Mio più caro nemico (il) - Mein Liebster Feind - Kinski
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Regia: | Herzog Werner |
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Cast e credits: |
Diretto e narrato da: Werner Herzog; fotografia: Peter Zeitlinger; suono: Eric Spitzer; montaggio: Joe Bini; continuity: Anja Schmidt-Zäringer; musica: Popol Vuh; con la partecipazione di: Claudia Cardinale, Eva Mattes, Beat Presser, Guillermo Rios, Andrés Vicente, Justo Gonzales, Benino Moreno Plácido, Baron v.d. Recke; produttore: Lucki Stipetic; distribuzione: Vitagraph; origine: Germania, 1999; durata: 95’. |
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Trama: | Il regista tedesco rende omaggio al suo attore-feticcio. |
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Critica (1): | (...) Da più di trent’anni a questa parte Herzog ha saputo imprimere un segno profondo nella storia del cinema. (...) La sua originale poetica, basata su un’intensa, sofferta partecipazione sia emotiva che fisica alla materia del racconto, ha colmato di meraviglia e di sbalordita ammirazione gli occhi di tutti, e i suoi film, vissuti innanzitutto come un’impresa rischiosa, come una sfida (con se stesso, con la natura – avvertita in termini romanticamente spaventosi – e quindi con gli altri, col mondo) ai limiti dell’immaginabile, hanno cambiato il nostro modo di immaginare la realtà e di vivere le idee fantasiose, i sogni – talvolta perfino gli incubi più cupi – che popolano la nostra vita.
Il mio più caro nemico è un appassionato ritratto dell’attore che più di ogni altro è riuscito a incarnare con la propria irruenza magnetica le visioni di Herzog: Klaus Kinski. È limitativo definire il film “documentario”: si tratta piuttosto del racconto di un incontro in qualche modo fatale e di un lungo legame ricco di affinità, interessi in comune, amicizia, aggressioni, complicità, rabbia, conflitti, rancori feroci, segreti desideri – confessati qui amabilmente dallo stesso regista – di uccidersi a vicenda. Kinski, morto nel 1991 in una sua villa in California a soli 65 anni («Si è letteralmente spento, dopo essersi consumato a lungo», commenta Herzog), è entrato presto nella vita dell’autore: i due sono stati coinquilini a metà degli anni ’50, quando il futuro regista aveva tredici anni (e viveva con la madre in condizioni molto precarie) e l’interprete di tanti B-movies quasi trenta, a Berlino nella stessa pensione, le cui suppellettili e i cui arredi l’attore – allora alle prime, rivelatrici esperienze sul palcoscenico, impegnato a interpretare diversi ruoli drammatici in rappresentazioni di testi classici – era riuscito a saccheggiare e distruggere in soli due giorni con la sua furia forsennata. Lo stesso spirito irruente esercitato in tutta la sua esistenza è messo in evidenza anche dal cinema: nei film diretti da Douglas Sirk (Tempo di vivere, 1958), Sergio Leone (Per qualche dollaro in più, 1965), David Lean (Il Dottor Zivago, 1966) e da registi di genere o di mestiere, per cui gli era richiesto di dar vita a personaggi secondari crudeli o agitati (e lui accettava di buon grado, vista la sua inclinazione, l’istinto eccentrico, i lauti compensi e la considerazione che «far cinema è sempre meglio che pulire i cessi», come era solito dire), e quindi in quelli interpretati per Herzog, dove ha avuto modo di esprimere il meglio di se stesso in condizioni limite, sotto la guida rigorosa, esigente del regista tedesco: Aguirre, Furore di Dio (1972), Nosferatu, principe della notte e Woyzeck (1978), Fitzcarraldo (1982) e Cobra verde (1987).
Le immagini potenti di questi film (diretti con totale dedizione a ogni singolo progetto, una sensibilità visiva davvero unica nei confronti dell’ambiente e sotto la spinta di un intenso, irrefrenabile impulso morale dai connotati mistico-rituali) vengono fatte rivivere qui grazie sia al commento a posteriori dell’autore e di altre persone (attori, comparse, tecnici) impegnate a suo tempo nella lavorazione (confessa ironicamente Herzog, rivedendo la nave che sale sulla montagna in Fitzcarraldo: «È sicuramente una metafora di qualcosa, ma non so di che cosa»), sia alla giustapposizione di diverse sequenze girate recentemente nei medesimi luoghi in cui i due amici-nemici per la pelle – due personalità tanto spiccate da non poter evitare d’entrare in rotta di collisione – si trovarono uniti in progetti considerati folli dai più («Un’accusa rivolta a Kinski di essere “pazzo”» sottolinea oggi a questo proposito il regista «si giustificava soltanto da un punto di vista piccolo borghese e meschino. Io sono convinto che i “pazzi” fossero gli altri»). Emergono così testimonianze dirette di un rapporto vivo, conflittuale, mai pacificato di Kinski con Herzog e con le maestranze impegnate sui diversi set. Emblematiche risultano a questo proposito le rivelazioni sulle reciproche minacce di morte fra i due, sulle ferite inferte a una comparsa e sulla silenziosa rivolta degli indios contro Kinski nel corso della lunga, faticosa lavorazione di Fitzcarraldo, durata più di due anni fra incidenti, defezioni e folli propositi portati a termine nonostante avversità di ogni tipo e l’incredulità di tutti (sembra che una notte una delegazione di indios si sia recata da Herzog proponendogli in modo determinato una soluzione estrema per i problemi creati dall’osticità del carattere del suo attore odiato-prediletto: «Se vuoi, te lo uccidiamo noi!»). Alcune riprese non sono del tutto inedite (come ad esempio l’ultima, splendida sequenza in cui Kinski in primo piano si abbandona con meraviglia estatica alla seduzione di una farfalla tropicale che gli danza attorno e si ferma fra le sue mani), ma acquistano qui, combinate alle altre (il passaggio dalla montagna nella nebbia in Amazzonia alle stesse immagini di Aguirre o, ancora a proposito di Aguirre, i movimenti ieratico-istintivi sulla zattera invasa dalle scimmie) un sapore rinnovato, di autentica profondità.
Pierpaolo Loffreda, Cineforum n. 385, giugno 1999 |
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