Ordet - Ordet
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Regia: | Dreyer Carl Th. |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal dramma omonimo di Kaj Munk; fotografia: Henning Bendtsen; montaggio: Edith Sclüssel; suono: Knud Kristensen; musica: Poul Schierbeck, diretta da Emil Reesen; scenografia: Erik Aaes; costumi: N. Sandt Jensen; interpreti: Henrik Malberg (Morten Borgen), Emil Hass Christensen (Mikkel), Preben Lerdoff Rye (Johannes), Cay Kristiansen (Anders), Birgitte Federspiel (Inger, la moglie di Mikkel), Ann Elisabeth (Maren), Susanne (Lilleinger), Ejnar Federspiel (Peter, il sarto), Sylvia Eckhausen (Kristine), Gerda Nielsen (Anna), Ove Rud (il pastore), Henry Skjaer (il medico), Anne Åagesen (Karen), Edith Thrane (Mette Maren), e i contadini e i pescatori del distretto di Vedersø; produzione: Erik Nielsen per Palladium Film; origine: Danimarca, 1954; durata: 121’. |
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Trama: | Johannes Borgen, studente in teologia, ha perso la ragione, e adesso si crede Gesù Cristo. Fugge nottetempo nella brughiera, e a nulla vale lo sforzo dl padre Morten e dei fratelli Mikkel e Anders, che non riescono a trovarlo e a riportarlo a casa. Mikkel, che aspetta dalla devota moglie Inger un bambino, non crede in Dio. Anders, il minore dei fratelli, a sua volta è innamorato di Anna, figlia del sarto Peter, che odia i Borgen per le loro differenze di credo e nega al ragazzo la mano della figlia. Alla fattoria dei Borgen giunge il nuovo pastore, che viene subito accusato da Johannes di fare parte di quel clero che ha tradito la chiesa. Furioso per il rifiuto di Peter, Morten ha con lui un violento alterco. Nel corso della lite, giunge la notizia che Inger ha avuto serie complicazioni. Il bambino, infatti, nasce morto, e di lì a poco muore anche la donna. Al funerale partecipa tutto l paese, e Peter ritorna sulla sua decisione a proposito delle nozze della figlia. Appare Johannes, rinsavito, appena prima che la bara venga chiusa. Invoca Dio e ordina a Inger, nel nome di Cristo, di rialzarsi. La donna torna alla vita. |
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Critica (1): | Al festival di Venezia ho sentito alcuni rimproveri fatti alla giuria per aver dato a Ordet un Leon d’ oro che, dicevano, avrebbe consacrato un film molto bello ma che ridava fiato a un’estetica sorpassata. La stessa giuria, del resto, non ha avuto, sino in fondo, il coraggio della sua scelta, poiché ha completato la sua decisione con un attestato che attribuiva, a posteriori, il Leon d’oro all’insieme dell’opera di Dreyer. Così veniva confermata l’idea secondo la quale Ordet, per se stesso, non meritava l’omaggio supremo che non si poteva, in coscienza, negare al vecchio artigiano danese, che onorava Venezia con la sua presenza! Stupide obiezioni e stupida prudenza! Dio sa, e il lettore anche, il valore che noi attribuiamo, in genere, alla nozione di avanguardia. Noi non difendiamo i film solo per il loro valore intrinseco ma molto spesso anche per le loro qualità polemiche, per la fecondità che crediamo di scorgere nella loro originalità Ci capita anche, forse, di prendere partito per alcuni film meno belli di altri che condanniamo, perché ci sembrano inserirsi nell’idea che, di volta in volta, ci facciamo dell’evoluzione dell’arte cinematografica. In breve, non penso che noi ci lasciamo in genere sedurre dagli arcaismi di stile o dal prolungamento dell’espressionismo muto del cinema sonoro. Ma occorre fare delle gerarchie di valori. Al di là di un certo livello, la nozione di “desueto” diviene incongrua. Ordet non esibisce una estetica “sorpassata” più di quanto non facesse Limelight. Tali opere non possono essere rapportate all’evoluzione del cinema. Esse appaiono di tanto in tanto, fuori da ogni riferimento storico, come le perle nell’ostrica: e il loro oriente è incomparabile! Non siamo certo noi a mettere in dubbio che il cinema valga le altre arti, ma è pur vero che sono rare le opere cinematografiche che possono sostenere il confronto con le migliori della pittura, della musica o della poesia. Ma a proposito di un film come Ordet si può fare qualsiasi nome, qualsiasi titolo senza paura del ridicolo. Dreyer qui eguaglia i più grandi. Ordet (La Parola) è l’adattamento (verosimilmente molto fedele) di una commedia di Kaj Munk, un pastore drammaturgo molto noto nei paesi scandinavi, che morì nel 1944 ucciso dai nazisti. Ordet venne scritto nel 1932; il cineasta svedese Gustav Molander ne fece un film una quindicina d’anni fa. Io l’ho sfortunatamente perduto alla sua uscita a Parigi e non posso fare dei paragoni. Senza dubbio, l’argomento drammatico in se stesso ha di che disorientarci. Sembrerebbe, a priori, troppo legato ai costumi religiosi scandinavi. Ma né più né meno, dopotutto, dall’opera di Kierkegaard alla quale non si può fare a meno giustamente di pensare, anche se non ve ne fosse incidentalmente alcun problema nel film. Sforziamoci di riassumere quest’azione, in cui la banalità quotidiana è stranamente snaturata dall’ambigua presenza del sovrannaturale. Si svolge una trentina di anni fa, in una ricca fattoria dello Jutland. Il vecchio fattore ha tre figli di cui il maggiore, con la testa sulle spalle e un carattere positivo, è sposato a una bella ragazza, che gli ha dato due figli e che attende un altro bambino. Ma il figlio minore vorrebbe sposare la figlia di un piccolo artigiano del villaggio, che è l’anima di una setta protestante rigorista, la cui influenza si contrappone a quella del fattore, uomo pio ma che propaganda un cristianesimo gioioso. La loro rivalità religiosa è complicata da una certa animosità sociale. Quanto al secondo figlio, Johannes, questi è il grande tormento della famiglia. Ritornato in preda alla follia dalla città ove era andato per studiare teologia e diventare pastore, egli si crede Cristo e batte la campagna facendo il profeta. Una nuova disgrazia si abbatte su questa gente. Inger, la moglie, partorisce a fatica un bimbo nato morto. Almeno lei, la si credeva salva! Muore a sua volta. Il matto, che aveva profetizzato questa disgrazia, sparisce nella notte. Quando arriva, infine, l’ora di chiudere la bara, riappare guarito, così sembra, per rimproverare a questi uomini di poca fede di non avere affatto chiesto a Dio di rendere la vita alla morta. La nipotina più piccola gli chiede di fare il miracolo e, in nome della fede di questa bambina, Johannes pronuncia le parole di resurrezione. Lasciamo al lettore che ancora non sa, la straordinaria incertezza protratta da Dreyer nell’epilogo. Ci limiteremo a dire che non è usata per attenuare la stranezza della storia. Certo, a ben rifletterci, quella di Jeanne d’Arc non è certo meno banale, ma ha dalla sua la forza della leggenda e l’indietreggiare della storia. Quanto a Dies irae, Dreyer non doveva darsi troppa pena a farci ammettere l’esistenza dell’al di là, in un tempo in cui la credenza era tanto forte. Tutti questi supporti gli sono negati dalla prosaica attualità della pièce di Kaj Munk; e del resto, è proprio del realismo più diretto, più banale, a volte, che intende parlare. Da un certo punto di vista Ordet deriva da un’estetica quasi naturalistica. Ma questa materia drammatica realista è come rischiarata dall’interno dalla sua realtà esterna. Questa immagine si è imposta al mio spirito per l’uso che Dreyer fa della luce. La messinscena di Ordet è, prima di tutto, una metafisica del bianco, cioè, naturalmente, dai grigi fino al nero puro. Ma è il bianco, che ne è la base, il referente assoluto. È il bianco che è, a un tempo, il colore della morte e della vita. Ordet è in una certa maniera l’ultimo film in bianco e nero, quello che chiude tutte le porte. In questa architettura di madreperla e ambra, si muovono degli esseri, che vi armonizzano con una misteriosa evidenza. La lentezza dei loro gesti, delle loro parole, dei loro spostamenti è lentezza solo in virtù di memoria o confronto. C’è qui lo stesso ritmo della realtà come prova la prodigiosa scena del parto, uno dei più insopportabili momenti del cinema mondiale (insopportabile bellezza!) dove i gesti del chirurgo si adattano positivamente alle pulsazioni della vita. Ma questa lentezza realista è evidentemente, per Dreyer, una coscienza dello spazio e della gravità del movimento, è l’equivalente per la durata dell’importanza dei bianchi e dei grigi. Comunque sia, ce la impone come una realtà indiscutibile. Ogni gesto più naturale, fosse pure di un animale (un gatto una volta attraversa il campo ai piedi di Johannes) sembrerebbe il più estraneo, inverosimile. In questo universo, reso più attento al mistero, il sovrannaturale non sorge dall’esterno. È pura immanenza. Alla fine si rivela come ambiguità della morte. Mai al cinema e senza dubbio molto di rado anche nelle altre arti, la morte è stata esaminata più da vicino, in una sola volta, voglio dire, nella sua realtà e significato. Senza dubbio i temi che qui ho tentato di sviluppare non sono nuovi, nell’opera di Dreyer. È evidente che Ordet segue logicamente Vampyr e Dies Irae. Ma lo porrei ancora più in alto. Non solo perché l’arte vi si rivela più perfetta e interiorizzata, ma anche perché il sovrannaturale dei film precedenti scaturiva dal fantastico profano, che alimenta tutta una parte del cinema tedesco e nordico. Niente qui che possa apparentarsi al meraviglioso. Il senso religioso del mondo sfugge alla sensibilità. Ordet è una sorta di tragedia teologica, senza la minima concessione al terrificante.
André Bazin, France-Observateur, 1956 |
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| Carl Th. Dreyer |
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