Enigma di Kaspar Hauser (L’) - Jeder für sich und Gott gegen alle
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Regia: | Herzog Werner |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Werner Herzog; fotografia: Jorg Schmidt-Reitwein, Klaus Wyborny; musiche: Tomaso Albinoni, Orlando di Tasso; montaggio: Beate Mainka Jellinghaus; interpreti: Bruno S. (Kaspar Hauser), Walter Ladengast (Professor Daumer), Brigitte Mira (Kathe), Willy Semmelrogge (direttore del circo), Michael Kroecher (Lord Stanhope), Hans Musäus (lo sconosciuto), Markus Weller (Julius), Gloria Doer (Sig.ra Hiltel), Volker Prechtel (Hiltel, la guardia), Herbert Achternbusch (bracciante), Wolfgang Bauer (borgomastro), Helmut Döring (piccolo re), Clemens Scheitz (scrivano), Elis Pilgrim (pastore giovane), Wolter Pflaum (coroner), Enno Patalas (Reverendo Fuhrmann), Heinz N. Niemoller (coroner), Willy Meyer Furst (dottore), Dorothea Kraft (bambina), Henry van Lyck (capitano della cavalleria), Kidlat Tahimik (Hombrecito, l'indiano), Walter Steiner (bracciante), Peter Udo Schonborn (schermitore), Alfred Edel (professore di logica), Peter Gebhart (Weichmann), Florian Fricke (Florian), Herbert Fritsch (Hiltel), Andi Gottwald (piccolo Mozart), Otto Heinzle (pastore anziano); produzione: Werner Herzog Filmproduktion-Monaco-Zdf (Zweites-Deutsches Fernesehen); distribuzione: Cinteca Griffith; origine: Germania, 1974; durata: 110'. |
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Trama: | All'alba del 26 maggio 1828, in una piazza di Norimberga viene trovato un giovane sporco e sbigottito. Tra le mani ha una lettera anonima in cui si dice che, abbandonato dalla madre, è stato educato da un contadino il quale non può più averne cura e quindi lo affida al locale capitano di cavalleria. I contemporanei fantasticano che possa trattarsi di un figlio spurio di Napoleone o addirittura di un principe, ma nessuno conosce la verità. In un primo tempo messo in prigione, poi affidato alla pietà del carceriere che se lo porta a casa, deriso come fenomeno da baraccone, adottato da un anziano insegnante e da una nobile inglese, il giovane, dopo essere scampato a due attentati, viene ucciso nel 1833, forse dallo stesso sconosciuto che lo aveva lasciato sulla piazza. L'autopsia accerterà che aveva il cervello più piccolo del normale e questa sembrerà la giusta spiegazione della sua debolezza mentale. Sepolto ad Ansbach, è rimasto un enigma, alcuni considerandolo un impostore altri un simbolo di innocenza. |
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Critica (1): | Per la prima volta in Herzog il soggetto si ispira a un episodio di «cronaca» nazionale (ma fatto proprio, all'epoca, da tutta Europa), profondamente penetrato nella cultura tedesca fino ai tempi più recenti. È la storia di Kaspar Hauser, un giovane emerso alla vita a 16 anni, nella Norimberga del 1828, dopo essere rimasto da sempre rinchiuso in una buia cantina vivendo in condizioni animali, e misteriosamente assassinato cinque anni più tardi, forse, si disse allora, per evitare che si scoprisse la sua nobile origine (un principe di Baden, o addirittura un discendente di Napoleone?). Un "enigma" che ha affascinato negli ultimi due secoli, con significativa continuità, intellettuali di estrazione più varia: l' "archivio hauseriano" della cittadina di Ansbach sembra conti ormai circa quattromila titoli. (…)
Di fronte a questo sapere accumulato in 150 anni, Herzog mantiene, come gli è consueto, un distacco quasi totale. Come unica documentazione per il film si avvale della lettura di alcuni materiali dell'epoca, tra cui soprattutto il rapporto di Anselm von Feuerbach scritto nel 1833 e i pochi scritti di Kaspar stesso: una poesia e l'inizio di un'autobiografia. In Jeder für sich ... restano alcuni momenti-chiave della vicenda reale accanto ad altri di totale reinvenzione. Le prime inquadrature mostrano Kaspar nella prigione dove vive la sua condizione subumana e subito dopo la sua scoperta del mondo esterno. Uno sconosciuto (lo stesso che gli toglierà la vita) lo trascina su una collina per insegnargli a camminare e poi l'abbandona nella piazza di una città che non viene nominata (nel film è il paese di Dinkelsbühl, in Franconia) con una lettera in mano, nella quale si invitano le autorità locali a prendersi cura del trovatello. Da questo momento in poi manca uno svolgersi lineare del racconto. La narrazione si concentra su una serie di "quadri", di sequenze "autonome" che illustrano le varie tappe del tormentato apprendistato di Kaspar alla vita sociale (soprattutto in casa del Dr. Daumer) fino alla morte violenta. Seguiamo, così, il rapido formarsi di una intelligenza e una sensibilità acutissime verso ciò che non fa parte dell'apparato di regole borghesi impostegli (da qui l'identificazione con le forme di vita più semplici, l'amore per la musica, le "visioni") e nello stesso tempo lo scontro irreparabile con tutto quanto concerne le raffinate espressioni del pensiero razionale, della "logica" di cui si vorrebbe invece venisse a far parte "naturalmente". Di fronte alla dolcezza e alla solidarietà delle figure "non pubbliche": i bambini, le donne (la signora Hiltel, Käthe) che per prime si incaricano di "educarlo", sta l'intolleranza, la sottile violenza della "ragione" di tutte le autorità: funzionari, militari, preti, professori (di logica appunto), tutori interessati a Kaspar, in quanto oggetto naturale. Così è per Lord Stanhope (che nell'arco di una sola sequenza consuma il suo rapporto da collezionista con il protetto) e perfino per Daumer, che pure si incarica amorevolmente di inserire Kaspar nella sua società, e proprio per questo non riesce mai a entrare in sintonia con le disperate ricerche del giovane per costruirsi uno spazio personale di comunicazione, per raccontare «l'inizio di una storia di cui non conosce ancora la conclusion ». Kaspar Hauser diventa una figura inquietante per tutti. È l'essere che svela i compromessi della nostra cultura, con la forza del suo agire e vedere senza schemi (autodifensivi) razionalizzanti al momento del contatto con il reale (in questo lo si può accostare ai nani o a Woyzeck, oltre che, più superficialmente, ai sordo-ciechi di Land des Schweigens ... ). Un essere che va dunque "esibito" come fenomeno (la sequenza del circo, dove infatti appaiono il nano Döring e Hombrecito) o fatto a pezzi per identificarne l'anomalia fisica rivelatrice (la sequenza finale dell'autopsia).
Il progetto "morale" che sottende la struttura del film è quindi (forse fin troppo) trasparente. Herzog tende ad eliminare dalla storia esemplare di Kaspar ogni possibile ambiguità (al contrario di ciò che avviene per il rapporto tra Victor e il dottor Itard nel Ragazzo selvaggio di Truffaut dove non esiste un polo positivo), dirigendo la sua attenzione e partecipazione verso il protagonista per sottolinearne la tragica inconciliabilità formale con l'ambiente in cui viene precipitato. Ogni "stazione" del film non è la tappa progressiva di una vera conquista di conoscenze ma, al contrario, un nuovo episodio che conferma «la caduta pesante» di Kaspar nel mondo e il suo procedere inesorabile verso la sofferenza, la solitudine. L'autore stesso ha invitato a leggere l'Hauser come una "Passione" (citando a riferimento Jeanne d'Arc di Dreyer) e non come un racconto filosofico. In effetti sembra di avvertire l'eco di certi drammi religiosi medievali in questa graduale affermazione di una "santità" del protagonista, punteggiata, stazione dopo stazione, dalle manifestazioni della sua verità interiore (si pensi ai momenti in cui le "argomentazioni assolute" di Kaspar mettono in crisi l'ordine mentale dei suoi inquisitori).
L'elemento decisivo nell'orientare il racconto verso uno schema così marcato è stata probabilmente la scelta dell'interprete. Herzog scopre Bruno S. nel documentario Bruno der Schwarze (Bruno il nero) girato nel '70 da Lutz Eisholz su quest'uomo distrutto dopo un'intera esistenza trascorsa tra riformatori e istituti per alienati. Il cineasta comprende subito che proprio Bruno più di ogni altro può sentire profondamente la " passione " di Kaspar e non esita ad affidargli il ruolo nonostante certe palesi contraddizioni (il suo attore ha più di 40 anni). È un rischio e gli approcci sul set sono difficili. Bruno conosce solo il dialetto berlinese e deve imparare le sue battute in un tedesco più che corretto, ottocentesco. Le esitazioni, gli sforzi che ne conseguono nel parlare, concentrarsi, muoversi finiscono però con l'adattarsi perfettamente al personaggio Kaspar. Grazie a Bruno, che si impegna con dedizione assoluta a ritrovarsi anche fisicamente nelle condizioni menomate previste dalla sua parte, Hauser non è più soltanto un'idea. Diventa un corpo, un volto, una voce che afferma all'interno di ogni inquadratura la propria totale estraneità agli spazi circostanti. Herzog "ricambia" il suo attore di questo miracolo interpretativo (per Bruno è quasi un'analisi terapeutica nel corso della quale può riconoscere la sua condizione) con un'adesione mai prima così incondizionata. Per questo, Kaspar è in tutte le sequenze (eccettuate ovviamente le visioni) il centro "affettivo" verso cui converge lo spettatore anche se spazialmente la sua presenza è in qualche modo decentrata, emarginata nell'ambiente simmetrico che la circonda. D'altra parte, questo sbilanciamento totale comporta spesso una semplificazione narrativa, una perdita di spessore e credibilità drammaturgica per gli altri personaggi del film. Molte figure di contorno sono astratte personificazioni di ruoli sociali e concetti negativi che fungono da cassa di risonanza alle «semplici verità» di Kaspar (si pensi a Lord Stanhope, ai due pastori, al professore di logica). Fortunatamente il film non si risolve tutto in questo schema esterno originato dalle "certezze" di schieramento preliminari (vorremmo dire prefilmiche) del suo autore. Il tema dominante del conflitto tra Kaspar e il mondo (non solo borghese) è affidato a un sistema di relazioni tra diverse "informazioni" visive e sonore (in cui hanno parte decisiva i sogni e le visioni), che ne attenua l'andamento didascalico e ne motiva profondamente l'enunciazione.
Per accostarsi alla composizione del testo bisogna risalire ancora una volta alla sequenza d'apertura, isolata dal contesto narrativo eppure rivelatrice delle scelte estetiche herzoghiane. È un paesaggio dolcissimo e nello stesso tempo vagamente enigmatico, indefinito (l'effetto è rafforzato da un leggero flou): una barca su un lago, una donna in primo piano, una torre sullo sfondo, una contadina che lava i panni sulla sponda. Su queste inquadrature l'aria di Tamino dal Flauto magico di Mozart che inizia con «Ritratto d'incantevole bellezza / come occhio non ha mai veduto!». Poi, dopo la scritta che presenta la storia di Kaspar Hauser, ancora un paesaggio, questa volta esteso a perdita d'occhio: un campo di grano ondeggiante al vento, colori tanto carichi da apparire irreali e l'accompagnamento del potente e suggestivo canone di Pachelbel. Infine, una seconda scritta, dal Lenz di Büchner, «Non sentite ovunque queste grida di terrore che normalmente chiamano silenzio?» (entrambe le didascalie sono state incomprensibilmente eliminate nella copia italiana). È l'unica parte del film in cui immagini della natura non siano direttamente collegate a Kaspar (meglio, emanate da lui), proprio perché assume, anche se oscuramente, il valore di una straordinaria prefigurazione di quella che sarà l'autonoma dimensione sensoriale, audiovisiva, del protagonista. In questi quadri «d'incantevole bellezza» entrano già segni "misteriosi" che ne fanno qualcosa di sospeso, distaccato, ignoto. Non a caso, più avanti vedremo con gli occhi di Kaspar quella torre (dove sarà rinchiuso) e quella barca (dove già egli si trova, ma come un punto lontano). Herzog sembra volerci mostrare un'ipotesi di originaria armonia cosmica (a cui sempre tenderà invano Kaspar) che non si ripresenterà più e che nasconde comunque nella sua inaccessibilità una inquietudine suprema, come ricorda la scritta da Büchner.
Nelle sequenze successive (la cantina buia, la deflagrazione del mondo esterno, l'abbandono nella piazza del paese) comprendiamo che al centro del racconto è il problema del vedere e del sentire, dell'occupare uno spazio da cui si è respinti, della necessità di percepire un'altra realtà. Da questo punto di vista risultano quantomeno superficiali le convinzioni di chi ha visto in Jeder für sich ... il ritorno a una concezione romantica della natura, individuando in Kaspar l'essere che si fonde panicamente con essa per sfuggire all'ostilità degli uomini. Al contrario (…) «le inquadrature apparentemente romantiche di campi, morbidi pendii, laghi silenziosi, del campo di grano ondeggiante all'inizio non segnalano l'accordo di Kaspar Hauser con esse, bensì il suo stupore e insieme la loro estraneità per lui. Anche nella visione del film non ci si può sottrarre a questa sensazione. Nella certezza di non avere ancora visto un campo di grano così, si diviene anche coscienti della sua estraneità».
Questo effetto di stupore è particolarmente accentuato quando il giovane da sempre segregato si trova sul grande prato di una collina con lo sconosciuto. Luci e colori sono più che mai distanti e innaturali, visti per la prima volta dai suoi come dai nostri occhi. Ma anche più avanti, dopo che Kaspar ha imparato a riconoscere ciò che lo circonda, la natura è ugualmente un elemento inafferrabile in quanto parte dell'armonia complessiva che lo esclude (il giardino di casa Daumer). C'è forse solo un momento in cui la conciliazione sembra possibile: durante la breve convalescenza tra il primo attentato e il secondo, mortale, quando il protagonista vaga sorridente per i campi innevati con un corvo sulla spalla. Ma è appunto un attimo presto stroncato: l'acqua in cui si specchia gli rimanda di sé un'immagine distorta, che non riconosce, e subito dopo, nella natura, incontra la morte per mano dell'uomo che lo aveva strappato alla sua condizione animale.
La regola dell'estraneità (ma solo per il protagonista) vale in modo ancor più sensibile quando si passa all'ambiente umano socializzato. Le tante affascinanti inquadrature di interni sono sempre in un certo senso filtrate o criticate dalla presenza fisica di Kaspar. Questo è evidente nel nucleo del film che si svolge nei raffinati santuari dell'intimità borghese (salotti armoniosi, simmetrici), ma c'è una precisa evoluzione scenografica e figurativa del dramma hauseriano di cui va tenuto conto. Si inizia con gli spazi "primitivi" e oscuri della prima parte, la cella originaria e quella successiva della torre, in cui la dimensione di vita del protagonista prevede ancora una sconvolgente fusione animale con l'ambiente, affidata com'è a sensazioni fisiche e procedimenti mentali primari, ma libera da intrusioni coercitive (nella torre entrano tutt'al più i bambini, "primi educatori", od occasionali aggressori, mentre gli altri si limitano ad osservare il "fenomeno" dall'esterno della gabbia). Si prosegue con il primo interno familiare, la cucina del guardiano Hiltel, fotografata in toni caldi e morbidi, dove si tenta un accenno di affettuosa "integrazione": Kaspar vi conosce il trauma del sentimento, ma anche certe regole "fondamentali" di comportamento. La sua caduta finale si compie nelle stanze amorosamente arredate di casa Daumer (o chiaramente sontuose di Lord Stanhope), dove penetra una luce tersa, intensissima, che stabilisce contorni netti e colori freddi, azzurrognoli, a mettere in risalto la geometrica compattezza (e chiusura) del microcosmo. Ognuna di queste stanze, mentre rivela la sua perfetta funzionalità al compimento dei riti borghesi, non può che sancire (al di là delle cure paterne di Daumer) la non-pertinenza del "nuovo venuto", con i suoi gesti goffi, i movimenti incerti, le parole che escono faticose anche se dure e taglienti. Ma Kaspar non è totalmente prigioniero di questo universo chiuso. Si costruisce, fin dove gli è possibile, alcuni spazi d'espressione (il pianoforte, l'aiuola coltivata a formare il suo nome, l'autobiografia) e soprattutto produce egli stesso altre immagini, radicalmente eterogenee rispetto a quelle in cui si muove.
Esistono nel film sei sequenze che possono essere definite « visioni di Kaspar », anche se propriamente solo tre di esse sono introdotte dal personaggio come sogni o " storie " (è una distinzione, come vedremo, non trascurabile). Questi inserti presentano alcune significative caratteristiche comuni. Sono stati girati in formato inferiore al normale (16 mm o addirittura Super8 nella sequenza del Caucaso realizzata in Birmania dal fratello di Herzog), poi rifilmati e ampiamente trattati in laboratorio a sottolinearne la singolarità tecnica. Rappresentano immagini di paesaggi indefiniti oppure lontani, esotici. Sono associati a un brano musicale (Orlando di Lasso, Albinoni, Pachelbel) che fornisce loro un rilievo ancor più eccezionale (solo raramente c'è musica extra-diegetica nel resto del film). Non è un caso che Herzog vi abbia lavorato con tanta accuratezza e dispendio di energie (per girare «la processione sulla montagna» è andato appositamente con Klaus Wyborny in Irlanda; per la «carovana nel deserto» si è spinto fino al Sahara). E non è un caso neppure che esse risultino nel film cariche di un impatto così dirompente e allucinatorio, non giustificabile soltanto con il preteso carattere onirico loro assegnato. Herzog lacera bruscamente l'esteriore armonia figurativa che rinchiude Kaspar e vi fa irrompere lo sguardo diverso della sua vittima. Ma questo sguardo non è soltanto esplosione estatica: a poco a poco diventa anche formazione interiore di un modo d'espressione, di un linguaggio non codificato. Se le prime " visioni "sono ancora una replica intensificata (vista dagli occhi di Kaspar) del paesaggio circostante o anche immagini in cui si contempla per un attimo un'appagante e irraggiungibile natura totale (i campi, il lago, la grande pianura), le successive inquadrature di luoghi lontani e misteriosi fanno già parte di una storia, o meglio dell'inizio di una storia (e quindi di un discorso). Kaspar ora racconta ciò che vede. Il Caucaso, la nera montagna della processione dove in cima c'è la morte, il deserto in cui gli uomini della carovana vedono montagne immaginarie, sono, più che invenzioni favolistiche, il frutto di una sensibilità che non si organizza organicamente (non sa concludere le storie), ma che può spingersi molto al di là della realtà contingente, sino a prefigurare in modo folgorante la propria condizione, sino a sfiorare le radici del mito della conoscenza.
Herzog legge dunque il tema di fondo dell'Hauser, la solitudine sociale dell'eroe, come scontro inconciliabile tra due livelli di senso e di visione; tra una cultura imperfetta, che vede, e un'altra totalizzante (la nostra), che organizza il visibile (conflitto tragico perché, come sempre, chi rivela la profondità dei suoi sensi è votato alla disfatta). Per questo l'autore, allo stesso modo artista imperfetto, non può che essere tutto dalla parte del suo protagonista. Allo spettatore non è chiesto di scegliere, ma di lasciarsi invadere anche da quell'altra realtà che Kaspar disperatamente si sforza di mostrarci.
Fabrizio Grosoli, Werner Herzog, Il Castoro cinema, 1/1981 |
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