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Mississippi Blues - Mississippi Blues


Regia:Parrish Robert, Tavernier Bertrand

Cast e credits:
Soggetto
: Robert Parrish, Bertrand Tavernier; sceneggiatura: Robert Parrish, Bertrand Tavernier; fotografia: Pierre-William Glenn; montaggio: Ariane Boeglin, Agnes Vaurigaud; musica: brani originali; produzione: Bertrand Tavernier per la Little Bear Les Film Antenne 2, Yannick Bernard, Odessa Films; distribuzione: Ventana; origine: Francia, 1984; durata: 95’.

Trama:Un documento sulla misera vita dei residui abitanti della zona del Delta del Mississippi e di ciò che resta del blues. La macchina da presa inquadra anziani sacerdoti battisti, case, bar, fattorie e chiesette di legno, tra paludi e canne, per ricercare e registrare antichi motivi musicali: con essi le tracce di una cultura che sta stemperandosi e perdendosi e le radici stesse di una musica vitalissima, violenta, gaia o triste, che ci parla ancora di miseria, di speranze, di frenesie ritmiche e di legittime aspirazioni sociali e speranze.

Critica (1):Sull’onda del successo di ‘Round Midnight è stato presentato sugli schermi italiani Mississippi Blues di Bertrand Tavernier. Questo film, in realtà realizzato precedentemente (è, infatti, dell’ ‘84), costituisce una premessa tematica all’incursione nei territori del jazz rappresentata da ‘Round Midnight in quanto indaga sulle origini della musica nera nord–americana. Si tratta, comunque, di due pellicole strutturalmente diverse: se la vicenda del sassofonista Dale Turner poggia su di un impianto narrativo tradizionale, Mississippi Blues è, invece, un documentario girato in alcune zone del delta: il regista ci presenta la materia quasi grezza di un reportage su alcune espressioni musicali della realtà nera del profondo Sud. Il film lo costruisce la gente, su cui l’occhio di Tavernier scivola con affetto e tristezza: predicatori, gruppi corali nelle chiese, famiglie riprese nelle loro abitazioni, frequentatori di uno dei qualsiasi “barber shop” che si trovano all’interno dei locali pubblici americani. Ai momenti di ripresa delle esecuzioni musicali – sicuramente i piú felici della pellicola – si alternano le interviste ai personaggi, talvolta non identificati, che, attraverso i loro commenti, delineano il contesto attuale in cui il blues si esplica.
A ben vedere, l’operazione riesce solo in parte: Tavernier ci propone l’immagine del fenomeno musicale in oggetto come realtà immutata nel tempo, cristallizzato nelle sue radici rurali. Infatti quando si inquadra la grande strada diretta a Nord, percorsa da generazioni di emigranti, non si fa cenno alla vita delle città, all’altra musica che, pure, vi si è sviluppata: a questo proposito è da rilevare, nel film, l’assenza dei “worksong” o comunque di riprese sonore sui luoghi di lavoro. A parte ciò, l’autore ha fatto sue le analisi degli studiosi del blues (esemplare Le Roy Jones de Il popolo del blues), che riconoscono in questo genere musicale soprattutto la natura religiosa e quella esistenziale.
È vero, d’altronde, che la pellicola fa riferimento a un fenomeno nato nell’estremo Sud degli Stati Uniti, che è rimasto fino a epoche recentissime una zona quasi sottosviluppata e sicuramente emarginata dal progresso economico statunitense. Pertanto si rivela corretta l’ottica secondo cui ci sono mostrati scenari ed ambienti di povertà ed arretratezza reali, segno della scelta di campo di un regista sicuramente diverso da cineasti che preferiscono perpetuare immagini piú convenzionali dell’ “american way of life”. Tuttavia il Sud è cambiato politicamente ed economicamente e, al suo interno, è mutata anche la comunità nera che, dagli anni ’50 a oggi, ha segnato traguardi significativi rispetto alla coscienza di sé e alla capacità organizzativa, come dimostra la recente affermazione elettorale di Jesse Jackson. Di questa evoluzione nel film non vi è traccia: gli intervistati, quando fanno riferimento alla realtà politica e sociale, si limitano a citare le due figure carismatiche degli anni ’60, Martin Luther King e Malcom X, spesso dimeticando che erano portatori di due messaggi ideologici pressoché inconciliabili.
Queste obiezioni di merito sono da ascrivere a precise scelte di metodo: in primo luogo Tavernier ha dato voce solo alla gente comune, pertanto gli informatori non si rivelano abbastanza qualificati a ricostruire tutti i molteplici aspetti del quadro sociale attuale; in secondo luogo, il regista ha avuto Robert Parrish come guida, un bianco, seppure uomo del Sud, piú sensibile alle suggestioni della musica e del mito che non alla complessa articolazione di un reale che, per tutti questi motivi, rimane delineato in termini affettuosi e partecipi, ma sostanzialmente oleografici e appiattiti storicamente. Fatte salve queste riserve, resta indiscusso il valore delle parti musicali del film: è con senso di rispetto che l’autore ha antologizzato alcune situazioni in cui il blues si manifesta; dai brani religiosi, basati sulla ripresa ritmica di frasi tra il solista e il coro, ripetute ipnoticamente sino a trasportare esecutori e pubblico al di fuori del tempo reale oggettivo, a quelli che nascono spontaneamente in occasione di incontri tra amici o familiari, anche se – a parer nostro – la presenza di sottotitoli per le canzoni avrebbe accresciuto l’apprezzamento per il film in lingua originale. La pellicola termina con un omaggio al blues delle origini, in cui gli strumenti impiegati erano esclusivamente di origine africana, come i “quills” (pifferi) e il banjo. Così, un lavoratore della terra incontrato casualmente in campagna dalla troupe, intona con uno zufolo di canna una melodia che, dapprima incerta, finisce con l’affermarsi in primo piano sonoro, coinvolgendo chi ascolta fino a farlo partecipare con strumenti improvvisati.
Tuttavia il mondo rappresentato da Mississippi blues si rivela un astorico «mondo dei vinti»; la nobiltà dell’esperienza musicale elaborata non sembra essere stata in grado di resistere né ai miti del consumo, né alla collocazione negli spazi, talvolta troppo angusti, della celebrazione agiografica e del folclore.
Cinema Nuovo n. 313, 5-6/1988

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Robert Parrish
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