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Racconto d’inverno - Conte d’hiver


Regia:Rohmer Eric

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Eric Rohmer; fotografia: Luc Pagès, Philippe Renaud; musica: Sébastien Erms; montaggio: Mary Stephen; suono: Pascal Ribier, Ludovic Hénault; interpreti: Charlotte Véry (Félicie), Frédéric Van Den Driessche (Charles), Michel Voletti (Maxence), Hervé Furie (Loic), Ava Loraschi (Elise) Christine Desbois (la madre), Rosette (la sorella), Jean-Luc Revol (il cognato), Haydée Caillot (Edwige), Jean-Claude Biette (Quentin), Marie Rivière (Dora); produzione: Margaret Menegoz, per Les Films du Losange / CER / Sofiarp / Canal Plus; distribuzione: Academy; origine: Francia, 1992; durata: 117’.

Trama:La giovane Félicie, che lavora in un salone di bellezza, a Parigi, di proprietà del parrucchiere Maxence, trascorre talvolta la notte dal suo innamorato Loic, un bibliotecario, che abita nella periferia ovest della città, e talvolta nella periferia sud, dalla madre a cui ha affidato Elise, la piccola figlia che ha avuto quattro anni prima dal giovane Charles, un cuoco incontrato in Bretagna durante l’estate e del quale ha perso le tracce. Non sopportando l’intellettualità di Loic, Félicie accetta la proposta di Maxence, che si è innamorato di lei, di trasferirsi a Nevers con lui. In realtà la donna non è innamorata di nessuno dei due mentre è ossessionata dal vivo ricordo di Charles. Ha perduto la speranza di ritrovarlo, ma immagina di vederlo ovunque e giunge perfino a correre dietro una figura di uomo in cui ha creduto di riconoscere colui che per lei è sempre stato e sempre sarà l’unico grande amore della vita. Tornata da sua madre a Parigi, trovandosi sulla metropolitana con Elise, incontra per caso Charles con il quale finalmente può ricongiungersi.

Critica (1):Presentando alla stampa romana il suo Tutte le mattine del mondo, Alain Corneau proponeva una personale chiave di lettura per l’ultimo pluripremiato cinema francese degli anni Novanta. Tanto La belle noiseuse di Rivette che il Van Gogh di Pialat esprimerebbero la nausea verso una cultura da troppi anni appesantita dal caos di lingue e linguaggi, codici e discorsi, voci e scritture: una cultura ossessivamente protesa verso la comunicazione a tutti i costi, dall’allusione all’urlo, dall’implicito allo squadernato, dal messaggio nascosto alla lezione in cattedra. Ai vari chiassi e baccani, o anche solo ronzii e brusii, si contrapporrebbe, ora, l’attitudine a percepire e "sentire", addosso e in prima persona, i sensi del mondo, che vanno dal pennello che raschia la tela all’archetto che gratta le corde della viola, o anche, semplicemente, il soffio del vento, la scorza di un frutto, la pelle di una donna.
Ma allora c’è almeno un precursore di un simile "gusto", forse, e di quelli che sono in grado di attrarre, in patria e fuori, un nutrito drappello di appassionati, è il caso di dirlo, per storie di piccole e intense percezioni, i sensi sommessi e eccitati, di balzi della ragione e riflessioni del cuore. Il nuovo film di Eric Rohmer, Racconto d’inverno, il secondo della serie dei Racconti delle quattro stagioni si cala per la prima volta in un cinecontesto che, almeno in Francia, avrebbe ormai smaltito la sbornia dei messaggi e delle tesi preconfezionate a vantaggio di favole dove la vita non è teorizzata ma viene accarezzata, per così dire, in "presa diretta". Una presa diretta che, lo si sarà inteso, non riguarda affatto la pervasività del mezzo televisivo, ma la geografia dei sentimenti di quei personaggi, oggi non solo rohmeriani i quali hanno smesso di almanaccare sul senso della vita per vivere, e aderire al "senso" della vita, smistandolo con temporaneamente sugli altri e sulle cose attorno. L’amore fra Félicie e Charles dura i primi cinque minuti del film e forse, senza il lapsus di lei, sarebbe franato sotto il peso di una gravidanza inattesa: ma Félicie per fortuna si confonde mentre detta a Charles il proprio indirizzo parigino.
I cinque minuti, i cinque minuti di cinema che occorrono perché i due giovani consumino il loro amore, si espandono, nel film, nei cinque anni che intercorrono prima che essi potranno casualmente ritrovarsi. L’atto mancato del lapsus, scrive Freud, è dotato di un suo senso, ossia "l’intenzione alla quale esso serve e la sua posizione in una serie psichica" (in Introduzione alla psicoanalisi, Torino, 1978, p. 40). Ma Rohmer non indulge in chiavi di psicolettura. Nei primi cinque minuti l’amore dei sensi (i due giovani sono quasi sempre, nudi, in camera come sulla riva del mare), poi il lapsus sposta il senso dal territorio sensuale, appunto, a quello della psiche per consentire a Félicie di far seguire all’amore dei sensi il gioco dei corpi, il senso dell’amore, quel "sentire" che innesca un comprendere, che solo nel tempo per il tempo può e deve dispiegarsi. La maternità e la conseguente nascita di Elise rendono tangibile il fatto che qualcosa indubbiamente ha avuto inizio e che, pertanto, i "sentimenti" non durano affatto l’arco di un’estate, ma concimano il terreno, sul quale e solo sul quale, la vita si avvinghia per preparare ulteriori emozioni. Ai cinque minuti di cinema in estate succede l’ora e mezza abbondante di film in inverno: Félicie gode dell’affetto di Max, il parrucchiere che le propone di vivere con lui nella più tranquilla Nevers, e anche di Loic, l’intellettuale che ne sonda l’inconsapevole, non libresca, filosofia. Félicie, senza saperlo, enuncia tesi e idee di Platone, Victor Hugo, Pascal: Loic immediatamente, come una nota a piè di pagina, precisa che la ragazza sta per esempio descrivendo la teoria della conoscenza platonica come reminiscenza di qualcosa provato in stadi di vite precedenti. Al lapsus verbale di cinque anni prima succede, adesso, una sorta di lapsus culturale per cui Félicie crede di spiegare un proprio pensiero e invece sta producendo una citazione. Ma la citazione non vale per lo spessore semantico che misura, attraverso la segnaletica delle virgolette: Félicie effettivamente "conosce" Platone perché, e solo perché, sta facendo esperienza della sua teoria. Ella sa di amare Charles perché il "sentire sensuale" dell’estate appena trascorsa è ora, nelle immagini dei ricordi (la foto del giovane sempre in bella evidenza), il fondamento del "sentire amoroso" che la accompagna lungo l’inverno e, ella ne è certa, sboccherà nel nuovo definitivo incontro. La citazione rivela la propria natura di "cosa", di oggetto dell’esperienza, e non di impalpabile flusso verbale, quando Félicie e Loic assistono al finale dello shakespeariano Il racconto d’inverno, dove la regina Ermione, creduta morta, può riabbracciare i suoi cari. Il finale della commedia segna il tempo della fine dell’inverno di Félicie: la citazione non è rimando tra chi cita e ciò che è citato, ma tocco del tempo che di lì a poco farà riabbracciare Charles e Félicie (e la piccola Elise). Il sentimento dei due giovani è anche il sentimento del tempo cinematografico che va a concludersi: dell’amore, Rohmer non ha proposto la teoria ma l’estetica, ossia il suo "senso". Ah, a proposito, Félicie lavora da Max, il parrucchiere: il suo lavoro, la sua attività, il suo "fare" è, forse era meglio dirlo sin dall’inizio, proprio ciò che si chiama, in effetti, l’estetica.
Flavio De Bernardinis, Segnocinema n. 55 maggio-giugno 1992

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Eric Rohmer
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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