Sette fratelli Cervi (I)
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Regia: | Puccini Gianni |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Bruno Baratti, Cesare Zavattini, Gianni Puccini; fotografia: Mario Montuori; musica: Carlo Rustichelli; interpreti: Gian Maria Volonté (Aldo Cervi), Lisa Gastoni (Lucia Sarzi), Carla Gravina (Verina), Elsa Albani (mamma Genoveffa Cervi), Oleg Jakov (papà Alcide Cervi), Serge Reggiani (Ferrari, l’antifascista in carcere), Don Backy (Agostino Cervi), Riccardo Cucciolla (Gelindo Cervi), Renzo Montagnani (Ferdinando Cervi), Gino Lavagetto (Antenore Cervi), Ruggero Miti (Ovidio Cervi), Benjamin Lev (Ettore Cervi), Andrea Checchi (Dante, il “francese”), Rossella Bergamonti (la moglie di Antenore), Virgilia Dorval (la moglie di Gelindo), Gabriella Pallotta (la moglie di Agostino), Duilio Del Prete (Dante Castellucci), Massimo Foschi (Don Pasquino Borghi), Auro Franzoni, Achille Incerti, Rosanna Chiessi; produzione: Centro Film; origine: Italia, 1968; durata: 105'. |
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Trama: | Allontanatosi dal cattolicesimo dopo l’incontro in carcere con un comunista, Aldo Cervi, contadino del reggiano, sollecita i suoi fratelli all’impegno antifascista, così come all’introduzione di importanti innovazioni nella conduzione dei lavori agricoli. Determinante è anche l’incontro con la prima attrice di un teatrino viaggiante, attiva nel movimento antifascista clandestino. Mentre i genitori ospitano in casa degli ex prigionieri alleati, braccati dai tedeschi, Aldo sale in montagna dove si sono costituiti i primi nuclei della Resistenza armata al nazifascismo. Quando torna temporaneamente a casa, questa, il 25 novembre del ’43, viene circondata dai fascisti. I fratelli e il padre vengono arrestati. Un piano di fuga non viene realizzato e, il 28 dicembre 1943, i sette fratelli sono fucilati dai repubblichini al Poligono di tiro di Reggio Emilia. |
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Critica (1): | Per capire veramente un film come I sette fratelli Cervi, presentato stasera in prima mondiale al Teatro Municipale, bisognerebbe forse inoltrarsi per una ventina di chilometri nella Bassa reggiana, spingersi fino a un grande casolare affondato nella campagna, battuto in questi giorni dalla pioggia e fumigante di nebbia, stringere la mano al vecchio Cervi che, a 92 anni, vive come un patriarca della Bibbia circondato dalle nuore, dai nipoti e dai figli dei nipoti, dare un’occhiata agli ingenui cimeli raccolti in una cascina adattata a museo e, ancora, leggere alcune pagine del libretto in cui Alcide Cervi ha narrato, con semplicità e con chiarezza, la vita e la morte dei suoi sette figli.
Quante cose per un film! È tuttavia necessario per rendersi conto che Gelindo, Antenore, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore Cervi, fucilati dai fascisti il 28 dicembre 1943, erano, prima che eroi, uomini e contadini come se ne trovano da queste parti e in ogni altra regione d’Italia dove divampò la lotta partigiana. È inevitabile che quel numero di sette, e tutti della stessa famiglia (il primogenito aveva 42 anni, l’ultimo 22), stringa per un momento la gola in un nodo. Ma cedere alla commozione conta meno che cercare di conoscere a fondo uno degli episodi più straordinari e gloriosi della resistenza, per cavarne un insegnamento valido soprattutto per quei giovani che dei sette fratelli Cervi non hanno mai sentito parlare. Si può ottenere tutto questo da un film? Gianni Puccini, con il quale hanno collaborato alla sceneggiatura Bruno Baratti e Cesare Zavattini, ci si è provato. Ristrettosi ad un arco di tempo che comprende gli ultimi e più intensi tre anni della vita dei Cervi, il regista ha cercato di chiarire le figure dei protagonisti e gli eventi, piccoli e grandi, che li condussero ancora prima della guerra ad abbracciare risolutamente la causa dell’antifascismo, ricorrendo a numerosi flash-backs che, in contrasto con il colore duro e tagliente di buona parte del film, rievocano in bianco e nero, come un album di vecchie fotografie, le memorie del passato. Al duro lavoro della terra si alternano rari momenti di riposo, di serenità o di riflessione: un ballo campagnolo, gli idilli nei campi, le feste per la conquista dell’acqua o l’arrivo di un trattore.
Ogni episodio ha un suo significato nell’economia del racconto: la recita, ad esempio, mette Aldo, che è la testa forte della famiglia, a contatto con un gruppo comunista clandestino, allo stesso modo che la descrizione degli anni trascorsi da Aldo in un carcere militare illustrano il suo itinerario, che è poi quello dei fratelli, dal cattolicesimo (o dal socialismo per il padre), al comunismo che il film, giustamente, non irrigidisce in atteggiamenti dogmatici.
Vengono poi i tempi bui della guerra fascista e i primi lampi della riscossa partigiana. Il film galoppa, talvolta disordinatamente, dalla campagna e dalla città, dove si tentano fulminee azioni di lotta e di rappresaglia, alle montagne, dove i sette fratelli organizzano le prime bande. Ma eccoli costretti a ridiscendere in pianura, nella loro cascina, dove mamma e papà Cervi nascondono, vestono e sfamano fino a ottanta ex prigionieri di ogni nazionalità. È qui, nella notte del 25 novembre 1943, circondati dalle brigate nere, i Cervi devono arrendersi, dopo strenua resistenza, per salvare almeno la vita delle donne e dei bimbi. La materia è molta, s’accumula e s’aggroviglia, come se il regista stentasse a padroneggiarla. Ma si decanta e prende nuovo slancio nell’intenso e sobrio finale con la scena della fucilazione nel poligono di tiro di Reggio Emilia, che non può non ricordare altre barbare esecuzioni di allora come quella, che i torinesi non dimenticano, del Martinetto. Eppure proprio questo finale, con altre due sequenze di guerra, ha indotto la censura, così di manica larga verso le crudeltà dei western all’italiana, a vietare la visione del film ai minori di quattordici anni, cioè proprio a coloro che da esso potrebbero incominciare ad imparare qualcosa. Ma il divieto è così assurdo che sembra quasi certo che verrà tolto dalla commissione di appello alla quale si sono subito rivolti regista e produttore. Era difficile fare un film sui fratelli Cervi, come è difficile, anche se è stato già tentato, farlo sulle Fosse Ardeatine o sulla strage di Marzabotto.
Ma dal momento che lo si è fatto, sarebbe stato meglio sacrificare non la retorica, che qui fortunatamente è assente, ma ogni ambizione epica in favore di un più umile, e più utile, intento didascalico. Forse il regista ha mirato troppo in alto o ha pensato soltanto a una generazione che ha ormai i capelli grigi e che la Resistenza conosce per averla vissuta.
Ma vi sono i giovani, di cui si parlava in principio: è per costoro soprattutto che si fanno, o si dovrebbero fare, film del genere.
Alberto Blandi, La Stampa, 18/2/1968 |
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| Gianni Puccini |
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