Dramma della gelosia - Tutti i particolari in cronaca
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Regia: | Scola Ettore |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Ettore Scola; fotografia: Carlo Di Palma; musiche: Armando Trovajoli dirette da Gianfranco Plenizio, con i Cantori Moderni di A. Alessandroni - le canzoni "Vedo un'ombra sul tuo volto" e "Se tu mi lasceresti" sono cantate da Monica Vitti e Marcello Mastroianni; montaggio: Alberto Gallitti; scenografia: Luciano Ricceri; costumi: Ezio Altieri; interpreti: Monica Vitti (Adelaide Ciafrocchi), Marcello Mastroianni (Oreste Nardi), Giancarlo Giannini (Nello Serafini), Manuel Zarzo (Ughetto, amico di Oreste), Marisa Merlini (Silvana, sorella di Adelaide), Josefina Serratosa (Antonia, moglie di Oreste), Fernando Sánchez Polack (propagandista comunista), Hercules Cortes (Amleto Di Meo), Giuseppe Maffioli (medico legale), Corrado Gaipa (giudice istruttore), Paola Natale (zingara), Gioia Desideri (fioraia), Juan Diego (figlio di Oreste), Bruno Scipioni (pizzaiolo testimone), Luciano Bonanni (Umberto, l'infermiere); produzione: Pio Angeletti e Adriano De Micheli per Dean Film-Juppiter Generale Cinematografica (Roma)-Midega Film (Madrid); distribuzione: Cineteca Nazionale; origine: Italia- Spagna, 1970; durata: 107’. |
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Trama: | Durante una manifestazione politica, Oreste, un muratore romano di quarantacinque anni, sposato con una donna molto più anziana di lui, conosce Adelaide, una procace fioraia, della quale si innamora, pienamente ricambiato. Il loro amore fila in perfetta armonia, fino al giorno in cui Adelaide non fa la conoscenza di Nello – un pizzaiolo toscano–- al cui fascino non riesce a resistere. Provando per entrambi la stessa attrazione, la donna cerca di dividere equamente i propri favori, ma la situazione non garba ad Oreste, il quale cade nella morsa di una gelosia morbosa. Allorchè Adelaide decide di sposare Nello, Oreste, con la mente ormai sconvolta, uccide involontariamente la sua ex amante. Condannato a cinque anni, grazie all'attenuante della seminfermità mentale, lo sventurato muratore, scontata la breve pena, ritorna in libertà ormai in preda a una forma di delirante follia. |
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Critica (1): | Sin dalle complicazioni dell'elaborato soggetto si capisce che Dramma della gelosia... segna un ulteriore salto di qualità nel cinema di Scola. Nell'affrontare l'universo proletario dei tre personaggi il regista colora la commedia di tinte melodrammatiche, coll'intento di sottolineare il carattere subculturale di una vicenda tante altre volte narrata e «vissuta»: narrata dal cinema, nella forma del film popolar-lacrimogeno alla Matarazzo; «vissuta» dal lettore/spettatore attraverso i puntuali (e spesso divertiti) resoconti giornalistici nelle pagine di cronaca. Sono poi gli stessi personaggi del film a nutrirsi di quelle letture e di quella "cultura": ne sono propriamente gli "attori", sia pure in un copione altrove concepito.
Questo primo film di Scola sui "poveri" (altri ne seguiranno, dal successivo Permettete? Rocco Papaleo, 1971, al più tardo Brutti, sporchi e cattivi, 1976) taglia corto con la politica: il fatto che Oreste militi nel PCI, che incontri Adelaide alla Festa dell'Unità e Nello durante una carica della polizia, non lo rende immune ai sentimenti, alle palpitazioni d'amore e poi agli effetti rovinosi della gelosia. Dramma della gelosia... non ha certo il provocatorio ardire de Il grido, con cui Antonioni, tredici anni prima, aveva mandato in soffitta gli eroi proletari del realismo socialista; il privato è già quasi politico nel 1970, quando gira questa sorta di Jules et Jim alla romana. Nondimeno, questa rappresentazione di una cultura popolare succube di modi di vedere assorbiti dai mass media (televisione, cinema, fotoromanzi, giornali) manda in corto circuito certe utopiche (benché residue) schematizzazioni di classe ancora in voga da qualche parte a sinistra. L'Adelaide di Monica Vitti s'illude veramente che la propria vita stia diventando un (foto)romanzo. Ne è persino lusingata, intenta ad orientare, ora verso il maturo Oreste (Mastroianni) ora in direzione del focoso Nello (Giannini), il proprio "indivisibile" amore. «Pur nel tono grottesco della tragicommedia – osserva Lino Micciché, mai tenero in precedenza con i film di Scola – vi sono, sovente, penetranti notazioni di psicologia e di costume, sociale e individuale; e soprattutto c'è, portata sino in fondo, la felice idea di far parlare gli "eroi" di un "dramma" popolaresco, infiorato di patetiche espressioni da novelletta "rosa" e da "fumettone" a buon mercato. Il che finisce, in certo modo, per rendere plausibile e accettabile la svolta patetico-drammatica della seconda parte del film, dandole una venatura di non lacrimosa, ma pur percepibile malinconia» («Avanti!», 3 maggio 1970).
Su questo carattere morbidamente "metafilmico" di Dramma della gelosia... – il cui primo pregio consiste nel far aderire personaggi e situazioni alla proiezione semantica dei loro stereotipi – insistono parecchie altre note recensive, per la prima volta unanimi nel salutare con molti elogi e assai poche riserve un film di Scola. Unanimi o quasi, perché c'è anche chi (Giacomo Gambetti, su «Bianco e nero», n. 7/8, 1970) trova che il modello inimitabile resta pur sempre Lo sceicco bianco di Fellini: «Ciò che più sembrava nuovo in questo film... fu sperimentato e svolto con acume e fantasia ben maggiori quasi vent'anni fa». D'altra parte, quel che viene salutato con entusiasmo – ad esempio il riuscire «a condurre questa doppia scala di effetti (farsa e tragedia, sesso e sentimento, caricatura e verità, favola e vita di popolo) padroneggiandoli tutti, senza che mai l'azione si scolli, senza che questo fluido sottofondo problematico pregiudichi mai la marcia sicura dell'azione» (Filippo Sacchi, «Epoca», 17 maggio 1970) – è già ben in nuce nei lavori precedenti del regista e trova qui, più che l'incipienza della rivelazione, la conferma di un “metodo”.
Nuove, semmai, sono le incursioni oniriche, quel far sognare Oreste ad occhi aperti consentendo alla fantasia di entrare in scena, con un procedimento che sa di «realismo magico», come sostengono Pier Marco De Santi e Rossano Vittori (I film di Ettore Scola, op. cit.) e che rappresenta un segno di ulteriore affinamento stilistico. Se il gioco funziona (e, rivisto ad anni di distanza, non certo in chiave di «volgare fascismo e di razzismo antipopolare» come ebbe a sostenere Fofi sui «Quaderni piacentini», ora in Capire con il cinema, Milano, 1977) lo si deve naturalmente anche alla disponibilità degli interpreti, diciamo pure alla loro capacità di calarsi nei personaggi con versatile duttilità. Riso e pianto, lucidità e follia, tenerezza e ruvidità sono chiamati a mescolarsi continuamente, disegnando una varietà di stati d'animo che l'ispido Mastroianni, la sognante Monica Vitti, l'ansioso Giannini assecondano con azzeccata simpatia. La prova di Mastroianni, in particolare, trova il massimo consenso a Cannes, dove la giuria del Festival gli attribuisce la Palma d'Oro per la migliore interpretazione. Trattandosi, inoltre, del primo film di Scola dove interagiscono diversi protagonisti, va segnalata l'accorta coesione dei ruoli, così importante in taluni successivi lavori, a cominciare da C'eravamo tanto amati (1974), le cui premesse sono in parte qui enunciate. (...)
Roberto Ellero, Ettore Scola, Il Castoro Cinema, 1995 |
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Critica (2): | Questa cronaca romanesca puntuta e molto ben recitata potrebbe offrire uno sbocco abbastanza interessante al filone della commedia all'italiana, quello del film che assorbe nell'impianto farsesco spunti satirici e di costume e che non nasconde tra le buffonerie un risvolto amaro. Che, ad un certo momento, capovolge le carte e arriva al dramma « tout-court ».
In apparenza, Dramma della gelosia fa tutto per ridere, ma a parte lo sbocco finale c'è qualcosa nella pellicola che non permette di abbandonarci del tutto all'allegria, come succede appunto negli esempi di quel «genere» complesso e difficile che si suole definire «grottesco».
Il fatto raccontato è quanto mai lineare: Adelaide (Monica Vitti) è una fioraia del Verano che s'innamora del muratore Oreste (Marcello Mastroianni) ma che non può impedirsi di amare «anche» il piazzaiolo Nello, toscano trapiantato nell'Urbe. Un triangolo proletario, insomma, che finirà soltanto in tragedia, di cui sarà vittima la povera Adelaide. Ma lo schema è vivificato dal particolare impianto in cui è calato. La partenza del film è infatti l'istruttoria per il processo a Oreste, l'uccisore, da cui si dipana l'esposizione della vicenda: tutti i personaggi ricostruiscono man mano i fatti davanti all'autorità inquirente, e mentre parlano e si giustificano o accusano fanno seguire le azioni alle parole, ripetendo cioè gli accadimenti, e mescolando talvolta in un'unica dimensione – nel quale caso i personaggi si sdoppiano nella stessa inquadratura, oppure sono contemporaneamente attivi come protagonisti e come testimoni – sia le loro deposizioni che gli accadimenti cui hanno partecipato. Un espediente non nuovissimo ma interessante, anche se talvolta un po' compiaciuto, che fa pensare ad una soluzione intellettualistica. Ma l'interesse del film è altrove, e cioè nel far agire e parlare i personaggi secondo una pseudo-cultura di massa fondata (o meglio orecchiata) sul consumo di un linguaggio diffuso da TV, rotocalchi, propaganda politica.
La «chiave» del racconto è nella lettura dei fumetti tipo «Sogno» da parte di Adelaide, illusa banderuola che si crede protagonista di strazianti passioni, e nel sogno di Oreste in cui lo sentiamo parlare con i versi di una canzonetta, e poi addirittura esprimersi cantando le frasi assurde dei rimatori di canzoni. Ambiziosetto, non tutto risolto, a volte fermo alla caricatura grossolana (vedi il personaggio del ricco commerciante di vacche e del suo improbabile maggiordomo-cugino), il film ha nella sceneggiatura di Age, Scarpelli e Scola e nella regia di quest'ultimo numerosi punti di forza. Anche perché il regista sa sfruttare nella maniera più schietta l'apporto recitativo degli attori, i quali fanno sfoggio di intelligenza non soltanto in una girandola di buffonerie assai godibili, ma anche e soprattutto nei fulminei trapassi da un «tono» all'altro del racconto.
Ermanno Comuzio, Cineforum n. 97-98, 11/12-1970 |
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