Due o tre cose che so di lei - Deux ou trois choses que je sais d'elle
| | | | | | |
Regia: | Godard Jean-Luc |
|
Cast e credits: |
Sceneggiatura: Jean-Luc Godard; fotografia: Raoul Coutard; musiche: Beethoven; montaggio: Françoise Collin, Chantal Delattre; interpreti: Marina Vlady (Juliette Janson), Anny Duperey (Marianne), Roger Montsoret (Robert Janson), Christophe Bourseiller (Christophe), Marianne Bourseiller (Solange), Raoul Levy (John Bogus), Jean-Patrick Lebel (Pecuchet), Jean Narboni (Roger), Claude Miller (Bouvard), Joseph Gehrard (Monsieur Gerard); produzione: Anouchka Films/Argos Films/ Les Films Du Carrosse/Parc Film, Parigi; distribuzione: Cineteca dell’Aquila; origine: Francia, 1967; durata: 95’.
Vietato 14 |
|
Trama: | La protagonista del film, Jiuliette, è una giovane donna, sposata e madre di tre figli, che si prostituisce consenziente il marito, per poter procurare a se stessa e alla famiglia quei beni, superflui e indispensabili, che ci offre la civiltà "occidentale". Attraverso il personaggio di Jiuliette, il regista condanna la corsa al benessere e gli altri "miti" di tale civiltà. |
|
Critica (1): | Il regista ha ripetuto spesso che il personaggio centrale del suo film non è la donna, come il titolo potrebbe far supporre, ma la città, Parigi, la "ristrutturazione" dei grandi quartieri popolari voluta dal governo gollista. E infatti uno dei motivi più pungenti e inquietanti del film è costituito dai ripetuti inserti di questa città sventrata, sconvolta, ricostruita da operai, tecnici, ingegneri che sembrano, e sono, gli esecutori di un piano programmato al vertice di una piramide i cui strati medi e inferiori vengono completamente esclusi dalle intenzioni e dalla logica di chi decide. Per farci sentire questo rapporto di estraniazione fra gli abitanti e la loro città, i loro quartieri, Godard non ha più bisogno di immaginare una disumana e allucinata Alphaville. Il processo di estraniazione non è un'ipotesi minacciosa da prospettare, come "paradosso", attraverso le strutture di un romanzo fantascientifico: è già una realtà, una dimensione del quotidiano, che fa corpo con la vita di ogni giorno. E infatti, mentre qualcuno ricostruisce Parigi, i suoi abitanti continuano a vivere tranquillamente, applicando tutta la loro "libera" disponibilità umana nei consumi che lo stesso sistema che distrugge e razionalizza la città mette a loro disposizione. Il consumo è infatti l'unico rapporto tra le migliaia di persone relegate nei ghetti di cemento e di vetro della regione parigina e il "cuore" della metropoli.
Il regista avvicina la sua lente di ingrandimento a una di queste figure, una delle tante, per cogliere, o tentare di cogliere, nell'atteggiamento di essa il senso di una condizione più generale. Procedimento arrischiato e pericoloso perché se Godard (che pure fa largo uso dell'intervista, o di qualcosa che le somiglia) non crede nel valore "obiettivo" delle inchieste e delle statistiche, egli rifugge, e con altrettanta risolutezza, dalle mediazioni della "trama" e dalle strettoie del "personaggio". Il punto di partenza di Due o tre cose che so di lei sarà dunque un'indagine del «Nouvel Observateur» su certi aspetti sconcertanti della prostituzione parigina e un'attrice, Marina Vlady, sarà, e dichiaratamente fin dall'inizio (con esplicito rimando a Brecht), il tramite di un discorso che parte da un'inchiesta ma non si risolve certamente in essa.
Perché ciò che interessa Godard non è tanto l'estensione del fenomeno quanto lo stretto rapporto di questo con le norme e le consuetudini di un comportamento generalizzato. Infatti Juliette Janson si prostituisce, col tacito consenso del marito, non per fame o per vizio ma per arrotondare il bilancio familiare e, soprattutto, per avere certe cose che lei stessa ritiene superflue. Ma la tristezza di questa condizione, per Godard, non è certo più squallida di quella di altri milioni di individui che, nella società integrata e unidimensionale, fanno la stessa cosa ogni giorno, sia pure in altro modo e misura. Per questo l'autore non ha bisogno di sublimarla come "personaggio": Juliette Janson è soltanto un'ipotesi per un'analisi e una riflessione fondate su dati di fatto accertati e largamente riscontrabili. Non ha pertanto la finezza e l'intelligenza di quel prezioso insetto che era la Charlotte di Una donna sposata, anzi è molto più comune e volgare, ma con uno spessore sociologico e una densità umana di gran lunga più interessanti, almeno per noi.
Il rapporto fra il regista, presente dall'inizio alla fine come voce fuori campo che commenta, interviene, provoca, e questo suo "personaggio", che egli viene ritagliando nell'anonimato che lo preoccupa e lo inquieta, è ravvicinatissimo. Nella misura in cui il comportamento della donna viene frugato in tutti i possibili risvolti, le reazioni che il sociologo si proponeva, forse, di definire nel suo laboratorio, smascherano ogni possibile neutralità "scientifica" e, richiedendo risposte politiche, lo rimandano alla società, al senso e al non senso della sua organizzazione (altro che l'innocuo e patetico Tati, con le sue "gags" sugli inconvenienti del comfort!). La presa di coscienza è possibile perché il regista e il personaggio hanno in comune un possessiva attenzione a se stessi e a ciò che li circonda. È, del resto, il dato comune a tutti gli eroi dell'ultimo Godard: a Paul di Masculin féminin, a Paula di Made in Usa, ai ragazzi de La cinese. È, infine, il motivo che dà un senso al lucido monologo di Lontano dal Vietnam. Non a caso quando Juliette parla di se stessa e del mondo, dell'"immaginazione" che ti fa sentire vicino e pressante ciò che sembra lontano ed estraneo, è il volto martoriato del partigiano vietcong a intercalare il confuso tentativo di autoidentificazione che la giovane donna viene compiendo. E con lei il regista. Godard, che in questo film si interroga con tanta ostinazione su come e perché sia oggi possibile fare un film e interviene continuamente con domande e riflessioni che, sospendendolo, interrompono il "flusso" narrativo e ci riportano alla misura saggistica e informale dell'opera, non paga il suo debito a una moda che, del resto, egli avrebbe concorso a creare. Si può fare dell'ironia - non occorre molta fatica - sulla logorrea di tali interventi. Ma la verità è che questo "maestro" del "cinema cinematografico", la mostruosa "bête à cinéma" di cui si parlava ai tempi di Fino all'ultimo respiro, sa che oggi l'immagine, "il grande fumetto" come egli dice, è una delle forme trionfanti della violenza istituzionalizzata e che pensiero, parola, immaginazione sono termini e possibilità da ritrovare.
Certo, a tale coscienza si arriva ancora, in questo film, con troppe concessioni declamatorie a tutta una pseudofilosofia che, attraverso una superficiale mediazione di Pirandello e Merleau-Ponty, chiama in causa l'essere e l'apparire, l'esistenza e il nulla, la "soggettività che esilia" e l'"oggettività che opprime". E non mancano le solite civetterie per gli addetti ai lavori (ostili o favorevoli che siano), il compiacimento dell'arbitrarietà, il puntiglio di riuscire ostico e pedante. Ma il senso del discorso è già tutto proiettato sul versante della riflessione e dell'intervento. Quando Juliette Janson, con quella tristezza che è di tutti gli eroi maturi dell'ultimo Godard, confessa, prima di scomparire nell'anonimato agghiacciante e confortevole da cui il regista ha voluto trarla, la propria persuasione di fare ormai corpo con i palazzi, il cemento, le strade, i negozi della città, le parole e le domande di cui queste figure sono così prodighe tornano ad assumere tutto il loro peso, con ciò che di presenza a se stessi e agli altri esse comportano. A questo punto l'impegno dell'autore, di ricominciare tutto da zero, su cui il film si chiude, acquista il senso che gli è proprio, di totale rifiuto di questa realtà e di "immaginazione", politica e poetica, di un'altra, radicalmente diversa.
Adelio Ferrero, Recensioni e saggi 1956-1977, Edizioni Falsopiano, 2005 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| |
| |
|