Sangue pazzo
| | | | | | |
Regia: | Giordana Marco Tullio |
|
Cast e credits: |
Soggetto: Marco Tullio Giordana; sceneggiatura: Leone Colonna, Marco Tullio Giordana, Enzo Ungari; fotografia: Roberto Forza; montaggio: Roberto Missiroli; scenografia: Giancarlo Basili; costumi: Maria Rita Barbera; effetti: Luca Ricci, Elio Terribili; interpreti: Monica Bellucci (Luisa Ferida), Luca Zingaretti (Osvaldo Valenti), Alessio Boni (Golfiero/Taylor), Maurizio Donadoni (Vero Marozin), Giovanni Visentin (Sturla), Luigi Diberti (Cardi), Paolo Bonanni (Pietro Koch), Mattia Sbragia (Alfiero Corazza), Alessandro Di Natale (Dalmazio), Tresy Taddei (Irene), Luigi Lo Cascio (patriota), Marco Paolini (commissario politico), Giberto Arrivabene (Capitano Arrivabene), Vincenzo Cutrupi (Mussolini); produzione: Fabrizio Zappi e Angelo Barbagallo per Bibi Film-Paradis Film in collaborazione con Rai Fiction-Rai Cinema-Canal +; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia, 2008; durata: 150'. |
|
Trama: | L'alba del 30 aprile 1945, cinque giorni dopo la fine della guerra, vennero trovati alla periferia di Milano i cadaveri di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, giustiziati poche ore prima dai partigiani. Coppia celebre nella vita oltre che sullo schermo, Valenti e Ferida erano stati tra i protagonisti di quel cinema dei "telefoni bianchi" che il fascismo aveva incoraggiato. Il loro ruolo era quasi sempre stato quello degli "antagonisti", incarnandosi di preferenza in personaggi negativi. Anche la loro vita privata era dominata dal disordine, entrambi cocainomani e sessualmente promiscui. Quando il paese si spaccò in due dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943,
Valenti e Ferida risalirono al Nord e aderirono alla Repubblica di Salò. Si stabilirono prima a Venezia, dove girarono fortunosamente qualche film, poi a Milano dove - arruolati in una banda di torturatori - si dettero alla borsa nera. Perlomeno queste erano le voci.
Consegnatisi ai partigiani pochi giorni prima della Liberazione, i due negarono ogni addebito. Valenti giustificò i suoi traffici col bisogno continuo di stupefacenti, smitizzò le presunte malefatte attribuendole alla diffamazione e all'invidia.
Il Comitato di Liberazione pretese invece una punizione esemplare. Ferida e Valenti avevano prestato il loro fascino al regime, collaborato coi tedeschi, seviziato patrioti. Si erano sempre vantati della loro vita scandalosa, mostrati orgogliosi della loro dubbia fama. Che lo avessero fatto per narcisismo, per leggerezza, per alimentare il mito degli artisti maledetti, poco importava.
Dovevano pagare, dare il buon esempio a tutti. Così cala il sipario su quei due attori dal talento innegabile; Valenti nel ruolo del villain astuto e crudele, Ferida in quello della donna perduta. Chissà che alle dicerie che li rovinarono non abbiano contribuito proprio i film che negli anni d'oro ne avevano costruito la leggenda, proprio quei personaggi riprovevoli tante volte incarnati sullo schermo. |
|
Critica (1): | Eccessivi, smodati, anarcoidi, promiscui e torbidi, Monica Bellucci e Luca Zingaretti vanno incontro alla propria dissoluzione come se non potessero farne a meno, come se un dio greco avesse decretato l'ineluttabilità del loro destino. E non è dato a loro umani di cambiarlo, prigionieri come sono di un corpo che trabocca sensualità e trasgressione. Nel perdersi, più dell'ideologia, possono i vizi, oltre all'immagine costruita con la celluloide di artisti maledetti. Non che lo siano, le due star della nostra cinematografia, è che stavolta hanno voluto interpretare il loro doppio, due colleghi del passato, Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, attori celebrati durante il regime fascista, poi aderenti alla Repubblica di Salò, infine uccisi dai partigiani (30 aprile 1945) dopo un processo sommario. Storia vera. Portata ora sullo schermo, con qualche libertà obbligatoria per la drammaturgia, dal regista Marco Tullio Giordana col titolo Sanguepazzo (...), un modo siciliano per definire uno spirito "indisciplinato, eccentrico, incontrollabile".
E siciliano, nato però a Costantinopoli, era Valenti, emiliana la Ferida. Il fatale incontro su un set, nel 1939, segnerà il sodalizio artistico e la condivisione umana degli eventi epocali per due caratteri simili fino alla patologia. La vulgata resistenziale, non la storiografia, li ha voluti a lungo "giustiziati per le loro nefandezze" perché torturatori della banda di Pietro Koch, una sorta di polizia parallela, responsabile di atrocità estreme, composta da degenerati. La leggenda aveva aggiunto il dettaglio di una Ferida che danzava discinta, nei sotterranei di villa Triste, in via Paolo Uccello a Milano, per aizzare i seviziatori. Giordana è portatore di un'altra verità e di una sicurezza: "Non erano colpevoli delle cose di cui furono accusati. Valenti frequentava, è vero, Koch, ma perché quello gli passava la droga che gli era necessaria". Aggiunge: "Non avrei mai voluto trovarmi nei panni di chi ha dovuto decidere del loro destino. Probabilmente anch'io, date le circostanze, avrei scelto la condanna a morte. Si era nella fase in cui punire alcuni simboli aveva la funzione catartica di salvare tutti gli altri. Solo col capro espiatorio l'Italia poteva poi guardare in avanti". Oggi la sua versione è all'incirca accettata anche da chi si occupa professionalmente di ricostruire l'esattezza dei fatti. Il regista ricavò la convinzione 25 anni fa, quando cominciò a lavorare al tormentato progetto: "Ebbi allora l'occasione di parlare con i testimoni diretti, compresi alcuni del plotone d'esecuzione. Da alcuni silenzi, da certe esitazioni, da un modo di abbassare gli occhi, cioè da dettagli che nessun libro potrà mai restituire, mi convinsi del disagio di molti protagonisti".
Si tocca la Resistenza, argomento sensibile, con l'accusa di revisionismo che sempre incombe. Giordana non se ne cura: "Un artista ha l'obbligo di rappresentare ciò in cui crede con la più ampia libertà. Se altri lo usano in malafede, se ne rendono responsabili". Perché il suo non è un atto di accusa, semmai il desiderio di comprendere cosa successe: "Se gli eccessi, quando ci furono, fossero stati resi noti nel momento di massima efficienza del mito della Resistenza, cioè nell'immediato dopoguerra, il mito stesso non ne sarebbe stato intaccato e avremmo potuto più velocemente voltare pagina senza portarci dietro per troppo tempo i veleni che ci hanno costretto a vivere in una perenne guerra civile". Non successe, e allora è giusto farlo oggi piuttosto che non farlo affatto perché è meglio "avere un'adesione sostanziale a un'idea di cui si conoscono tutte le sfaccettature, piuttosto che ripetere stancamente degli slogan. Gli slogan si possono rinnegare dalla sera alla mattina". E comunque la Resistenza è abbastanza adulta per permettersi dei distinguo. Il che non significa non comprendere, senza condividere, "il pensiero di chi vuole tenere duro e non ammettere alcun errore. Queste persone temono che possa crollare l'intero castello". E quello sarebbe un guaio. Perché, per un verso opposto, Giordana ritiene il film più necessario adesso di 25 anni fa, quando era solo un'idea: "Vedo circolare sentimenti di nostalgia, pensieri per cui il fascismo, il nazismo, l'antisemitismo, la dittatura possono essere ammissibili. Sarebbe sbagliato sottovalutarli perché, si dice, non ci sono rischi o perché siamo distanti da quell'epoca. Si fa in fretta a degenerare, la vigilanza deve rimanere alta" (...).
Gigi Riva, L'Espresso, 9/5/2008 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| |
| |
|