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Sicilia!


Regia:Huillet Danièle, Straub Jean-Marie

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Danièle Huillet e Jean-Marie Straub liberametne tratto da "Conversazioni in Sicilia" di Elio Vittorini; fotografia: William Lubtchansky; fotografia: William Lubtchansky; suono: Jean-Pierre Duret; mixaggio: Louis Hochet; interpreti: Gianni Buscarino (il figlio), Angela Nugara (la madre), Carmelo Maddio (venditore di arance), Angela Durantini (moglie del venditore di arance), Giovanni Interlandi (il viaggiatore), Giuseppe Bontà (il viaggiatore), Ignazio Trombello (poliziotto), Simone Nucatola (poliziotto), Vittorio Vigneri (arrotino); produzione: Straub-Huillet/ALIA Film/Pierre Grise Productions; distribuzione: Istituto Luce; origine: Italia - Francia, 1998; durata: 66’.

Trama:Un siciliano ritorna alla sua isola dopo aver passato quindici anni nell'Italia del Nord e incontra la propria madre. L'uomo fa alla madre molte domande e cerca di ritrovare luoghi, personaggi, rumori e sensazioni di quando era bambino, per capire sé stesso, la sua infanzia e il suo paese d'origine.

Critica (1):La visione di un film di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub è sempre un’esperienza che coinvolge nel profondo, che apre all’intensità e alla ricchezza del linguaggio. Ogni film dei due autori ci riporta ad una sorta di purezza originaria del cinematografo, dopo che incrostazioni di ogni genere ne hanno svilito e consumato la peculiarità espressiva. L’immagine ritrova così una grande forza significante e parla allo spettatore attraverso la composizione, la luce, il suono.
Sicilia! è liberamente tratto dal libro di Elio Vittorini (1908-1966) Conversazioni in Sicilia, un romanzo pubblicato in quattro episodi sulla rivista Letteratura (aprile 1938-aprile 1939) e rieditato nel 1941 con il titolo Nome e lacrime per sfuggire alla censura fascista. Huillet e Straub derivano dal testo letterario una costellazione di dialoghi e situazioni, creando sullo schermo una successione di tableaux vivants che raccontano la Sicilia e contemporaneamente lavorano la parola e lo sguardo. Il film inizia con il totale del porto e un uomo in primo piano di spalle; terra di emigrazione, la Sicilia, terra di povertà. L’immagine è già eloquente: l’uomo di fronte al mare, il molo sulla destra, all’orizzonte la città, il punto prospettico fuori campo, sulla destra; in presa diretta i rumori del vento e del mare, i versi dei gabbiani. C’è già molto in questa immagine: la necessità del viaggio in terre lontane, la fatica di chi rimane per strappare al mare e alla terra la sopravvivenza di sé e dei suoi cari, il ritorno a casa dopo anni di lontananza, l’incertezza della partenza e l’incontro dopo tanto tempo con un mondo che non è più quello di una volta. L’uomo che volta la schiena alla macchina è una figura-sintesi delle vicende di un intero paese; staccata dal resto dell’inquadratura ne abbraccia il senso e lo restituisce fuori, all’occhio della macchina da presa e dello spettatore. Il cinema legge la realtà e la interpreta; la macchina da presa è fissa, la ripresa lunga e interrogativa.
L’immagine si dilata ed acquista una dimensione mentale; si riempie di storia e si fa evocativa. Il film è girato completamente in bianco e nero, quello “assoluto” dei grandi maestri del passato, denso di geometrie e di significati. Il racconto visivo emerge via via dalla realtà che viene inquadrata, la quale entra nello spettatore con tutto il passato depositatosi nelle forme, nei contorni, nei profili. I personaggi, i luoghi, gli oggetti sono come in posa davanti alla macchina da presa che li ritrae, li plasma e li concretizza nella costruzione del chiaroscuro. Così gli oggetti sulla tavola, poche cose semplici davanti ad una parete completamente bianca, diventano delle vere e proprie nature morte; attrezzi di esistenza, bloccati nel tempo, ma dotati della grandiosità del vissuto. Contengono i gesti del lavoro, dell’ospitalità, dell’accoglienza, della convivialità, ma anche quelli della sofferenza, della separazione, della lontananza.
Il figlio e la madre si ritrovano dopo tanto tempo, sono seduti alla tavola appoggiata contro una parete nuda, dove le loro ombre si disegnano nette. Comincia tra loro una conversazione che poi si trasforma in un confronto aspro: c’è di mezzo una storia di tradimenti. Prima è il padre ad essere messo sotto accusa, ma anche la donna è costretta a confessare le sue colpe, dietro le richieste incalzanti del figlio. Il tono è declamatorio, teatrale; il recitato è sovraccarico, le figure sono statiche, distanti, piazzate sulla scena e lì tenute ferme, con la macchina da presa che insiste sull’angolatura scelta. Quando il dialogo si fa serrato, il primo piano o la mezza figura mantengono l’autonomia dei personaggi: ognuno di loro non parla solo all’altro, ma è come se si rivolgesse a tutto il pubblico, come nel teatro greco. Le vicende dei due protagonisti vengono così a far parte dell’umanità intera. La parola esplode in tutta la sua intensità: c’è un crescendo che disegna allo sguardo il dramma. Il racconto diventa visibile, palpabile, persuasivo: i volti hanno la potenza e l’ambiguità della maschera.
Lo spazio stesso si trasforma in territorio dell’eloquenza. La sequenza dell’arrotino ci porta nel paese, nella strada, acciotolato, di fronte alla scalinata della chiesa. Una palma sullo sfondo. Sono luoghi del sud: i muri scrostati, fatiscenti, le pietre sconnesse, le architetture mescolate, le superfici assolate. Luoghi di incontro, di raduno, di conversazione, ma anche luoghi di faide, di assassini. L’uomo che parla all’arrotino è quasi di spalle; il dialogo tra i due è fatto di frasi e di nomi. È un dialogo d’onore. Il lavoro, le tariffe, le tasse, il profitto, il furto. Pochi soldi, ma son sufficienti per imbastirci sopra una teoria economica e un trattato sull’equanimità dello scambio. La questione è grossa: è cosa malvagia offendere il mondo, approfittare della benevolenza dell’altro per ingannarlo. Il mondo e tutto ciò che vi è di bello: luce, ombra, freddo, caldo, infanzia, giovinezza, vecchiaia, uomini, donne, bambini, memoria, fantasia, pane e vino, salsicce, latte uccelli, alberi, neve, malattia, guarigione, immortalità e resurrezione. Nomi che rimbombano sulla piazza vuota. E il cinema, che potrebbe essere tutte quelle cose, e anche i rumori e i suoni nell’aria, e tutto quello che c’è intorno, che non si vede. [...]
Angelo Signorelli, Cineforum n. 385, giugno 1999

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Jean-Marie / Danièle Straub / Huillet
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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