Cielo sopra Berlino (Il) - Der Himmel über Berlin
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Regia: | Wenders Wim |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Wim Wenders, con la collaborazione di Peter Handke; fotografia: Henry Alekan; montaggio: Peter Przygodda; suono: Jean-Paul Mugel, Axel Arft; musica: Jurgen Knieper; interpreti: Bruno Ganz (Damiel), Solveig Dommartin (Marion), Otto Sander (Cassiel), Curt Bois (Omero), Peter Falk (se stesso); produzione: Argos Film - Parigi, Road Movies – Berlino; distribuzione: Academy; origine: Repubblica Federale Tedesca - Francia, 1987; durata: 126’. |
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Trama: | Dalla fine della seconda guerra mondiale, due angeli - Damiel e Cassiel - svolgono la missione loro assegnata, aggirandosi nella Berlino odierna, ascoltando i pensieri lieti o tristi delle persone incontrate, che essi vedono solo in bianco e nero. Ma Damiel, più partecipe dell'altro alle ansie degli umani, come alle loro infinite piccole gioie, sente fortemente l'attrazione esercitata dalla città (ancora sfregiata da enormi cicatrici) e dalla sua stessa gente. Un giorno vede in discoteca Marion, una bellissima trapezista licenziata dal circo in cui lavora e sconvolta dalla imminente solitudine, oltre che da presagi di morte, e se ne innamora. Il posto di Damiel è ora accanto a lei, in un ruolo insolito, ma prudente e discreto nella sua tenerezza. Lo intuirà ad un dato momento Peter Falk, un attore che con una troupe gira un film sulla Germania nazista, il quale molto tempo prima era lui pure un angelo. Ora è solo un ex che ha operato una scelta precisa, pronto a fare il Bene, amico degli esseri umani, pieno di speranza e fiducia, così come lo sono molti ex-angeli presenti ovunque nel nostro mondo, dei quali noi raramente avvertiamo la presenza e l'aiuto concreto. Anche Damiel fa la sua scelta: rinuncia all'immortalità e nasce uomo, ai piedi del muro di Berlino, optando per l'amore, allo scopo di vivere con Marion (che ora egli vede a colori e che ha finalmente incontrato colui che attendeva dalla vita) le gioie e le sofferenze di tutti gli umani. |
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Critica (1): | Nell'ultima parte di Paris Texas Wenders aveva già costruito una separazione cinematografica dal suolo americano; il groviglio di miti che ricopriva quel territorio immaginario svaniva nella trasformazione della messa in scena. Non era tanto il lungo racconto tra l'uomo e la donna a sancire il venir meno dell'illusione e anche della nostalgia, quanto l'imporsi di un movimento cinematografico, che via via annullava la profondità, fisica e ideologica, degli spazi del sogno e della scoperta. Il paese che aveva alimentato la tensione tra una cultura del disincanto (la vecchia Europa della rivoluzione mancata, della sintesi impossibile tra decadenza e alternativa) e una ricerca del diverso (il rock'n'roll, la sfida on the road, la spettacolarità della fuga) riproduceva ormai i tratti di una finzione finalmente consegnata agli archivi della memoria. Il passato si rivelava come tale, una chimera che aveva consumato la sua legittimità storica, il suo potere di fascinazione e in questo modo apriva ad un viaggio di ritorno. Quei due volti, che si scambiavano i loro riflessi, fino a sovrapporsi in una perdita di identità proprio come immagini, come segni di un presunto ritrovamento, negato dall'evidenza di una storia comunque ripiegata su se stessa, quei volti ponevano fine ad una geometria del movimento, ad un tempo che rinnovava le possibilità. Nel luogo dove non esiste più l'avventura, dove si paga per assistere alla propria impotenza, dove il ricordo conferma la delusione del presente, il cinema stesso proietta la lontananza; il vetro che divide i due esseri diventa alternatamente lo schermo che spegne l'idea stessa del futuro, della speranza e dissolve le strade del Grande Paese, nelle cui immagini c'era comunque la fiducia dell'ingenuità. Anche i volti non sono altro che riflessi, dietro i quali scorrono storie che non significano nulla, perché ormai non hanno alcun potere sul tempo. Wenders era arrivato come ad un limite estremo, ad una rottura cinematografica; il viaggio era terminato veramente. Il suo stesso modo di fare cinema doveva accettare il rischio di un silenzio espressivo, per mancanza di senso. Non era sufficiente tornare indietro, nella terra, nelle città abbandonate, nei luoghi che avevano fatto nascere il desiderio di un altrove, che avevano mosso l'immaginario con tutta la verità della loro insufficienza. Bisognava trovare uno sguardo sulle cose che non fosse ulteriormente falsificato dalle sovrastrutture della visione, ma che aprisse a nuove interrogazioni, attraverso un rapporto disincantato con l'oggetto e che lasciasse a quest'ultimo la «libertà» di essere anche attraverso il simbolo. Tutto quanto era stato consumato nella trascendenza di un apparato rappresentativo che vanificava, fino alla mistificazione, la stessa verosimiglianza, doveva riapparire, ma con tutta la realtà della sua indipendenza, della sua capacità di produrre segni. Così pure il soggetto poteva ritrovare la sua distanza e riprendere la riflessione sul proprio sguardo, riconquistando la propria trascendentalità e quindi riaprirsi alla scoperta, alla sorpresa. Wenders lascia un'idea, una visione dell'America, che va a far parte di un repertorio, di una storia conclusa, oggettivamente e soggettivamente, forse con la consapevolezza di una saturazione semantica, di una ridondanza che avrebbero potuto comprimere le sue energie d'autore. Egli comunque non realizza un semplice ritorno a casa; aggira la regressione mettendo in atto una visione sul mondo che, dopo la rinuncia, si interroga sulle realtà, sulle forme del presente riconsegnato ai suoi colori, alle sue tensioni, alle sue immagini. Wenders approda a Berlino, nel cuore della Vecchia Europa; una città paradossale, la cui divisione è parte integrante della sua vitalità, una città che mostra ancora di ricordare una tragedia ovunque dimenticata, un luogo che, quasi con esasperazione, vuole essere una meraviglia per gli stranieri che vi giungono o vi vengono condotti. La sua continua ricostruzione non impedisce che il visitatore si attenda di ritrovare, ad ogni angolo, le tracce di un tempo passato, miracolosamente risparmiate dalla furia degli eventi. Dove un muro eretto dall'intelligenza dell'uomo muove infiniti pensieri, tranne quello della sua possibile demolizione. Intorno a questa ferita e a questa frontiera, in questa terra di nessuno, la macchina da presa di Wenders si aggira per trovare storie, momenti di rappresentazione. Il cielo sopra Berlino inizia con l'immagine di una mano che scrive il testo di una poesia che parla di bambini; poi si vede il cielo, un occhio che guarda, una bambina che vede l'angelo, le rovine della chiesa, lasciate lì forse con la malafede di chi nasconde la propria violenza dietro la lezione del passato, un appartamento, un balcone, un giardinetto. Quindi la biblioteca, dove si ritrovano gli angeli, quasi a proteggere quelle menti che si nutrono di parole, e insieme di esperienze. È già un percorso tra gli elementi della cultura occidentale: la scrittura, lo sguardo, la memoria, l'immaginazione, il libro, il limite, l'altro, il sapere... È una visione dall'alto, una soggettiva dello spirito, ma l'angelo sente il bisogno di partecipare alla finitezza, alle circostanze che esauriscono l'esistenza degli individui. Egli di quelle cose percepisce la forma (il bianco e nero idealizza il referente, lo tratteggia, lo intensifica, lo sublima nel rinforzarne l'espressione) e la cattura, ma l'oggetto rimane, per essere toccato, per essere spostato, per essere la causa di un'azione, e quindi prendere parte alla gioia, al dolore. Gli angeli sono tristi perché di fronte a loro c'è un enorme schermo, che restituisce uno spettacolo di cose incomprensibili, ma che costruiscono la presenza di una persona: i gesti di ogni giorno, i desideri, le delusioni, le aspettative, una tazza di caffè. L'angelo è stanco della sua immortalità e della sua lontananza; nessuno lo può vedere (tranne i bambini, ma la loro è solo un'infinita curiosità), nessuno lo può toccare; egli desidera abitare tra coloro che ogni giorno correggono la propria conoscenza e sperano che almeno un sogno possa realizzarsi. La biblioteca è come un grande magazzino che raccoglie le infinite occasioni della specie umana per giungere all'autocoscienza, ma vi domina il vuoto, la morte quando non ci sono lettori che, attualizzando i tentativi trascorsi, leggono le ansie, gli «eroismi», le cadute di coloro che li hanno preceduti e, comunque, con loro, costruiscono il futuro della stirpe; gli angeli si ritrovano lì, come a convincersi della loro sconfitta, della loro inutilità. Non possono fare nulla per l'uomo che ha deciso di lanciarsi nel vuoto o per aiutare il vecchio che si aggira nei luoghi dove un tempo c'era la sua casa, la sua città, i suoi percorsi, le sue abitudini e dove ora non esiste più niente, un terreno che vedrà sorgere ulteriori prove della modernità. Come la studentessa che si prostituisce, non più vittima di una condizione sociale, ma naturale prodotto di una realtà che accetta qualsiasi prestazione, qualsiasi scambio. La città è un enorme congegno dove le persone possono trovare infinite occasioni per vivere e per morire, dove qualcuno può sempre sostituire chi vien meno e trovare lo spazio per produrre la propria originalità, che facilmente verrà inghiottita dalla potenza del sistema. In fondo gli angeli sono esseri senz'anima; essi non conoscono la contaminazione che ormai avvolge i gesti di ogni giorno. Probabilmente sono l'incarnazione di speranze, che appartenevano a persone morte da tempo, da lungo tempo, le quali credevano, allora, ad un futuro felice, al trionfo della luce. Perciò ora si aggirano attoniti, pensierosi, increduli di fronte ad uno spettacolo che non capiscono e che allo stesso tempo li trattiene dentro la loro impotenza. Nel loro sguardo si riflette una cultura incapace di spiegare le molteplici variazioni delle risposte individuali, la necessità dei gesti, delle parole. Chi, tra loro, sceglie di rinunciare per sempre alla propria natura, si veste di colori vivaci, di pessimo gusto, si fa subito imbrogliare, ma con gioia, e va alla ricerca di un incontro che forse potrà ancora giustificare quella cultura della speranza, del sogno, della moralità. È di una bellezza inquietante la dissolvenza che, dall'interno della macchina dove siede l'angelo trapassa nell'interno di un'altra macchina che sta attraversando la città distrutta dai bombardamenti, dove uomini comuni sono diventati improvvisamente testimoni di una catastrofe provocata da esseri simili a loro, nel corpo e nello spirito. Che di altri corpi hanno fatto mucchi, ora mossi dalle scavatrici, come ingombri, per essere ricoperti dalla terra che avrebbe potuto sostenere destini diversi. Qui l'angelo sembra non comprendere: appollaiato sulla sua immagine in metallo non vede che i predicatori di idee universali, di categorie, hanno soffocato nel sangue le classi che in quella universalità non si riconoscevano. L'angelo può penetrare oltre il muro, non visto, ma il suo movimento non determina alcuna storia, alcuna violenza; tutto resta come prima, nessuno si è accorto di nulla.
Wenders esce dall'America, ritorna in una patria martoriata dal passato, sbigottita dal presente, impossibilitata a pensare il futuro; in questo modo egli rovescia la comoda supposizione del rientro. Egli vuole che ogni piccola cosa, ogni immagine esprima il disagio, la difficoltà, l'inevitabile fatica che accompagna l'essere al mondo, l'essere per l'altro. Anche nel piccolo circo si sopravvive, mentre i bambini guardano e si divertono; il volo della trapezista è un'aspirazione di armonia in una scatola chiusa. Alla fine tutti si lasciano, ognuno con la propria peregrinazione e con la propria solitudine; anche la donna, che aveva riempito l'immagine con la bellezza del suo corpo, si ritrova sola, in mezzo alla pista, allo scoperto, senza un luogo sicuro dove andare. Quando trova un compagno, fa un lungo discorso, ma quelle parole affascinanti sono ancora un progetto, una possibilità, un mucchio di domande.
Ne Il cielo sopra Berlino c'è un ex-angelo che ha deciso di divertirsi facendo l'attore, è portatore di una saggezza pratica, gode di una buona reputazione tra gli uomini per le sue capacità di risolvere i casi più difficili, sa gustare i piccoli piaceri dalla vita, ha un fare paterno con coloro che si rivolgono a lui per avere consigli su come arrangiarsi, ha lo sguardo furbo di chi ha visto molto e capito: il tenente Colombo. Una figura della finzione diventa una sorta di presenza reale, conservando i propri connotati, quasi a colmare un vuoto di personaggi, una carenza di opportunità. Se da una parte Peter Falk rimane un oggetto cinematografico, una figura che sostiene narrativamente la presenza del cinema come momento di ulteriore riflessione, dall'altra egli propone una positività che si esprime semplicemente nella particolare forma di vita; egli è un naufrago disincantato, che lavora coscientemente con il travestimento, che gioca con gli oggetti e con la loro rappresentatività (come nella sequenza dei cappelli), che si ferma ad un chiosco e parla di cose concrete. È colui che è sceso dal cielo in senso letterale ed ora possiede la conoscenza, accompagnata da quel sorriso sornione che ammicca alla sua ambiguità di personaggio riconoscibile. Dietro di lui si muove la macchina del cinema, si costruisce un film, un noir ambientato nel periodo del nazismo, in una scenografia tarkovskiana fatta di sguardi, di detriti, di specchi d'acqua. Il cinema americano riaffiora, ma è quello classico, «puro», che sapeva costruire storie meravigliose, che aveva restituito senso alla tragedia, al melodramma, all'avventura, che aveva inventato le atmosfere del poliziesco, del western, della commedia, che, attraverso le storie, la messa in scena, aveva creato le emozioni ed era riuscito ad essere dolce e spietato, ricostruendo tante passioni e tante crudeltà. Quel cinema non conosceva limiti all'invenzione, poteva raccontare qualsiasi cosa, senza problemi di spazio e di tempo; Wenders sembra volerlo ricordare, riportarlo alla luce, anche solo per indicare la ripetitività dell'oggi, lo svuotamento simbolico, la mancanza di intrighi. Il cielo sopra Berlino, come del resto tutto il cinema di Wenders, traduce la ricerca di un linguaggio che vuole ancora porsi come una delle interpretazioni del concreto, attraverso l'intensificazione dei propri elementi espressivi, attraverso un rapporto appassionato con le contraddizioni del mondo.
Angelo Signorelli, Cineforum n. 272, 3/1988 |
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