Vedova allegra (La) - Merry Widow (The)
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Regia: | Lubitsch Ernst |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal testo teatrale di Henri Meilhac e dai libretti musicali di Victor Léon e Leo Stein; sceneggiatura: Ernest Vajda, Samson Raphaelson; fotografia: Oliver T. Marsh; musiche: Richard Rodgers; direzione musicale: Herbert Stothart; montaggio: Frances Marsh; scenografia: Cedric Gibbons; costumi: Adrian, Ali Hubert; interpreti: Maurice Chevalier (Conte Danilo), Jeanette MacDonald (Madame Sonia/Fifi), Edward Everett Horton (Popoff, l'ambasciatore), Una Merkel (Regina Dolores), George Barbier (Re Achmet), Minna Gombell (Marcelle), Ruth Channing (Lulu), Sterling Holloway (Mischka), Donald Meek (il valletto), Herman Bing (Zizipoff); produzione: Irving Thalberg, Ernst Lubitsch per Mgm e Paramount; origine: Usa, 1934; durata: 110’. |
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Trama: | Quando Madame Sonia, la ricchissima proprietaria di quasi tutti i latifondi e gli immobili di un piccolo stato rimane vedova, la situazione inizia a preoccupare il Reggente. Poiché è ancora giovane e bella, Sonia potrebbe risposarsi e allora il patrimonio passerebbe in mani straniere. L'unica soluzione è che il nuovo marito sia un 'uomo di fiducia' del Reggente. La scelta ricade su Danilo, un giovane ufficiale della Guardia a cui viene ordinato di partire immediatamente per Parigi, per ritrovare Sonia. Una sera, in un locale notturno, i due si incontrano senza riconoscersi e si innamorano l'uno dell'altra. Al momento delle presentazioni formali, il piano del Reggente sembra naufragare, ma... |
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Critica (1): | Era difficile, con un precedente come quello de La vedova allegra di Stroheim del 1925, rifare a cinema la celebre operetta senza lasciarsi tentare dall'idea dell'imitazione. E, in effetti, alcuni elementi del primo film vengono conservati da Lubitsch nella nuova versione, come ad esempio i personaggi del re e della regina del reame che qui si chiama Marshovia, anche se in una chiave più burlesca. Ma se Stroheim aveva messo in evidenza l'amarezza decadente della storia, Lubitsch ne fa soprattutto un'operetta, secondo il gusto che più gli è congeniale, in cui affiora una problematica spesso presente nella sua opera, e cioè il rapporto tra il desiderio e il fenomeno amoroso, concepito come una specie di "fissazione" anomala del desiderio, che si rafforza di fronte agli ostacoli. Ma proprio mentre cerca di stabilire una distinzione tra amore e desiderio, egli mostra che inizialmente innamorarsi e desiderare si identificano, e che amare non è nemmeno desiderare più intensamente ma, a volte, incontrare una maggiore resistenza al desiderio. Altri film di Lubitsch vanno certamente più lontano e spingono questa analisi a delle conclusioni crudeli alle quali il genere di questo film non è adatto. Ciò nonostante alcune sequenze del film lasciano affiorare un leggero gusto di tragicità, come, ad esempio, nel momento in cui Sonia, travestita da cocotte in un salottino di Maxime, viene a sapere da Danilo come lui si è innamorato di lei. Ciò che smorza l'euforia dello spettacolo non è più quindi, come in Stroheim, il potere di una fatalità malefica, ma l'insidioso disappunto che è connaturato ai sentimenti umani. "Anche il lieto fine, frutto com'è di un'imposizione esterna più che di una scelta autonoma – scrive Guido Fink – appare perlomeno equivoco, tutt'altro che trionfalistico: l'amore viene "comandato", lo happy end fornito letteralmente su un piatto d'oro; ma forse non è un caso se entrambi i personaggi a questo punto sono stati rinchiusi in prigione. (...) La stessa sensualità che pervade il film ha qualcosa di sazio e un po' sfatto, vagamente preraffaellita. È lo sguardo di un Lubitsch maturo, di un Lubitsch quarantaduenne disincantato che non si illude più sulla consistenza delle sue costruzioni fantastiche, che si rassegna a vederle materializzate solo sullo spazio ristretto dello schermo, e per la breve durata di una proiezione cinematografica" .
Esther Carla de Miro d’Ajeta, The Lubitsch Touch – Il periodo americano, a cura di Filmstudio 80-Goethe Institut-Cineclub Lumière Genova, 1990 |
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Critica (2): | Non si scopre nulla affermando che The Merry Widow (La vedova allegra, 1934), fotografato in bianco e nero da Oliver Marsh, lo stesso operatore della precedente Vedova M.G.M. firmata da Stroheim (1925), è uno dei piú splendidi film a colori della storia del cinema: forse solo Dreyer ha saputo dare al bianco e nero altrettanta intensità cromatica. Prima di tutto, c'è la «grana» inimitabile e pastosa della fotografia, che dà straordinario risalto agli incredibili décors di Cedric Gibbons; poi, ci sono le gags legate appunto al contrasto dei colori, in una gamma di opposizioni binarie che è ben lubitschiana: Sonia, all'inizio, che si toglie il velo nero, aiutata da una cameriera che lo ripone in un armadio accanto a centinaia di altri veli neri; lo stesso con l'abito nero, le scarpe nere, le calze nere, finché, in un nero negligé, ella intona la romanza «Vilja» con un cagnolino nero che l'ascolta accovacciato su un cuscino dello stesso colore; ma poco dopo («C'è un limite a tutte le vedove!») la vediamo sostituire il velo con un cappello bianco, le gramaglie con abiti nuovi e candidi, il cagnolino con un esemplare identico ma bianchissimo. La gag, poi ripresa fra gli altri da Frank Tashlin, va al di là dell'opposizione accennata, conosce ogni sorta di mediazioni maliziose: la bottiglietta d'inchiostro nero che si prosciuga, a furia di scrivere, la sera del primo incontro fra Sonia e Danilo, su pagine e pagine di diario che fino a quel momento sono rimaste vertiginosamente bianche (« Sono sempre vedova. N.N. Sempre piú vedova »); la grande scena del ballo all'ambasciata di Marshovia, dove un pavimento giustamente definito degno di Matisse da Giulio Cesare Castello ospita e incornicia, inquadrato dall'alto, la ridda delle coppie travolte dal valzer; e il bianco dei vestiti delle dame, il nero dei frac, con qualche gradazione sapientemente inserita, disegna uno stupefacente caleidoscopio sulle piastrelle bianche e nere del salone. Ma c'è di piú: il velo nero di Sonia, la Hannah Glawari di Lehàr, è elemento al tempo stesso simbolico e cromatico, sembra alludere a un segreto inviolato e invitare nel contempo alla violazione. A ben vedere, tutta la vicenda immaginata per Lubitsch da E. Vajda e S. Raphaelson sulle tracce, assai vaghe, del libretto originale di Léon e Stein, poggia sul motivo dell'occultamento e del palesamento, che si potrebbero anche identificare con i motivi mitici della morte e della resurrezione. (...)
Soltanto in superficie la Vedova di Lubitsch somiglia al suo primo esempio sonoro di operetta filmata, The Love Parade, pur basato sulla medesima coppia di attori-cantanti, Chevalier e la MacDonald (del resto, almeno secondo le intenzioni del produttore Thalberg, l'interprete di Sonia avrebbe dovuto essere Grace Moore). Cinque anni prima, nel '29, Lubitsch poteva ancora istituire il rapporto con il mondo floreale di Sylvania su un piano ironico e malizioso, e senza dimenticare la funzione di Wall Street, necessaria proprio per la sopravvivenza di quel mondo; la Marshovia di The Merry Widow è invece un universo perfettamente cihiuso in se stesso, la rivisitazione nostalgica di un regno utopico, non meno idealizzato e irrealizzabile dello Shangri-la di cui favoleggiavano in quegli anni tormentati James Hilton e Frank Capra. (...)
Guido Fink, Ernst Lubitsch, Il Castoro cinema, 5/1977 |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
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