Ghost Dog - La via del Samurai - Ghost Dog
| | | | | | |
Regia: | Jarmusch Jim |
|
Cast e credits: |
Sceneggiatura: Jim Jarmusch; fotografia: Robby Müller; montaggio: Jay Rabinowitz; musiche: RZA; interpreti: Forest Whitaker (Ghost Dog), John Tormey (Louie), Cliff Gorman (Sonny Valerio), Frank Minucci (Big Angie), Richard Portnow (Handsome Frank), Tricia Vessey (Louise Vargo), Henry Silva (Ray Vargo), Victor Argo (Vinny), Isaach De Bankolé (Raymond), Gary Farmer ('Nessuno'), Frank Adonis (guardia del corpo di Valerio), Vinny Vella (Sammy the Snake), Tony Rigo (Tony), Jerry Sturiano (Lefty), Damon Whitaker (Giovane Ghost Dog), RZA (Samurai travestito), Camille Winbush (Pearline), Gene Ruffini (Consigliere), Joseph Rigano (Joe Rags), Alfred Nittoli (Al), Vince Viverito (Johnny Morini); produzione: Richard Guay, Jim Jarmusch; distribuzione: Bim; origine: Usa, 1999; durata: 116’. |
|
Trama: | Ghost Dog lavora di notte, mentre di giorno si dedica i suoi piccioni, alle pratiche Kung-Fu, allo yoga e alla meditazione, oppure siede in silenzio su una panchina del parco o scambia riflessioni esistenziali con un gelataio haitiano che non capisce una parola d’inglese, e riflessioni letterarie con una strana ragazzina di nome Pearline. Di notte armeggia con strumenti altamente tecnologici e gira in auto di grossa cilindrata, ascoltando la sua musica preferita dal lettore cd di bordo e indossando sempre dei guanti bianchi. Di giorno vive come un barbone e comunica tramite piccioni viaggiatori. Ma chi è, cosa fa, come si chiama in realtà Ghost Dog? Nessuno lo sa e mai un soprannome è sembrato più appropriato per uno che non ha né un telefono né, tantomeno, un indirizzo. Infatti abita in una fatiscente baracca, con voliera per piccioni e altarino buddista annessi, sul terrazzo di un palazzo abbandonato. Pure Vinny sa poco di lui. Sa soltanto che, quando ha bisogno del suo intervento, deve mandargli un messaggio tramite un piccione e che il lavoro commissionato è sempre eseguito perfettamente. Anche questa volta passa il contratto al suo esecutore di fiducia e tutto procede nel solito modo, senonché questa volta c’è una femme fatale di troppo. Da questo momento la tranquilla esistenza di Ghost e dell’anziano gruppo di italoamericani rotolerà inesorabilmente in un susseguirsi di eventi tanto drammatici quanto paradossali. |
|
Critica (1): | Sullo sfondo di una città contemporanea due tribù si affrontano. Due modi di vita, entrambi minoritari, si fanno la guerra. Da una parte il gruppo italoamericano: uomini inaciditi dagli anni e appesantiti dal potere. Dall’altra i nuovi guerrieri: i “samurai del colore”, fuoriusciti dai ghetti e costretti a vagare solitari. In realtà, nella metropoli l’unità della tribù sembra sfaldata. I malavitosi italiani, nonostante le numerose riunioni, i rituali di baci e abbracci, rivelano un’etica individualista. Tutti cercano di compiacere il capo, quando la sua «nipotina» rischia la vita, ma sognano di prenderne il posto alla prima occasione. Anche la gerarchia mafiosa – con il suo grottesco summit – è un puro pretesto per mettere in scena dei rapporti di forza tra individui. Queste stesse individualità sono il dato comune anche per i nuovi killer. Uomini invisibili e in fondo inesistenti. Fratelli di una comunità che ha perso i suoi luoghi d’incontro. La visione della comunità nera subisce un trattamento straniante: non è il gruppo ad emergere, semmai il suo contrario: una serie di individui. Solitari resistenti in lotta disperata contro un sistema omologante. Ghost Dog: the Way of Samurai è storia di minoranze. E ancor più del disincanto nel quale sono costrette a vivere. Questo disincanto, che a volte può essere confuso con lucido cinismo, quando invece si tratta di pura sopravvivenza, è già iniziato quando il film prende il via. È connaturato alla società. In fondo poco importa che il killer di colore si sia trovato di fronte ad un imprevisto, poco importa che egli abbia fatto la cosa giusta, scegliendo di non eliminare la giovane ragazza. Il patto di sangue tra boss e killer era comunque destinato a rompersi. Non tanto perché i nuovi sicari siano diversi dai loro predecessori italiani; ma perché lo scontro è la regola del gioco. C’è nell’ultimo, divertito film di Jim Jarmusch questa profonda, seria opposizione tra codici morali, che impongono azioni eroiche, d’altri tempi, e stato delle cose, che comporta un sofferente distacco dalle passioni della vita. Il grottesco che, di tanto in tanto, riempie questo spazio, non è che il risultato di uno sguardo umano rivolto ad una realtà abbandonata. Così l’immagine del grosso corpo di Forrest Whitaker impegnato in balletti stile samurai è a doppio taglio: divertente e dolorosa. La parabola di “Ghost Dog” – ragazzo salvato da un pestaggio da un gangster italiano e consacratosi alle arti marziali per ricambiare l’atto – è quello di un corpo deviato dal suo percorso naturale. Nelle azioni dell’implacabile killer pare sentire quella sofferta certezza di chi alla morte è predestinato. In questo personaggio, ma anche e soprattutto nella visione della realtà che lo circonda, sta la forza della rappresentazione di Jarmusch. Forza delle minoranze che arrivano ad escludere ogni presenza del mainstream (l’unica rappresentante di quella città «normale», che il film lascia nel fuoricampo, è la coppia, in ghingheri per una qualche serata speciale, denudata dal killer). In Ghost Dog, tutto è marginale. Tutto è underground: visione rimossa della realtà, perché caotica e priva di senso. Sia la città, inquadrata nei suoi quartieri più periferici e anonimi, spezzata in tanti luoghi similari, privata di una qualunque cartografia; sia i personaggi: un killer “cane sciolto”, un anziano luogotenente mafioso, una bambina di colore con la passione per la lettura, un gelataio caraibico. In una realtà così eterogenea, Jarmusch rifiuta ogni rassicurante immagine di melting pot. Gli individui restano separati: a muso duro si fanno la lotta, o cercano di comunicare nonostante differenze culturali e linguistiche. Se la trasmissione del messaggio resta difficile, viene in evidenza però la voglia di contatto. Anche se non si capiscono, le persone si parlano. Arrivano a giocare a scacchi. Come a dire: le tribù in fondo non sono così diverse. Dagli indiani con «i loro nomi del cazzo» ai nuovi gangsta, passando per i vecchi picciotti… nulla di nuovo sotto il sole. Attraverso un procedere ironico fino al paradosso, Jarmusch inserisce in filigrana la sua personale visione della storia degli Usa. Paese di minoranze, in cui ciò che conta non è la tribù vincente, ma quella che di volta in volta lascia il campo. Perché è nell’atto dell’abbandono che, come in un ultimo rigurgito, avviene la trasmissione dei valori. Vedere gli Stati Uniti è andare alla ricerca di questi passaggi di consegne. Un po’ come i libri che saltano di mano in mano nel corso dl film. In definitiva l’atmosfera da dopo diluvio in cui vivono i personaggi (tra i tanti c’è un ispanico che costruisce una barca sul tetto della sua casa) non è così facilmente situabile in una scansione temporale. Non è la fine millennio che ossessiona Jarmusch, ma la fine tout court. Perché gli Usa, da sempre, sono oltre il diluvio dell’oceano. Da sempre isolati. Anche oggi, dominatori del mondo. Il pensiero del “dopo” – che proviene direttamente dal lavoro iniziato in Dead Man – si precisa. Come nell’opera precedente l’evoluzione narrativa è ridotta all’osso, rimpiazzata da una purezza formale che qui accoglie ascendenze asiatiche. “Ghost Dog”, un altro revenant, non compie nessun tragitto, semplicemente, termina la sua parabola. Se la storia perde d’importanza, l’attenzione si sposta sulla costruzione di un’atmosfera, di un ambiente che definisce e amplifica le relazioni tra i personaggi. Dall’epica dell’ultimo western possibile si trascorre alla tragi-comica realtà urbana. Dai riff ipnotici e iterati di Neil Young si passa alla varietà della blackmusic di RZA, capace di inglobare reggae, hip-hop e reminiscenze jazz in una stessa partitura. Dall’estetica rarefatta da incisione ottocentesca del bianco e nero, Robbie Muller si sposta verso una realtà variopinta, in cui i colori sembrano aver perso la loro purezza iniziale. Il verde delle serrande lotta con la ruggine, il grigio della metropoli invade le abitazioni (soprattutto quelle borghesi degli italiani ormai insediati nella società). La pelle degli attori – neri o mafiosi – racconta di secoli di incontri. Lo sguardo assente di Forrest Whitaker si fa ascetico orientale, mentre il volto di John Tormey si allarga a racchiudere la pesantezza degli anni. Il lavoro di Jarmusch tende ad esaltare l’esplosione del diverso. Musica, colori, volti e gesti dei personaggi hanno lo scopo di convogliare quante più espressioni possibili della realtà. Vecchio e nuovo: piccioni viaggiatori al posto di e-mail e sofisticate apparecchiature elettroniche per lo scasso. La realtà di Ghost Dog è molto più articolata di quanto la commedia faccia credere. Forse perché è nel declino, nella età della decadenza, quando viene meno l’istanza unificatrice, che si verifica la maggiore varietà possibile di forme. È a questa varietà che Jarmusch strizza l’occhio. All’estrema vitalità che questa caotica società terminale mette in evidenza.
Carla Chatrian, Cineforum n. 385, giugno 1999 |
|
Critica (2): | |
|
Critica (3): | |
|
Critica (4): | |
| |
| |
|