Halloween: la notte delle streghe - Halloween
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Regia: | Carpenter John |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: John Carpenter, Debra Hill; fotografia: Dean Cundey; montaggio: Tommy Lee Wallace, Charles Bornstein; musica: John Carpenter, eseguita da The Bowling Green Philarmonic Orchestra; scenografo: Tommy Lee Wallace; arredatore: Craig Stearns; interpreti: Donald Pleasence (dottor Sam Loomis), Jamie Lee Curtis (Laurie Strode), P. J. Soles (Lynda), Nancy Loomis (Annie Brackett), Kyle Richards (Lindsey Wallace), Brian Andrews (Tommy Doyle), Nancy Stephens (Marion), Nick Castle (The Shape), Tony Moran (Michael Myers a 21 anni), Will Sandin (Michael Myers a 6 anni), Sandy Johnson (Judith Myers), John Michael Graham (Bob), Arthur Malet (becchino), Mickey Yablans (Richie), Brent Le Page (Lonnie), Adam Hollander (Keith), Robert Phalen (dottor Wynn), David Kyle (boyfriend di Judith), Peter Griffith (padre di Laurie); produzione: Moustapha Akkad, Debra Hill Productions; distribuzione: Cineteca Griffith; origine: USA, 1978; durata: 91'. |
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Trama: | La veglia di Halloween è quella del 31 ottobre, vigilia d'Ognissanti, serata in cui la gioventù americana esorcizza le streghe mediante zucche scavate a mascherone e illuminate con candela; oppure, con gli stessi rischi di quando si grida ingiustamente "Al fuoco!", si diverte con scherzi atroci. Nel 1963, nel villaggio di Haddonfield (Illinois), il piccolo Michael, a soli 6 anni, uccide la sorella Judith Myers. Ricoverato in clinica psichiatrica, 15 anni dopo, alla vigilia fatidica, il mostro fugge per dirigersi verso la cittadina di origine. Conscio del pericolo, il dottor Loomis insegue Michael e mette in allarme lo sceriffo Brackett che, tuttavia, non gli dà troppo credito. La circostanza, infatti, è a favore del mostro assassino poiché le urla delle vittime o le richieste di aiuto vengono prese per scherzi di cattivo genere. Così il killer può uccidere indisturbato Annie, la figlia dello sceriffo, il suo amichetto Bob e altri. Laurie è una ragazza seria, a differenza delle sue amiche, e impegnata a fare da "babysitter'" a due bambini. Le grida di terrore della ragazza richiamano il dottor Loomis appena in tempo per salvarla. |
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Critica (1): | (...) Anche il protagonista di Hallowen è «out». È un ragazzino psicopatico che, la vigilia d'Ognissanti dei 1963 (la notte di Hallowen, quando le streghe vagano nella notte e i bambini mettono sul davanzale, per tenerle lontane, zucche scavate e illuminate all'interno da una candela) uccide a coltellate la sorella, rea di fornicare con l'amichetto. Dopo quindici anni, il ragazzino diventato giovanotto evade dall'ospedale psichiatrico dov'è stato rinchiuso e ritorna ad Haddonfield, la cittadina dell'Illinois dov'è successo il fattaccio, e lo ripete, prendendo per vittime alcune ragazze disinvolte che si rendono colpevoli, agli occhi dell'assassino, dello stesso delitto della sorella, cioè di abbandonarsi ai piaceri dei sensi.
Un racconto dell'orrore, quindi, con il tipico psicopatico che uccide. Ma anche qualcos'altro, la sensazione che forse la dimensione non è soltanto quella, come dire?, scientifica, razionale, ma che le antiche credenze pagane della «notte delle streghe» c'erano per qualcosa. Anche qui, il dato «umano» è sottratto sotto il naso dello spettatore e sostituito con quello della suggestione astratta con l'allusione metafisica a creature (del regista, non di Domineddio) che sono mere pedine di un gioco della rappresentazione (dell'immaginario, come è di moda dire). Se l'assassino è uno psicopatico, non per questo è personificato (all'inizio non ha volto: in una lunga «soggettiva» l'occhio dello spettatore si identifica col suo, e quando agisce in seguito ha il volto coperto da una maschera); il medico non pensa nemmeno lontanamente di riprenderlo per curarlo, era custodito come un fenomeno, uno scherzo della natura, un «mostro», ed ora pensa soltanto ad abbatterlo. Nonumano, appunto: del resto i ragazzi che si asserragliano in casa, la notte di Hallowen, vedono in TV il film La cosa da un altro mondo.
Funziona dunque come spettacolo? Indubbiamente sì, ed è questo che importa, anche se ad un certo punto Carpenter si lascia prendere dall'euforia dei gioco, premendo a fondo il pedale dell'orrore (quell'assassino ripetutamente colpito, che si accascia apparentemente liquidato, e che sempre si risolleva minaccioso, per esempio). È un regista che fa soprattutto contenti i sostenitori del cinema di godimento; come Brian De Palma, di cui segue un po' le tracce.
Ermanno Comuzio, Cineforum n. 186, 8/1979
(...) Subito dopo Distretto 13: le brigate della morte, Carpenter riesplora una dimensione di pericolo notturno, favorito, cioè, dal cadere delle tenebre. Quando tutte le ombre diventano minacce e le paure più ataviche possono prendere corpo. Ma, a differenza di Distretto 13, non ci si trova più in un'area metropolitana; Carpenter si è spostato in provincia, in quei tranquilli paesini «Middle West», spazio di gente tranquilla e pacifica, onesta e lavoratrice, dove tutti si conoscono e sanno tutto di tutti, dove al massimo esplodono scandali della morte. Lo spazio, cioè, che a livelli diversi il cinema ha sempre descritto, da Picnic (id, 1954) di Joshua Logan a Sabato tragico (Violent Saturday, 1955) di Richard Fleischer, da I peccatori di Peyton (Peyton Place, 1957) a Dalla terrazza (From the Terrace, 1960) entrambi di Mark Robson.
Il regno incontrastato dei drammi familiari che «qualcosa porta a divampare» l'apogeo di Tenessee Williams: La gatta sul tetto che scotta (Cat on a Hot Tin Roof, 1958) di Richard Brooks o A casa dopo l'uragano (Home from the Hill, 1960) di
Vincente Minnelli; fino al più spietato di tutti La caccia (The Chase, 1966) di Arthur Penn che esibiva tutte le mostruosità intrinseche della provincia senza più nessuna edulcorazione: la noia, l'idiozia, l'intolleranza, il razzismo, tutta la violenza repressa e nascosta.
Carpenter sembra dare quest'universo come scontato e preesistente. Non si sofferma più di tanto nel descriverlo: pochi tratti e solo alcuni cenni. Fa irrompere invece di colpo il mostro assassino e feroce, evaso da un ospedale psichiatrico, per seminare strage e terrore, quasi un dio maligno disceso a spargere vendetta. Non sono più le bande metropolitane degli emarginati e dei diseredati che stringono il cerchio, ma il prodotto stesso della terra che l'ha partorito: bogey man ritornato per compiere massacri. Michael infatti è scaturito, in un lontano 1963, al ripetersi delle medesime ricorrenze, ed è diventato folle proprio per influsso della tradizione di Halloween.
In comune con Distretto 13 vi è l'inspiegabilità degli eventi. Non si sapeva allora il motivo recondito delle bande in rivolta, né si sa adesso di Michael la causa della sua degenerazione psichiatrica. Forse questioni puritane, visto che preferisce infierire contro chi pratica la libertà del sesso; per il dr. Loomis è il male stesso diventato persona, Satana incarnato. Qualunque sia il vero movente, è di nuovo una referenza cinematografica ad aiutarci: Sam Loomis è il nome usato da John Gavin in Psyco di Alfred Hitchcock, ed è chiaro che è a Norman Bates che Michael rimanda, ma in modo ancora più oscuro e impietoso. Un veleno che è la stessa tranquilla e sonnacchiosa provincia a produrre, rievocato da riti ormai apparentemente innocui e che invece scatenano qualcosa di recondito, ancestrale ed indefinibile. Un veleno legato a pratiche sabbatiche. Così come il cinema di Carpenter è legato a tecniche precise, ed apparentemente inoffensive, eppure pronte a suscitare passate memorie. (...)
Halloween: la notte delle streghe si spinge addirittura più in là, oltre lo stesso limite di rottura e di sopportabilità, tecnicamente freddo, dimostrazione scientifica, esperimento da laboratorio, non per essere certi del risultato, ma per verificarne la resistenza e la capacità di impatto. Si può ancora aggiungere che si tratta d'una questione di assuefazione, come se resi ormai obsoleti, gli eventi e le evoluzioni non avessero più alcun potere sul pubblico, nessuna presa spettacolare, e dovessero essere, allora, per consentire sempre il medesimo effetto, aumentate le dosi oltre ogni soglia di pericolosità.
In Halloween: la notte delle streghe, dunque, gli elementi dell'horror sono usati per tutt'altri motivi, o almeno per impulsi diversi da quelli per cui erano nati. Non certo per la suspence, benché la mettano in moto, e nemmeno per questioni di catarsi liberatoria come aveva insegnato, a suo tempo, con costanza e precisione, il maestro del brivido, Alfred Hitchcock. Nel cinema hitchcockiano la suspence ruotava sempre attorno al problema della morale: le immagini cinematografiche avevano sempre un valore educativo; per Carpenter, invece, non è più tempo di raccomandazioni pedagogiche, e la padronanza etica di Howard Hawks, soltanto un più lontano miraggio.
Di fronte ad Halloween: la notte delle streghe ci si sente, di conseguenza, a disagio, non sapendo come dover reagire, trovandosi ad ogni momento spiazzati, fuori posto: ridicoli se si prova paura, cinici se non la si sente incombere; troppo astuti se si è spavaldi, idioti per non aver capito. Menomati per la sottrazione. (...)
In Halloween: la notte delle streghe questo elemento può essere addirittura ridotto al bogey man, il lupo cattivo delle favole, che risorge da un lontano 1963. Dopo aver allora assassinato la sorella, e adesso, quindici anni dopo, fuggito dall'ospedale psichiatrico in cui è in cura, o più semplicemente data la sua insondabilità, rinchiuso. Un come-back di terrore alla sua cittadina d'appartenenza. Eppure talmente incredibile ed inspiega-
bile che nessuno vuol credere agli avvertimenti che il dr. Loomis lancia invano. La cittadinanza pacificata da una garanzia di segregazione non vuol credere ad un'improbabile tragedia, ad un risorgere del mostro tenuto in latenza. E non può non venire qui in mente, Corman, anche se Carpenter non è assolutamente il suo emulo: da La città dei mostri (The Haunted Place, 1963) a L'odio esplode a Dallas; in pratica un'abitudine ormai consueta della normalità di non interrogarsi più su se stessa, sulle proprie anomalie, finché non diventano ingovernabili aberrazioni.
Il paesaggio appare tranquillo e rassicurante, confortevole finché non esplode l'evento. Al massimo, giochi rituali. Invece, per una seconda volta, questa notte delle streghe non è più una tradizione innocua, come se le parti si fossero rovesciate.
Nei confronti di tre ragazze, Laurie, Annie e Lynda, che Michael Mayers, ha individuato, cresce una macchina di terrore e di morte. Per celebrare il massacro della sorella, scoperta a far l'amore con il suo ragazzo. Forse, quindi, in latenza, un'aggressione violenta e puritana contro semplici manifestazioni sessuali, un rigurgito di moralismo così com'è sempre stato presente nella formazione sociale degli States. Formazione che in questo caso molto somiglia a concrezione, oppure ancora più ferocemente a decomposizione. Annie e Lynda infatti, non hanno scampo. Solo Laurie, non a caso l'unica esente da colpe sessuali, riesce a cavarsela, in forza di una sua incredibile ostinazione e coraggio: uccide Michael molte volte in un crescendo paradossale da fine apocalittica e di terrore, ma ogni volta lui resuscita più spietato di prima, quasi non fosse un essere umano ma un'entità astratta che in lui si incarna e lo trascende. Michael non è più Michael, sostiene in un certo qual senso il dr. Loomis, ma un ente maligno che lo divora, ne fa la sua vittima, e fa degli altri un insieme di possibili capri espiatori. L'immortalità di Michael nasce da questa dimensione o energia del Male che nemmeno i proiettili del dr. Loomis possono fermare. Una volta almeno negli horror, per tradizione, il vampiro e il lupo mannaro potevano essere fermati con un paletto, una croce, una pallottola d'argento, e la loro resurrezione era rimandata al film successivo. Michael, invece, apparentemente ucciso ed eliminato dal dottore, precipita dal terrazzo, ma il mostro, da intendere qui nel senso strettamente letterale di prodigioso, ritorna a nuova vita. Quasi secondo dettami mitico-mitologici, viene in mente Anteo che riacquistava forze ogni volta che toccava la madre terra Gea. Ritorna a nuova vita e si dilegua, spargendosi per la città. L'incubo ora è definitivamente su di tutti, e ognuno è un probabile olocausto per Michael: cibo per il suo bisogno di massacro.
La sorpresa, però, non è in queste infinite e reiterate resurrezioni che, al contrario, finiscono con l'essere grottesche quasi a svelare la macchina artificiale del terrore che le produce; bensì stupore per l'improvviso manifestarsi, rendersi evidente della finzione: artifizio per produrre suspense. C'è sempre infatti un avvenimento inaspettato, un dubbio equivoco, un sospetto indiziale non chiaro. Una continua meccanica del sobbalzo: appena superato l'attimo di tensione per cui il pericolo sembra ormai passato, si rivela e ritorna il vero shock. Come se ci fosse sempre in agguato un surplus d'orrore: come a sottolineare che la maschera del mondo non è solo mostruosa e terrificante in sé, ma ancor più per l'oltre che nasconde e che si dimostra inspiegabile.
L'irrazionale dietro la norma, come per quell'episodio che il custode del cimitero narra al dr. Loomis: un onesto padre di famiglia che rientrato un giorno a casa con una piccola falce, dopo aver abbracciato normalmente moglie e figli, sempre con il falcetto dietro la schiena e il sorriso sulle labbra, massacra tutti quanti. Così Michael, come lo descrive il dr. Loomis, è stato per quindici anni fermo, immobile, disumanamente paziente ad aspettare il momento adatto per fuggire. Stranamente vuoto dentro, e continua: gli occhi neri, vera incarnazione del Male, come se il diavolo si fosse impossessato di lui, svuotandone l'anima. Il diavolo o un'altra forza; un energia incontenibile, simile a quella che agitava e sosteneva gli incubi dei racconti di Lovecraft, attribuendola però ad altri pianeti, all'universo di Yuggoth, forse per la paura di vedere simili mostri troppo facilmente riscontrabili sul suolo terrestre, frutto non di fantasie ma del mondo concreto in cui viviamo.
In un certo senso Carpenter rigenera sulla Terra gli ectoplasmi proiettati su altri universi, li rende veri, efficaci, reali, squarci improvvisi della follia: demenzialità catapultate in avanti dopo essere state prelevate dal passato. Forse la vera paura in Carpenter risiede in questa sua convinzione di un destino immanente ed immutabile, prossimo alla rovina; un terrore atavico, medioevale, convinto della totale ed inesorabile dannazio-
ne del mondo. Condannato per sempre: senza possibilità di salvezza, se non relativa o del tutto provvisoria. Il pericolo appena terminato può immediatamente ricominciare, secondo un'improvvisa escalation, con incubi sempre maggiori: una successione infinita a serie esponenziale. E quest'apocalisse senza la minima commozione o trasalimento, il mostro come dato di fatto ma senza personalità, nascosto sotto un travestimento che non occulta assolutamente nulla, se non l'inerzia strisciante e dilagante del Male di cui si diceva.
Sotto la maschera che Michael Myers indossa, non c'è niente di particolare: quando per un attimo Laurie riesce a strappargliela, si scopre semplicemente un volto dagli occhi assenti, un viso neutro. Dato di fatto, in fondo, ancor più terrificante se ci si riflette, perché a ben pensarci è la consuetudine quotidiana allora ad essere mostruosa, generatrice di situazioni orripilanti. Come all'inizio, quando si scopre Michael piccolo dopo il crimine, l'omicidio è infatti visto in soggettiva: poi la macchina da presa inquadra il ragazzo; solo allora scatta la sorpresa e il raccapriccio, un dolly meraviglioso in ascesa riprende i due genitori esterefatti e un bambino di appena sei anni con un coltello sanguinante in mano.
Dopo Halloween: la notte delle streghe si è decisamente ad una svolta nel trattamento che il cinema ha fatto dei casi clinici, ben oltre la rassicurazione e il contenimento o l'interpretazione della psicopatologia. Con questo film di Carpenter si ha infatti la netta impressione che tutto quanto sia stato precedentemente scritto, fatto, dettato, legiferato, filmato attorno alla follia, costituisca una tappa inutile, o al massimo una clinicizzazione: la demenza rinchiusa e trasformata in spettacolo. Con Carpenter, invece, la follia diventa di nuovo libera ed incircoscrivibile, appena lontanamente intuibile, macchina efficace di criminalità, per questo più dolorosa e terrificante.
Agghiacciante anche, va subito aggiunto, ma non per la paura e i massacri che suscita ed innesta, quanto piuttosto per la testimonianza fattiva di una scissione fondamentale ormai in atto ed irreversibile fra l'uomo e la natura. Qualcosa di irreparabile in cui la società e tutta la ragnatela dei suoi rapporti e delle sue manifestazioni hanno costretto e reso prigioniero l'individuo e l'umanità. Da questa spaccatura senza rimedi nasce, come reazione barbara e selvaggia, l'esigenza insopprimibile di deflagrare in forme violente e patologiche. Il cosmo represso e le necessità della natura si fanno strada ferocemente per esprimersi, per tornare alla luce: istanze arcane vengono addirittura a giustificare l'espandersi contagioso di questo Male devastante. Come se, non volontariamente, ma per doveri contingenti ed improrogabili, Carpenter fosse obbligato a fare questa pubblicità al mostro e al negativo. Così, in modo particolare, in Halloween: la notte delle streghe si manifesta il maniacale, l'ossessività, il criminoso, il sogno tormentato del passato, tutto il peso di un trascorso sepolto che incombe e agghiaccia il presente, quando viene fuori e riemerge.
Purtroppo molto raramente si sente sibilare il vento gelido di un simile cinema perfido. Questo luogo vacuo in cui perdere la speranza, per constatare che non c'è altro che il vuoto e l'orrore. Il mondo e il suo fantasma: forse il mondo non è altro che questo fantasma.
G. Salza, C. Scarrone, Il cinema di Carpenter, Fanucci 1985 |
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