno presentati agli Uk Film Days Italia (...)
"Non c'è una programmazione logica nei miei impegni, un sacco di cose, mio malgrado, mi capitano. L'idea di fare un documentario mi è sempre stata lontana, mi spaventava. Tuttora questo su Lindsay Kemp lo considero un ritratto". Edoardo Gabbriellini non aveva nessuna intenzione di girare un film su Kemp. "Tre o quattro anni fa, non ricordo di preciso, ero sul set di un regista inglese. Quando scopre che sono di Livorno mi dice che l'unico motivo per cui conosce quella città è per il fatto che il grande Lindsay Kemp l'aveva scelta come casa, anni prima. Il suo discorso mi ha incuriosito e mi ha fatto pensare che sarebbe stato interessante già solo andare a conoscere quest'uomo, non fosse altro per capire cosa lo avesse portato a Livorno".
È quindi per un semplice sentimento di curiosità che Gabbriellini si spinge verso "un palazzo a dir poco anonimo" della sua Livorno. Sicuramente non immaginava chi e cosa si sarebbe trovato davanti, lui che di Kemp conosceva solo il legame con David Bowie e “Flowers "perché una cara amica me ne aveva parlato come dell'esperienza teatrale più bella della sua vita. Certo, avevo l'immagine del suo viso truccato di bianco, ma niente di più". Da quel primo incontro invece Gabbriellini è rimasto "incantato". L'artista, danzatore, illusionista, trasformista, circense - racchiudere Kemp in una definizione è tanto difficile quanto inutile - di cui sono stati allievi David Bowie, Kate Bush o Mick Jagger, aveva scelto un appartamento "nel quartiere antico di Livorno, dove le case sono costruite sul canale e affacciano sul vecchio mercato centrale. Il suo era un palazzo a dir poco anonimo degli anni Ottanta, di quelli con l'ascensore con gli infissi in formica. Mi ha aperto la porta in kimono e da quel momento è stato come entrare in un buco spazio-temporale". A Edoardo Gabbriellini è bastato guardarsi attorno per capire che approfondire quella conoscenza avrebbe portato a qualcosa di bello: "La carta da parati di William Morris, tutti quei libri intorno, sembrava che Kemp vivesse sul set di un film di James Ivory. C'era un gatto sul piccolo tavolino del soggiorno che beveva acqua da un calice in vetro inzuppando la zampa, non direttamente con la lingua. I presupposti c'erano tutti". Gabbriellini impara a conoscere Kemp man mano che gli incontri vanno avanti: "Inizialmente pensavo a un documentario in senso classico, in termini nozionistici e didascalici. Poi, più lo conoscevo più diventava interessante che diventasse un racconto intimo". Il risultato finale, infatti, che è una lunga conversazione che Kemp fa con se stesso, è una continua contaminazione tra uomo e maschera, "in questo senso intimo: non è Wikipedia, ma qualcosa in cui gli elementi personali e quelli legati alla carriera si mescolano".
Senza la pretesa di realizzare qualcosa di esaustivo, in Kemp ci sarà un po' di David Bowie, "un riferimento in maniera trasversale e divertente. Lindsay ha passato gli ultimi trent'anni a rispondere a domande su Bowie, ho lasciato che nel film entrasse solo quello che lui aveva voglia di raccontare", un po' dello spettacolo che stava pensando di realizzare, "su Dracula, ispirato a Nosferatu di Murnau" e, naturalmente, Livorno: "Ho provato a domandargli quattro o cinque volte perché avesse scelto quella città, ogni volta mi dava una risposta diversa. Penso che la più reale sia questa: a Livorno Kemp ha trovato un esilio tranquillo, vicino al mare che considerava un rifugio dalla vita, pur non sapendo nuotare. Il mare era per lui un'ispirazione e un monito". Un esilio, però, dal quale continuare comunque a indossare maschere: "Non ha mai smesso di pensare che la sua danza migliore dovesse ancora arrivare. C'era un certo romanticismo nella sua capacità di continuare a vedere il bello che ha un po' cambiato il mio modo cinico di vedere il mondo".
Lindsay Kemp diceva di essere sempre stato convinto di essere nato per danzare e di averne avuto la conferma quando, a dieci anni, sua mamma lo ha portato per la prima volta al cinema a vedere Scarpette Rosse. "Non solo - continua Gabbriellini - era convinto che tantissimi bambini della sua generazione fossero stati avviati alla danza grazie a Michael Powell, Emeric Pressburger e a quel film". (…)
Giulia Echites, repubblica.it |
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