Gabbia dorata (La) - Jaula de oro (La)
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Regia: | Quemada-Diez Diego |
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Cast e credits: |
Soggetto: Diego Quemada-Diez; sceneggiatura: Diego Quemada-Diez, Gibrán Portela, Lucía Carreras; fotografia: María Secco; montaggio: Paloma López; scenografia: Carlos Y. Jaques; arredamento: Carla García,Vanessa Ortega; interpreti: Brandon López (Juan), Rodolfo Domínguez (Chauk), Karen Martínez (Sara), Carlos Chajón (Samuel), Ramón Medína (Caliman); produzione: Inna Payan, Luis Salinas, Edher Campos per Animal De Luz Films-Machete Producciones-Mexican Film Institute-Eficine-Castafiore Films- Kinemascope Films; distribuzione: Parthénos; origine: Messico-Spagna, 2013; durata: 102’. |
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Trama: | I quindicenni Juan, Sara e Samuel fuggono dal Guatemala e si dirigono verso gli Stati Uniti. Nel loro viaggio attraverso il Messico, i ragazzi incontrano Chauk, un ragazzo indiano Tzotzil che non parla spagnolo e non ha documenti ufficiali. Tutti loro sono convinti che al di là del confine tra USA e Messico troveranno un mondo migliore, ma dovranno fare i conti con una dura realtà... |
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Critica (1): | Se il cinema è una finestra aperta sul mondo, La gabbia dorata di Diego Quemada-Diez ci mostra qualcosa da cui forse vorremmo distogliere gli occhi, ma sarebbe dovere di tutti conoscere. E' cinema della realtà, cinema autentico, girato tra persone vere, dentro situazioni concretissime, dove la macchina da presa ritrova una delle sue funzioni primarie: mostrare qualcosa che non si conosce, alzando il sipario su un mondo ignorato. Quello al centro del film, opera prima di un ex assistente alla fotografia che ha lavorato per Ken Loach e Isabel Coixet e come operatore alla macchina per Alejandro González Iñárritu, è il mondo che scoprono tre adolescenti guatemaltechi decisi a lasciare la povertà in cui vivono per cercare lavoro negli Stati Uniti. Un viaggio che li costringe ad attraversare il Messico e che si rivelerà ben più drammatico di quanto potessero immaginare. Poche, efficacissime scene ci fanno fare la conoscenza di Sara, Juan e Samuel. (...) Praticamente non c'è una sola battuta di dialogo, non scopriamo niente della loro vita o delle loro famiglie, ma in fondo sono informazioni che non servono (...) Il regista (che ha scritto la sceneggiatura dopo un lavoro di ricerca e documentazione che è durato diversi anni) vuole limitarsi alla pura «registrazione» delle loro azioni. Bastano gli sguardi segnati dalla vita e dalla miseria per farci capire quello che le parole avrebbero solo reso a rischio retorica. (...) Un viaggio che per la maggior parte si svolge sui tetti dei vagoni merci che attraversano il Paese e che Quemada-Diez ci restituisce in tutta la sua epica quotidiana, fatta di sofferenza, privazioni ma anche di pericoli e tragedie. (...) Ma quello che in un film di «avventure» potrebbero assomigliare a delle belle trovate di sceneggiatura per aumentare la tensione, qui si rivela per quello che è veramente: il volto vero e tragicamente quotidiano di una società dove sembra esistere solo la sopraffazione della forza e delle armi. Perché il regista, che si è fatto raccontare queste situazioni da chi le ha davvero attraversate, le restituisce sullo schermo senza il minimo orpello spettacolare, preoccupato solo di trasmettere tutto il dramma di chi è condannato ad accettare in silenzio il sopruso e l'umiliazione. Non c'è nemmeno la «tragedia darwiniana» del più forte che sopravvive al più debole: la vita di questi disperati migranti è legata al caso, alla fortuna, alla disperazione, alla speranza. A un certo momento un raggio di umanità e di morale illumina le azioni di qualcuno (si vedrà nel film come e quando) ma è un comportamento che trova una giustificazione solo nel barlume di umanità che un adolescente può portare dentro di sé. È l'unico momento «positivo» di tutto il film, che il caso (e la cattiveria degli uomini) si incaricheranno di vanificare. A Quemade-Diez non interessava dirigere un film che alla fine offrisse un qualche prevedibile happy ending, voleva solo immergere lo spettatore nella realtà senza difese o protezioni: per questo ha scelto solo attori non professionisti (tutti i ragazzi sono bravissimi) e per questo ha raccontato una storia «normale», come ne succedono ogni giorno in Messico e al confine con gli Stati Uniti. Perché solo così poteva girare un film vero. E indimenticabile.
Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 6/11/2013 |
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Critica (2): | Vero come un documentario, emozionante come un romanzo di formazione, lirico e avventuroso come l'Odissea, epico come un film di John Ford. E intessuto di storie e esperienze reali che il regista (esordiente!) ha raccolto facendo più e più volte il cammino dei suoi personaggi, tra il Guatemala e la frontiera degli Usa. Accumulando per dieci anni incontri e racconti, senza fermarsi ai nudi fatti ma estraendo il senso profondo e le diverse visioni del mondo che quelle testimonianze portavano con sé. Fino a mettere insieme un immenso arazzo di storie, sogni, speranze, sventure, che sono l'ossatura di questo film incredibile, e insieme un condensato di tutto ciò che il bombardamento di informazioni in cui viviamo ci mette sotto gli occhi ogni giorno e al tempo ci impedisce di capire. Se credete di avere già visto La gabbia dorata perché parla di migranti e frontiere, toglietevelo dalla testa. Diego Quemada-Diez, alle spalle un lungo tirocinio come operatore per Loach, Stone, González Iñárritu, Spike Lee, non informa, non denuncia, non ricatta a suon di infamie e di orrori, anche se non nasconde nulla di ciò che può capitare, ma avvince, sorprende, commuove lavorando sui suoi protagonisti adolescenti, scelti davvero nelle bidonvilles del Guatemala, e su quanto hanno di più prezioso e universale. Le emozioni della loro età, lo stupore, l'incoscienza, la paura, la durezza e la purezza che accompagneranno Juan, Sara, Samuel e l'indio Chauk, personaggio magnifico quanto incomprensibile perché parla solo tzotzil, la lingua del Chiapas, nella loro odissea contemporanea che è insieme terribile e meravigliosa. Terribile per ciò che accade. Meravigliosa perché fra violenze e ruberie, treni carichi di disperati e paesaggi stupefacenti, Quemada-Diez non perde mai di vista l'aspetto iniziatico di un viaggio che a quelle latitudini è quasi un rito di passaggio. La prova che c'è dell'altro, dentro e fuori di loro, per cui forse vale la pena vivere e magari morire. Anche se oggi è così raro accorgersene, specie nel nostro mondo, e ancora più difficile riuscire a raccontarlo.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 7/11/2013 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
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