Due sulla strada - Van (The)
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Regia: | Frears Stephen |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Roddy Doyle (dall’omonimo romanzo dello stesso Doyle); fotografia: Oliver Stapleton; musica: Eric Clapton e Richard Hartley; montaggio: Mick Audsley; scenografia: Mark Geraghty; costumi: Consolata Boyle, interpreti: Colm Meaney (Larry), Donald O’Kelly (Bimbo), Ger Ryan (Maggie), Caroline Rothwell (Mary), Brendan O’Carroll (Weslie), Stuart Lynch (Cancer), Linda McGovern (Jessica), Meses Rowen (Glenn), Eoin Chaney (Wayne); produzione: Lynda Myles per la Deadly Films & Beacon Pictures; produttore esecutivo: Mark Shivas; distribuzione: Mikado; origine: Irlanda, 1996; durata: 100’ |
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Trama: | Barrytown, periferia nord di Dublino, novembre 1989. Il fornaio Bimbo viene licenziato. Contrariamente ai suoi amici del pub, disoccupati da anni, Bimbo si mette alla ricerca di un impiego che gli consenta di proveddere alla moglie e ai tre figli. Decide allora di comprare, con i soldi della liquidazione, un furgoncino per vendere "fish & chips", hamburger e hot dog. |
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Critica (1): | Larry e Bimbo hanno all’incirca cinquant’anni, sono molto amici ma anche disoccupati. Il primo non lavora da chissà quanto tempo, mentre il secondo è fresco fresco di licenziamento. I motivi sono i soliti: lo hanno tagliato per dar corso a una ristrutturazione dell’azienda, eccetera eccetera. Questo si dice, come buona tradizione di Barrytown e dell’Irlanda tutta, davanti a un boccale di birra scura che diventa presto una serie di boccali. Con i soldi della liquidazione Bimbo, che più dell’amico non riesce a starsene con le mani in mano, decide di comprarsi una specie di furgoncino per riabilitarlo alla vendita del "fish and chips" e propone all’amico di diventare suo socio. In qualche modo il camioncino, battezzato frattanto "Bimbo’s Burger", viene in fretta rimesso a nuovo, in modo da fare anche una discreta figura. È tempo di scendere in strada, visto che si può approfittare dei Campionati del mondo di calcio (1990) a cui l’Irlanda partecipa intrattenendo tutti nei pub o comunque davanti alla televisione, senza cucinare. E poi ci sarà un po’ da litigare, anche se l’Eire fa una più che dignitosa figura e viene eliminata soltanto dall’Italia sovreccitata di Schillaci, a cui, tra l’altro, andranno i più coloriti improperi e anche le "simpatiche" magliette con scritto "Fuck Schillaci". Con quest’ultimo adattamento di Frears si completa al cinema The Barrytown trilogy di Roddy Doyle. Dopo The Commitments (di Alan Parker, del ’91) e The Snapper (dello stesso Frears, del ’93), con The Van ritorniamo per l’ultima volta – così ha dichiarato Doyle, che poi d’altronde ha virato dai consueti luoghi con Paddy Clark ha ha ha – a Barrytown, immaginario sobborgo settentrionale di Dublino, che corrisponde a un quartiere povero della periferia in cui Doyle ha vissuto e insegnato (inglese e geografia) per diversi anni.
Quello che qui stupisce, e anche nei confronti del precedente The Snapper, è trovare un sovrappiù di brio e di malinconia, che in quest’ultima fatica di Stephen Frears coesistono benissimo senza che si avverta la minima forzatura nel passaggio da un tono all’altro. È merito della descrizione di "tipi" che caratterizza il romanzo, probabilmente – e i nostri due, inutile dirlo, sembrano quasi Totò e Peppino –, dell’attenzione ai gesti e al linguaggio. Ma anche delle capacità registiche che sempre dimostra Frears. Nel film si alternano agli interni gremiti di persone, caldi e tutto sommato anche solidali, come il focolare domestico, il mitico pub e l’itinerante furgoncino, campi lunghi sul di fuori decisamente svuotati e desolanti, quando non ostili, di cui l’immagine simbolo è quella finale del "Bimbo’s" lasciato finalmente sulla battigia prima che l’amicizia venga seriamente compromessa. Il furgoncino non è uno "snapper", non dà speranza, probabilmente perché ci si mette di mezzo il commercio. Non solo non assicura nessun collegamento con quello che attende fuori, ma l’itinerare stanco alla fine non fa che rendere più pesante e difficile il rientro in quegli unici spazi di possibile e reale benessere. È un film diviso tra l’ironia e la verve di chi tira avanti senza grandi sogni e con molta birra, e l’amarezza che viene dall’ennesimo scacco rispetto a quello che era solo un tentativo timoroso.
Alfonso Iuliano, Tempi Moderni |
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Critica (2): | In Due sulla strada, terza tappa della "Barrytown Trilogy" scritta e sceneggiata da Roddy Doyle, la storia conta poco, dispersa com’è nel minimalismo apparente dei piccoli avvenimenti quotidiani, lo stesso che aveva già fatto la fortuna di The Snapper: momenti in famiglia, tenerezze e incomprensioni; rumorose sbronze di birra nei pub; le partite alle TV, guardate in compagnia, come grandi riti pagani; i lavori di sistemazione del furgone; i bambini che giocano per le strade e trasformano in festa la prima uscita del furgone; gli ubriachi che lo assaltano non sapendo come sfogare altrimenti la loro insoddisfazione; il pannolino fritto al posto di un trancio di merluzzo. Frears e Doyle procedono per frammenti dedicati ora all’uno, ora all’altro dei loro personaggi, senza insistere mai più di tanto, alla ricerca di un quadro d’insieme dell’insoddisfazione post-thatcheriana: il mondo non è cambiato, le fabbriche devono licenziare per sopravvivere, gli uomini non hanno altro rifugio che il pub, la birra e il calcio.
Sembrerebbe, come è stato osservato, più un mondo da Ken Loach che da Frears, ma solo perché sono in gioco il problema della disoccupazione di due quarantenni e i tentativi di mettervi una pezza attraverso una iniziativa privata, destinata peraltro a fallire. Più che a Loach, sempre pedagogicamente impegnato a dimostrarci che ci sono una speranza e una possibilità, il senso incombente di una resa inevitabile appartiene a Frears – e ci sono al riguardo due sequenze particolarmente significative: innanzitutto quella in cui il furgone viene assalito da un nugolo di giovani ciecamente infuriati, che ricorda la "rivolta" istintiva e inutile, rabbiosa e aprogettuale, di Sammy e Rosie vanno a letto, ma anche le battaglie per strada di My Beautiful Laundrette e, in parte, il clima di disfacimento esplosivo di certo Spike Lee (Fa’ la cosa giusta in primo luogo); e poi l’immagine conclusiva, con quel furgone abbandonato sulla melma della bassa marea, come una pietra tombale. Le diverse speranze dei due protagonisti – quella vitalistica ma improduttiva di Larry, quella nevrotica ma a suo modo efficiente di Bimbo – non hanno vie d’uscita; le regole – il sociale – sono sempre più forti e non c’è voglia di vivere che tenga. Se c’è una chance, è altrove: per esempio, forse, nello studio della moglie e del figlio di Larry, nella solidità pratica della moglie di Bimbo – ma in entrambi i casi il film sembra voler scivolare via, non fermarsi ottimisticamente su nulla. Si tratta insomma di semplici accenni, possibilità cui non dare eccessivo credito, e quindi un po’ astratte, che non entrano mai veramente nel film.
Questo senso disperato dell’esistenza – questo scontro continuo con un mondo e una legge che non si vedono, se non per trasparenze tanto improvvise quanto fugaci (l’ispettore) – rientra indubbiamente fra le cose del mondo che non piacciono a Frears ed egli si limita a osservarle di lontano, ma questa volta discrezione e ironia si mescolano alla ilare simpatia di Doyle: si pensi alla scena in cui i due protagonisti, scoprendo che il furgone è troppo piccolo all’interno perché i loro corpi adulti possano muovervisi con disinvoltura, incaricano di ripulirlo, come in un gioco, i due figli di Bimbo e se ne stanno a sorvegliare i lavori sulle loro comode sedie a sdraio; oppure a quella in cui il furgone parte per il suo primo lavoro e Coln Meaney lo incita con una citazione esplicita della celebre partenza della mandria di Il fiume rosso (senz’altro uno dei momenti più divertenti del film); o a quella in cui la figlia di Larry, ripulendo frettolosamente il proprio bambino, fa cadere un pannolino nella pastella per friggere il merluzzo; o infine ai rapidi tocchi con cui viene descritto il "tifo da bar" di fronte alle partite in TV (un chiaro prolungamento del "clima" di The Snapper). Sono questi i momenti in cui Frears ritrova in Doyle uno sguardo complementare al proprio - meno freddo e più simpatetico - e il ritratto di un uomo che, malgrado tutto, ha voglia di vivere, di ridere e divertirsi. È bello e trascinante pensare e vivere la vita sulla scia dei successi calcistici della "squadra del cuore" - "oppio dei popoli" per eccellenza nel nostro tempo - ma, come una droga appunto, tutto il sogno è destinato prima o poi a svanire, senza lasciare traccia. I sogni non cambiano il mondo, si limitano ad addormentarlo per un po’ - e il risveglio è inevitabilmente un incubo (la notte conclusiva del film, con quelle luci fredde delle strade, e l’alba livida che incombe con le sue nubi di ghiaccio).(…)
Giorgio Cremonini, Cineforum n. 360, dicembre 1996 |
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| Stephen Frears |
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