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Suspiria


Regia:Argento Dario

Cast e credits:
Soggetto: Dario Argento, Daria Nicolodi; sceneggiatura: Dario Argento, Daria Nicolodi; fotografia: Luciano Tovoli; musiche: Goblin, Dario Argento; montaggio: Franco Fraticelli; scenografia: Giuseppe Bassan; arredamento: Enrico Fiorentini; costumi: Pierangelo Cicoletti; effetti: Germano Natali; interpreti: Jessica Harper (Susy Banner), Stefania Casini (Sara), Joan Bennett (Madame Blanc), Alida Valli (Miss Tanner), Flavio Bucci (Daniel), Miguel Bosé (Mark), Udo Kier (Dottor Frank Mandel), Renato Scarpa (Prof. Verdegast), Margherita Horowitz (insegnante), Barbara Magnolfi (Olga) Susanna Javicoli (Sonia), Eva Axén (Patty Newman), Jacopo Mariani (Albert), Rudolf Schündler (Prof. Milius), Giuseppe Transocchi (Pavlos), Giovanni Di Bernardo (poliziotto), Renata Zamengo (Caroline); produzione: Claudio e Salvatore Argento per Seda Spettacoli;
distribuzione: QMI Stardust; origine: Italia, 1977; durata: 98'. VM 14 Riedizione 2017

Trama:La giovane americana Susy Banner si reca a Friburgo, in Germania, per iscriversi ad una accademia di danza. La notte del suo arrivo assiste alla fuga di una allieva, Patty Newman, che il giorno seguente verrà ritrovata barbaramente uccisa in casa di una amica. In seguito muore, dilaniato dal proprio cane, Daniel, il pianista cieco dell'accademia. Una strana sonnolenza ed inspiegabili malori colpiscono la stessa Susy. Schifosissimi vermi invadono, a migliaia, il collegio. Susy può confidarsi solo con Sara, già amica di Patty, ma anch'ella è vittima di una morte atroce proprio quando stanno cercando insieme la spiegazione a questi fenomeni. Susy apprende poi da un esperto in magia che l'accademia è stata fondata agli inizi del secolo da Elena Marcos, una strega dotata di formidabili poteri e capace di creare attorno a sé una setta di adepti.

Critica (1):Non sarà inutile ricordare che Suspiria è il primo dei due unici film dell'orrore girati da A., insieme a Inferno: finora infatti il regista si è sempre cimentato con le leggi del giallo sia pure sottoponendolo a crescenti pulsioni irrazionali ed a lacerazioni antilogiche. E al giallo (nel senso tradizionale della ricerca e dello smascheramento di un colpevole in carne ed ossa, spinto da un movente "umano") si tornerà con Tenebre e persino con l'estremistico, devastante Phenomena.
Qui invece il disinteresse di A. per il plot si fa macroscopico, programmatico; ogni concatenazione possibile fra gli eventi si vanifica. L'unico riferimento plausibile è quello con la favolistica, assaporata nei propri retroterra più crudeli, nella fascinazione per l'occulto e i suoi miti: streghe, messe nere, esorcismi, sabbah. Prescindendo radicalmente dall'ondata apocalittica e veterocattolica che in quegli stessi anni darà la stura al filone dell'Esorcista & Co., A. sposta il baricentro sul décor, sulla rivisitazione del gotico, sul protagonismo delle scenografie.
I delitti si coreografizzano al massimo, si iterano e si immobilizzano in una serie di immagini perfette, algide. Bene e male, innocenza e perversione si rispecchiano reciprocamente: in un Technicolor sfavillante e artificioso, rielaborato su una vecchia pellicola Kodak particolarmente duttile, A. ripete l'eterna odissea di Biancaneve nel castello di Grimilde, trasferendone quasi alla lettera le fattezze nel volto attonito fin dal primo istante di Jessica Harper, così come accadrà poi a Jennifer Connelly. il transfert disneyano si attua dunque nel contatto — ravvicinato ma incontaminante — della purezza con la maleodorante materialità del male; l'eterea, incorporea Susy può permettersi di percorrere tutte le stazioni dell'orrido, così come Jennifer dovrà passare addirittura per un bagno totale nel liquame cadaverico, conservando intatta la propria féerie, la propria verginità, di fatto la propria invulnerabilità.
L'ambientazione mitteleuropea, il recupero di una tradizione "colta" della paura si congiungono però con le irrequietudini urbane e oggettuali del regista: l'indeterminatezza dei luoghi fisici, che caratterizzava già i primi tre film, qui è sospinta verso l'enucleazione di un puro design della paura, un animismo kitsch nel quale umani e streghe, vivi e morti svolgono un ruolo tutto sommato surrettizio: sono gli arredi di un set demenziale, peraltro quasi sprovvisto di mobilio tradizionale, popolato da tendaggi, specchi, oggetti d'epoca, archi, statue e colonne neoclassiche, tappezzerie, disegni romboidali ricorrenti. Un bric-à-brac protonovecentesco e lussureggiante.
Introdotta dalla voce fuori campo dello stesso A. (con un espediente che tornerà in Inferno, Tenebre e Phenomena che sta a mezza via fra la civetteria d'autore e la riaffermazione di un clima fabulistico), Susy Bannon sbarca in Europa fra innumerevoli segnali di un mondo impazzito. Persino il raggiungere la porta fotoelettrica dell'aeroporto può essere un'impresa piena di terrore, un momento gravido di attesa del peggio. Il primo e l'ultimo quarto d'ora del film sono l'esibizione di un vuoto spinto del racconto dove è possibile accumulare qualsiasi imprevisto. La frenetica corsa in taxi di Jessica Harper fino all'Accademia, sotto una pioggia scrosciante e in un baluginare di luci cangianti e sinistre, farà íl paio con quella di Eleonora Giorgi in Inferno: due tassisti-Caronte conducono le eroine dentro le rispettive tane del Male.
L' Accademia è una riproposizione della «mad house», un edificio tutto di facciata, immanente. E la prima sequenza di omicidio connota subito alcuni dati centrali: il cosiddetto punto di visita dell'assassino è definitivamente sostituito da una serie di punti di osservazioni "impossibili", innaturali. O meglio: la m.d.p. potrebbe collocarsi in qualsiasi punto di vista. Lo spazio si frantuma e non si ricompone. Lo schermo si divide. Lo sguardo diventa non più solo inutile ma anche pericoloso: percepire il pericolo è già esserne vittime. La ragazza "coglie" qualcosa di strano intorno a sé, si guarda in giro per capire, è incuriosita oltre che impaurita. Lo sguardo come tentazione, e come perdizione. I due occhi inumani che la spiano dalla finestra sono sospesi nel nulla, il controcampo che si pone dalla loro prospettiva mostrandoci la ragazza dietro il vetro è assolutamente folle. La successiva inquadratura, di spalle alla donna, ci fa presumere di essere in soggettiva dell'assassino, ma l'agguato parte da sinistra e da davanti, cioè dall'esterno, con un braccio che infrange il vetro e subito rientra per schiacciare la faccia della ragazza contro di esso (nuova ripresa impossibile, "da qualche parte" fuori dalla finestra). Tutto ha il sapore di un rito sacrificale, superbamente concluso dalla vera e propria crocifissione dell'amica con alcuni enormi lastroni di vetro, sotto il lucernario dal quale viene gettata, appesa a una corda, la prima vittima.
Eppure Suspiria, nel suo vaneggiante antinaturalismo, denota anche una singolare attenzione alla natura, colta in un inizio di rivolta, di incontrollabilità. L'invasione dei vermi nel college è un preludio a quella preoccupazione per il "molto piccolo", il microuniverso sconosciuto e attivissimo degli insetti, che trionferà in Phenomena; il cane da ciechi che, in un'altra memorabile sequenza di attesa (e di bluff sulla provenienza della minaccia), ucciderà e sbranerà Flavio Bucci esibisce una progettualità dell'animale, un'ostinazione e una premeditazione che ritroveremo nel doberman di Tenebre o nello scimpanzè, ancora di Phenomena. E i temporali che aprono e chiudono i film si saldano in un colonna musi-cale (alla quale ha collaborato in prima persona lo stesso A.) tutta pulsante di voci, sussurri e grida, rantoli, sospiri, suoni della materia.
L'inesorabilità della morte diventa, chiaramente, una questione comportamentistica. Di fronte all'assassino che sta per entrare nella sua stanza Stefania Casini si accoccola, si rintana in una posizione fetale illusoriamente protettiva: sembra quasi restia a tentare la fuga. Il piacere della sofferenza e della macellazione creano in chi guarda il sospetto di un masochismo impotente, dal quale si origina anche la ricchezza sanguinosa di dettagli chirurgici, banalmente "corpo-rei", delle uccisioni.
Le citazioni latine, le filosofie del magico, le elucubrazioni su scetticismo e fede, negatività e purificazione sono sfoggi letterari che saranno ulteriormente rifiniti in Inferno, con la citazione dequinceyana del Libro delle Madri, ma che non fanno assolutamente parte di un ipotetico, serioso dibattito di A. sulla razionalizzazione del dissidio fra bene e male.
Alida Valli e Joan Bennett, anziane signore del cinema che fu, ostentano una sinistra cortesia e un matriarcato infernale che le apparenta a molte figure di cattive disneyane, da Malefica a Crudelia. Ed è in questa ripartizione quasi "cartoonistica" fra le componenti della fabula che si origina la gratuità degli eventi, il loro succedersi irrelato, lo stesso rimescolamento degli ormai classici topoi argentiani.
I dodici minuti finali (il girovagare di Jessica Harper nella scuola ormai infestata dalle streghe) sono il manifesto di un cinema che non teme più nulla. Non sembra possibile alcuna consequenzialità: tanto che la distribuzione in Giappone di Profondo rosso, dopo il successo di Suspiria, come Suspiria Part 2, funge da in-consapevole prova di equipotenza fra due fasi che pure abbiamo visto articolarsi così diversamente, sotto il profilo della diegesi, nell'universo dell'autore.
Roberto Pugliese, Dario Argento, Il Castoro cinema, 11-12/1986

Critica (2):Al contrario di altri paesi, quali ad esempio gli Stati Uniti, l'Italia non ha una tradizione nazionale di letteratura horror. Ciò nonostante nel nostro paese non mancano registi che si sono cimentati con questo genere, e anche nella cinematografia italiana possono rintracciarsi begli esempi di case abitate da insospettabili assassini. Alcuni di questi si trovano certamente in Profondo Rosso (1975, di Dario Argento), nel quale il protagonista, Mark, seguendo le tracce di un assassino che uccide le proprie vittime guarda caso a coltellate, si imbatte in diverse abitazioni tutte poco rassicuranti. A partire dal teatro del primo omicidio, l'appartamento della chiaroveggente Elga nel centro di Roma, con i suoi corridoi ricoperti da inquietanti dipinti uno dei quali, sebbene inesistente, sarà la chiave per risolvere l'enigma. Si passa poi alle abitazioni delle successive vittime tutte brutalmente uccise nell'intimità delle proprie case, una addirittura ustionata a morte con l'acqua bollente proprio nella stanza da bagno di hitchcockiana memoria. Le soggettive dell'assassino che attraversa camere e corridoi avvicinandosi alle sue prede trasmettono allo spettatore un terribile, reale senso di angoscia. Ma il luogo più spaventoso del film è sicuramente una casa abbandonata, circondata da una fitta vegetazione esotica e conosciuta nel folklore popolare come "la villa del bambino urlante". Una tragedia la macchia: l'ultimo inquilino è morto cadendo dalla finestra. Ma ben altro nascondono le vecchie mura. Su una parete, coperto da uno strato di intonaco, c'e' un disegno che ritrae la scena di un assassinio; passi misteriosi risuonano prima che un vetro colpisca Mark precipitando dall'alto. La scoperta più raccapricciante è però quella di una stanza murata al cui interno, ancora seduto su una sedia come la signora Bates di Psycho, e circondato da giocattoli e arredi natalizi, c'è un cadavere mummificato. La verità riguarda ancora una volta una madre assassina, vera questa volta, che uccide le proprie vittime sempre ricreando alcune modalità del primo omicidio da lei commesso. Del resto questa non è l'unica pellicola in cui Dario Argento tratti di edifici spaventosi: in Suspiria (1977) siamo alle prese con un palazzo infestato che ospita un'accademia di Friburgo, mentre in Inferno (1980) il regista ci propone nientemeno che tre case maledette - Tenebrarum, Lachrimarum, Suspirorum - site a New York, Roma e di nuovo a Friburgo. Passa invece solo un anno da Profondo Rosso, e Pupi Avati aggiunge un altro tassello al panorama delle empie case nostrane. Fra l'altro, anche ne La casa dalle finestre che ridono (1976) troviamo più di un "Brutto Posto". Quella del titolo è una casupola diroccata immersa nella campagna ferrarese. Era l'abitazione di un pittore chiamato Legnani, e deve il suo nome alle grandi bocche dalle labbra rosse dipinte intorno e sopra alle imposte. L'altro posto inquietante è invece la vecchia e isolata villa in cui trova alloggio il protagonista (Lino Capolicchio), un restauratore chiamato nel vicino paese per risistemare un affresco del summenzionato pittore, e che è abitata soltanto da un'anziana paralitica costretta a letto. Fra le due case non si sa davvero quale sia la più spaventosa. La prima è stata in passato teatro degli efferati delitti delle sorelle Legnani, e nasconde ancora sotto la terra del cortile gli scheletri dei malcapitati che erano stati da loro prescelti per fare da modelli al loro fratello, "pittore d'agonie". La vecchia villa del resto, con le tante stanze buie che risuonano tanto per cambiare di scricchiolii e altri misteriosi rumori, riserva davvero agghiaccianti sorprese: le due donne conducono ancora nell'ampia soffitta i loro riti magici e omicidi e qui conservano da vent'anni in un armadio il cadavere del fratello immerso in formalina.
Elisa Tisselli, Dario Argento e Pupi Avati: case d'Italia

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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