Cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante (Il) - Cook, The Thief, His Wife and Her Lover (The)
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Regia: | Greenaway Peter |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Peter Greenaway; fotografia: Sacha Vierny; musiche: Michael Nyman; montaggio: John Wilson; scenografia: Jan Roelfs, Ben Van Os; interpreti: Richard Bohringer (Richard), Arnie Breevelt (Eden), Ron Cook (Mews), Ian Dury (Terence Fitch) , Michael Gambon (Albert Spica), Roger Ashton-Griffiths (Turpin), Emer Gillespie (Patricia), Janet Henfrey (Alice), Ciarán Hinds (Cory), Alan Howard (Michael), Alex Kingston (Adele), Helen Mirren (Goergina), Gary Olsen (Splanger), Paul Russell (Pup), Willie Ross (Roy), Tim Roth (Mitchel), Liz Smith (Grace), Ewan Stewart (Harris), Ian Sears (Philipe), Tony Alleff (Troy); produzione: Kess Kasander per Allarts Cook Productions Ltd. / Erato Films Inc.; origine: Gran Bretagna, Francia, Olanda, 1989; durata:120'.
Vietato minori 14 |
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Trama: | In un elegante ristorante londinese gestito dall'esperto cuoco francese Richard, ogni giorno si reca a mangiare il bandito Albert Spica con la moglie Georgina e i suoi scagnozzi. L'uomo è un essere volgare e violento che tiranneggia chiunque gli capiti a tiro e disprezza tutto e tutti. Le prime vittime sono sua moglie, che viene quotidianamente da lui umiliata e percossa in privato ed in pubblico, e i suoi uomini, che non osano ribellarsi per paura della sua collera. Infatti Albert è capace di compiere qualsiasi azione malvagia pur di vendicarsi e di far valere la sua volontà. Eppure proprio quest'uomo repellente Georgina osa tradire: si infatua di un cliente del locale, Michael, che mangia solo in un angolo, assorto nei suoi libri. I due, da una semplice attrazione, passano ad un amore vero; si amano nei sontuosi bagni del ristorante o nella dispensa dietro la cucina, complice in ciò il cuoco Richard che odia anche lui il perfido Albert. Tutto sembra filare liscio per i due colpevoli: Albert non si accorge di nulla tanto preso com'è ad ingozzarsi, a parlare senza sosta e a maltrattare i suoi subalterni. Senonchè la ragazza di Cory, uno dei suoi uomini, fa la spia e rivela ad Albert il tradimento di Georgina. L'uomo quasi impazzisce per la rabbia, lancia una forchetta nella guancia della giovane e si getta alla ricerca dei due fedifraghi. Mette a soqquadro il locale ma, per l'abilità di Richard, non li trova poichè questi li ha nascosti in un furgone di carne avariata e li ha fatti portare in un magazzino di libri. Raccomanda loro di non muoversi e provvede a mandargli le provviste tramite un giovane sguattero del ristorante. Albert però non si arrende: segue il ragazzetto e lo cattura. Lo picchia e lo tortura selvaggiamente per farsi dire il nascondiglio dei due; ma il coraggioso resiste, ed allora il malvivente lo ferisce in modo grave all'addome. Si salverà solo perchè viene portato in ospedale. Per Michael però è la fine: Albert lo fa uccidere in modo atroce e quando Georgina lo scopre quasi esce fuori di senno per il dolore. Ma freddamente medita un'orrenda vendetta per suo marito. Convince, non senza fatica, Richard a cucinare Michael ed offrirlo ad Albert. Giunto il gran giorno, alla presenza di tutti coloro che hanno subito soprusi da Albert, l'uomo viene costretto da Georgina, che gli punta una pistola addosso, ad assaggiare la carne del suo amante, dopodichè lo uccide senza alcuna esitazione. |
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Critica (1): | Dopo la narrazione scandita da giochi e numeri in Giochi nell'acqua, Greenaway affronta nel suo quinto film Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante un argomento più «teatrale». Non soltanto per la vicenda, un triangolo amoroso che si trasforma in dramma della vendetta, ma per gli artifici spettacolari di matrice «teatrale» ravvisabili nelle scenografie, nell'uso dei colori e nelle tecniche di ripresa. Greenaway lo definisce un «melodramma contemporaneo», una storia «stravagante e improbabile, ma non impossibile, che si svolge in un ristorante dove è consuetudine che tutte le cose siano mangiate, anche a titolo di sperimentazione». Teatro dell'azione è infatti un ristorante alla moda di una qualsiasi metropoli occidentale dove i quattro protagonisti principali, presentati schematicamente nel titolo, decidono tra una portata e l'altra i propri destini.
Un Ladro volgare e brutale di nome Albert Spica (interpretato da Michael Gambon), la Moglie Georgina (Helen Mirren), maltrattata e seviziata dal marito, e la sua banda di scagnozzi (tra cui Tim Roth) frequentano abitualmente l'esclusivo ristorante Le Hollandais gestito dal raffinato Cuoco francese Richard (Richard Bohringer). In nove giorni, dal Prologo del Giovedì all'ultima cena spettacolare del Venerdì, corrispondenti a nove pasti serali introdotti da un ricco menù che illustra le specialità del giorno, nasce e si trasforma in tragedia la profonda passione tra Georgina e un cliente abituale del ristorante, l'intellettuale Michael (Alan Howard). I due amanti si incontrano durante ogni pasto nei bagni del ristorante e nelle dispense della cucina per dare sfogo alle pulsioni erotiche fino a quando, scoperti da Albert, si rifugiano nell'immensa casa-biblioteca di Michael. Deciso a vendicare l'adulterio, il Ladro mette a soqquadro il ristorante, tortura il lavapiatti Pup per farsi rivelare il luogo in cui si sono rifugiati i due amanti e infine raggiunge e uccide l'inerme Michael facendogli ingoiare i suoi stessi libri. Ma Georgina architetta un piano per vendicarsi a sua volta: convince il Cuoco a cucinare il corpo dell'Amante per il marito. Albert viene così invitato al macabro banchetto ed è costretto a consumare l'ultimo pasto prima di essere ucciso.
È una storia truculenta e passionale ispirata al gusto orroroso della tragedia classica e ai drammi giacobini ed elisabettiani del XVII secolo. Per Greenaway esiste un filo rosso che collega alcune esperienze della tradizione teatrale occidentale: «l'ossessione per la corporeità umana», che si ritrova nelle opere del poeta tragico Seneca come nei drammi erotici e violenti dei drammaturghi inglesi del '600: Thomas Kyd, Cyril Tourneur e John Webster. Questi ultimi, seguendo l'identica ispirazione dei contemporanei italiani e francesi, alla riscoperta del gusto stoico e malinconico, le vicende orrorose e lo stile retorico senechiano, unirono la ricerca della «meraviglia» nelle espressioni delle passioni morbose e nelle descrizioni più crude dei personaggi in opere come La tragedia del vendicatore (1607) di Tourneur e La duchessa di Amalfi (1614) di Webster.
Analoghe preoccupazioni si ritrovano in Greenaway che può spingersi oltre i drammi giacobini inglesi mostrando sulla scena i risvolti sanguinari e cruenti legati però alla fine del secondo millennio. I protagonisti del film sono infatti considerati non tanto dal punto di vista della loro personalità, ma per l'aspetto carnale dei loro corpi, «ciò che un inglese definirebbe la loro corporeità, la foggia che rivelano, la mole che possiedono, il volume che occupano». (…)
Ma il cibo è per Greenaway la metafora della nostra civiltà dei consumi che produce ogni tipo di merce e ingurgita tutto con la stessa semplicità merceologica e affaristica con cui l'occidente ricco e opulento ha fondato la propria economia sulla povertà dei paesi del Terzo Mondo. Come l'architettura «carnivora» di Roma nel film Il ventre dell'architetto, il consumismo contemporaneo divora le foreste e gli strati dell'atmosfera, brucia i libri, sfrutta i popoli più deboli e produce montagne di rifiuti: il suo approccio vitale è all'insegna del cannibalismo finanziario, culturale ed ecologico. Di conseguenza, al di là del melodramma passionale, Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante esemplifica «come un decimo del mondo sia ipernutrito e nove decimi siano affamati. Non c'è bisogno di mostrare immagini di etiopi morti di fame per indicare questa enorme discrepanza tra gli ipernutriti e gli affamati».
L'antropofagia metaforica, unita al gusto scatologico, alle ossessioni culinarie e alle fantasie necrofile si converte nel film nella più grande oscenità che un essere umano possa perpetrare ai danni di un altro: il cibarsi di esso". Che il cannibalismo sia da intendersi in senso metaforico lo si intuisce in alcune scene del film, quando Albert, nel tentativo di istruire il giovane Mitchel, lo invita metaforicamente a cibarsi del corpo dell'Amante appena ucciso e questi si spaventa. Lo sfasamento tra livello metaforico e livello letterale è totale.
Domenico De Gaetano, Il cinema di Peter Greenaway, Lindau, 1995 |
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Critica (2): | Può darsi, come vogliono i suoi detrattori, che Peter Greenaway sia un grande dilettante e un grande snob: basta mettere l'accento sull'aggettivo grande. Dopo Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, appare comunque indubbia la sua appartenenza ad una categoria che può anche dispiacere ai timorati e ai devoti del gusto mediano, ma che molto piaceva, per esempio, a Mario Praz: quella dei grandi (e ancora una volta insisterei sull'aggettivo) eccentrici inglesi, come quel William Beckford (1760 - 1844) la cui delirante costruzione neogotica, Fonthill Abbey, è ricordata da Greenaway fra i luoghi mitologici che più hanno affascinato e ossessionato la sua adolescenza nel Witshire. Nel suo unico romanzo, Vathek (scritto in francese: e anche questo è significativo), Beckford mette in scena con lieta impassibilità un vero catalogo di orrori - sadismo, masochismo, necrofilia, omosessualità, incesto - e crea un vilain, il perfido califfo di cui al titolo (superato comunque in efferatezze dalla madre Carathis), che massacra fra orribili torture i suoi sudditi più devoti e mansueti, e che potrebbe essere, per più versi, un antesignano tardo settecentesco del Ladro di questo film. Al di là di eventuali somiglianze a livello di "trama" o di scenari - al ristorante Le Hollandais non ci sono torri, pinnacoli, minareti o scale rovinose alla Piranesi, ma senza dubbio l'effetto complessivo può risultare angoscioso e labirintico - colpisce comunque la singolare consonanza fra uno scrittore che era anche disegnatore e architetto (in questo non isolato, come attesta il caso Walpole) e un regista che è anzitutto pittore, ma ritiene ancor più importante l'architettura: "si può evitare di leggere o di ascoltare musica, non di vivere fra costruzioni". È evidente ormai che l"'eccentricità" di Greenaway, sostenuta da una notevole capacità citazionistica e al tempo stesso da una quasi maniacale coerenza nei gusti e nelle predilezioni, fa di lui una sorta di unicum nel panorama del cinema inglese; da lui possiamo aspettarci tutto quello che un tempo si poteva sperare da Ken Russell e quello che l'approssimativo e furbesco Derek Jarman non ci darà mai (lo stesso Stephen Fears, purtroppo, sembra tentato da relazioni pericolose con i progetti multinazionali).
Architetto prima ancora che narratore, Greenaway di volta in volta costruisce una variante di Fonthill Abbey - il Giardino, lo Zoo, il Monumento a Vittorio Emanuele - e sotto i nostri occhi procede a ridurla a due dimensioni, rappresentandola graficamente su un foglio bianco, o su una tela, o in una serie di fotocopie (la serialità è un'altra delle sue ossessioni). Poi si tratterà di circoscrivere lo spazio, di "ripartirlo" secondo geometri rigorose e allusive. Il ristorane Le Hollandais, in questo film che è la
summa della poetica greenawayana, è appunto composto da diversi settori, da aree ben distinte anche dal punto di vista cromatico - il blu del parcheggio sinistramente infestato dai cani randagi; il verdastro delle cucine, simili più che altro ad un hangar abbandonato; il rosso scarlatto della sala da pranzo; il candore kubrickiano delle toilettes - ciascuna delle quali riveste una funzione ben precisa, ma non subordinata al racconto: in una certa misura è vero il contrario, che la "trama" nonostante la vorticosa progressione che la sospinge al tableau finale imbocca ancora la via della ripetività seriale, e i personaggi, anche se magari come Albert si illudono di entrare da padroni nei "vari" settori, in realtà appaiono di volta in volta "modificati", anche a livello cromatico, man mano che passano da una zona all'altra (fra parentesi, si dovrà segnalare che i paayaggi e le transizioni con la m.d.p. che sembra scivolare in avanti fra nere quinte invisibili, sono di straordinaria suggestione).
Guido Fink, Cineforum, n. 292, gennaio-febbraio 1990 |
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