Barriera - Bariera
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Regia: | Skolimowski Jerzy |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Jerzy Skolimowski; fotografia: Jan Laskowski; musiche: Krzysztof Komeda; montaggio: Halina Prugar; scenografia: Roman Noviki, Z. Straszewski; interpreti: Joanna Szczerbic (Lei) Jan Nowicki (Lui) Tadeusz Lomnicki (Il Dottore) Maria Malicka (Donna Pulizie) Zdzislaw Maklakiewicz (Venditore Giornali) Andrey Herder (Manius) Malgorzata Lerentowicz (Donna Bionda) Zygmunt Melanowicz (Eddy) Ryszard Pietruski (Capo dei Ragazzi); produzione: Gruppo Kamera; distribuzione: Movies Inspired; origine: Polonia, 1966; durata: 83’. |
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Trama: | Stanco della vita che conduce, uno studente di medicina fa una strana scommessa con alcuni colleghi. La vince e ne ottiene in premio un salvadanaio. Lascia il pensionato per vedere che cosa la città gli può offrire di meglio. È il venerdì santo. Lo studente va a trovare il padre che, immobilizzato su una sedia a rotelle, vive ormai un'esistenza desolata.
Nell'apprendere del matrimonio (inventato) del figlio, gli consegna una lettera che porta il giovane a casa di una donna bionda in attesa sì di uno studente, ma non di lui. In cambio della lettera gli dà una vecchia spada e lo invita a fare un bagno. Successivamente il giovane conosce una manovratrice di tram. D'accordo con lei, telefona agli amici dicendo di essersi fidanzato e li invita in un ristorante dove ci sono solo loro due e i camerieri. Arriva poi un venditore di giornali, due amici e infine un folto gruppo di ex combattenti che brinda e canta canzoni patriottiche.
Lo studente e la ragazza giocano a essere ricchi con i soldi del salvadanaio. Lui agita un mazzo di chiavi (la proprietà), bevono. Il giornalaio ha un attacco di cuore. All'ospedale la ragazza non può far nulla per aiutarlo perché l'uomo, come tutti gli altri personaggi, non ha nome. In seguito lo studente ingaggia un duello con un'auto coperta da un telo, vuole donare il sangue, ma siccome ha bevuto non 1o accettano. Sale con la ragazza su un'alta torre dalla quale si fa scivolare lungo un toboga con l'inseparabile spada in una mano e una valigia nell'altra. Siede nella Jagnar dei sogni, va in una serra piena di fiori, si china nella neve con la quale si bagna il volto.
Intanto la ragazza, per rivederlo, va al deposito dei tram per farsi sostituire dai colleghi, ma tutti rifiutano. Si benda la bocca e gli occhi, poi si addormenta. Viene portata dal medico sociale che, senza visitarla, le rilascia un certificato che le permetterebbe di assentarsi dal lavoro. Ma lei rifiuta. La sera stessa va all'ostello dello studente, però i due non si incontrano. Allora riprende a guidare il suo tram. A sopresa, il giovane compare: è aggrappato al finestrino anteriore della vettura e le sorride. |
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Critica (1): | Il film (che ha vinto il gran premio al Festival di Bergamo del 1966) possiede una struttura significativa: «ogni volta che ho girato una sequenza – ricorda Skolimowski – ho voluto situarla presentandola in maniera tale che fosse leggibile per se stessa» (Intervista, «Cahiers du Cinéma», 182, settembre 1966). Barriera doveva essere realizzato dal documentarista Karabasz (per il quale aveva scritto il soggetto), ma questi si ammalò. Quando il film gli fu affidato definitivamente, ne modificò a fondo le caratteristiche. Questa impostazione, nuova rispetto ai due film precedenti – questa decisione di chiarezza e parcellizzazione che esigono un significato per ogni "cornice" – appesantisce la funzione dell'immagine e si scontra da una parte con la dichiarata influenza del cinema di Godard (Pierrot le fou, 1965) e dall'altra con la concezione skolimowskiana del cinema come itinerario autobiografico indiretto (in Barriera, peraltro, egli non è Andrzej su suggerimento delle autorità). Un itinerario non di conoscenza, ma di visione: è lo spettatore che vede i pensieri del protagonista. Un percorso come dilatazione spaziale e temporale assolutamente non lineare, falsata, non soggetta alle regole della decifrazione immediata del reale: l'immagine soggettiva di quella apparente, di una vera storia da raccontare. (...)
Già dall'inizio, il film mostra di quale pasta simbolica è fatto: ecco l'immagine "sfuocata" dei corpi in ginocchio, le mani legate dietro la schiena, che cadono pesantemente in basso, fuori dal fotogramma. Non si tratta di misteriose esecuzioni naziste, ma soltanto della scommessa che avvia l'itinerario dello studente (occorre afferrare con i denti, buttandosi giù da un tavolo, una scatola di fiammiferi in mano a un manichino di anatomia). Un movimento doppio, onirico e reale, come se il primo filmasse il secondo a velocità più accelerata; perché in Barriera «d'illusione ottica rivela l'estraneità a se stessi, l'impressione che i personaggi assistano alle proprie azioni, si vedano vivere, piuttosto che agire e vivere direttamente. Sono sempre fuori dalle cose, perché si perdono nell'altrove dell'angoscia» (P. Bertetto, cit., p. 107). Personaggi che si perdono in un'atmosfera da via crucis (siamo nella settimana santa), luoghi e persone che assumono il rilievo scenico di «Stationen-drama del teatro espressionista tedesco, in cui ogni stazione rappresenta una vittoria sulle paure, le ossessioni, le tentazioni» (Andrée Tournès «Jeune Cinéma», 35, gennaio 1969).
La prima barriera è regressiva, perché è la visita al padre: un'ombra insieme a una bara vuota, a un'umanità silenziosa e vagante, a fantasmi del passato (con cui lo studente è costretto ad una corsa rituale verso il nulla, in un cerchio speculare fra il vuoto della generazione della guerra e l'immagine di una Polonia contemporanea ormai perduta). Se questa è la premessa, la continuazione dell'errare del giovane sembrerebbe potersi affidare più alla simbologia degli oggetti e al buio che non alle persone e alla luce. La spada della lotta e la valigia (peso del passato e sofferenza del nuovo) cercano di unire il senso delle azioni, lo spirito dell' "avventura". Con la spada egli scopre i veli che nascondono animali impagliati, o bisogni individuali come l'auto coperta; o sottolinea lo stridore della sequenza degli ex combattenti al ristorante per poi parodiare una simbolica caduta sentimentale dallo scivolo sulla neve, che riprende all'inverso la scalata sull'albero della cuccagna e sulla torre.
La valigia contiene una scontata vita da medico, uno di quelli di Mani in alto!: «È già passata quasi metà della mia vita e tutto ciò che mi appartiene è qui dentro. Vi incontrerete tra dieci anni per vedere chi di voi ha comprato di più e questo sarà il vostro curriculum vitae», dice lo studente ai compagni. Vi è anche conservata la realtà del pensionato fatta di «gusto della sofferenza per ridere» (Tournès), di noia, ma anche di grandi affermazioni di principio come: «Per una borsa di studio mi sono venduto allo Stato, ora posso anche vendermi a chi mi pare»; oppure, ironizzando sulle cadute della scommessa: «In questa nostra generazione cinica e senza ideali, ci sono ancora slanci romantici». Ma la valigia contiene anche il suo superamento simbolico nella funzione delle chiavi e della ragazza, usate per fingere una condizione di ricchezza e di stabilità (cancello-villa-garage-auto-accensione, il matrimonio inventato), o un cambiamento di stato, un successo inesistente – lui ha solo un ridicolo porcellino salvadanaio – che Skolimowski rappresenta in maniera autoironica (un mummificato e surreale ristorante di lusso in cui fa cantare dalla donna delle pulizie i suoi versi sulla mano che annoda la cravatta).
Questo riporta il film al suo realismo antifrastico, alla dispersiva ricerca egoistica dello studente per ottenere un cambiamento della propria esistenza. Ma costui si comporta come un sonnambulo che gioca, come un sognatore romantico che si atteggia a cinico. Le cinque chiavi, infatti, servono solo a confermare l'inefficacia del suo vagabondare. Inefficacia che si esprime nella casa e nell'auto come simbolo usurato della presenza nella società: «il solo record che desidero è la Opel-Rekord», oppure «le valvole mi interessano più dei battiti del cuore», dice anticipando di poco Il vergine. Anche la sesta chiave, quella della serra, suggerisce forti sensazioni, un profumo di «altro» (i fiori di lillà), forse un voluttuoso diversivo, ma non elimina la sterilità di una confusa ribellione. Gli altri oggetti del film sono tutti "insensibili" e inservibili, statici, quasi ostili: le candele «pasquali» accese tra happening e resurrezione (dello studente); le sigarette esplosive che non riescono a scuoterlo («quando scoppieranno, pensa al fesso che sei», gli aveva detto l'amico Manius); i manifesti che invitano a donare il sangue per una nuova vita, ma poi non vogliono il suo; i pannelli con le grandi lettere cambiano da «NIEZYE» (morto) a «NIECHZYE» (lunga vita), ma sono nel deposito dei tram, e lui non c'è.
Solo il tram e la ragazza (Joanna Szczerbic, la seconda moglie di Skolimowski) modificheranno la dominante dei bianchi e dei neri (rispettivamente, la luce della seconda parte e della prima), illumineranno a giorno lo spazio e riusciranno a svegliare lo studente dal suo sogno, per dare un vero scopo al suo itinerario. Giacché, nemmeno il resto delle persone in Barriera funge da specchio nel quale egli possa guardarsi per proseguire e avvicinarsi alle due generazioni fra le quali si sente incastrato: troppo giovane per gli ideali dei vecchi, troppo maturo per ignorarli. Gli amici dicono di volersi «inserire nella circolazione sanguigna della società», ma lo fanno ironicamente, e a parole, sotto la doccia, con un casco da motociclista in testa. La donna bionda perpetua il formalismo di una simbologia assurda (la testa di cinghiale impagliata, la vasca da bagno, la candela) e di un onere "storico" come la spada, troppo pesante e inservibile contro se stessi. Il capo cameriere è un servo-padrone che, se non fosse in servizio, starebbe nel gruppo degli ex combattenti. Il cieco non può ispirare pietà perché è un finto cieco. Il venditore di giornali – forse l'unico personaggio attivo – distribuisce «Vita nuova», che però non serve ad aprire nuovi orizzonti ma solo a farci dissacranti cappellini per finti giovani arrivati e nostalgici vecchi soldati.
Allora Skolimowski sembra decidere di far riunire lo studente e la ragazza. Ma non potrà trattarsi che di un falso happy end, di una relazione instabile (come all'inizio, lui è in bilico su qualcosa), di un rapporto-pretesto durato solo il tempo di una ricerca individuale: dal successo all'amore, al "risveglio". In uno spazio reale spesso falsato anche nei rapporti tra i piani di ripresa (nella sequenza d'inizio, al deposito dei tram, sul palo della cuccagna, i primi piani si invertono rispetto ai totali), il linguaggio simbolico non è riuscito a modificare radicalmente lo scontro generazionale. È però servito a sperimentare l'amara solitudine del regista e il suo sincero divertimento nel filmare. Egli ha continuato con accanimento l'analisi autobiografica del quotidiano che ha avviato nei due film precedenti: «Se si suppone che i film di Skolimowski sono affetti da tenace sonnambulismo, (...) Segni particolari e Walk over corrispondono al momento in cui il dormiente lascia il letto per cominciare il suo giro notturno; Barriera a quello in cui, appollaiato sul bordo del tetto, avendo sfiorato la caduta, riguadagna la terra ferma, senza paura né passi falsi» (J. Narboni, «Cahiers du Cinéma», 195, novembre 1967). (...)
Fabrizio Borin, Jerzy Skolimowski, Il Castoro cinema, 1-2/1987 |
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Critica (2): | Ed eccoci arrivati a Bariera...
Andò così: avevo scritto una sceneggiatura per Karabasz intitolata Pusty obszar (Zona deserta). Lui iniziò le riprese, ma qualche tempo dopo pensò che il lungometraggio di finzione non fosse il suo mezzo espressivo e volle rinunciare. Bossak allora mi chiese se non volessi finirlo io, il film. Finirlo – dico – no, ma sfruttando quello che era rimasto del budget di produzione, avrei potuto girare qualcos'altro. Nel giro di pochi giorni presentai una bozza, che poi divenne Bariera. Per metà il film è improvvisato.
L'improvvisazione è stata il suo metodo di lavoro preferito?
È così. Mi è più facile inventare qualcosa a caldo che prendermi la bri-
ga di scrivere a tavolino. Anche la sceneggiatura di Rece do góry (Mani in alto) fu improvvisata nel giro di qualche ora.
Rivedendo oggi Bariera, ho l'impressione che lei avesse subito il fascino del surrealismo.
Sono cose che fanno sempre effetto. Quando ho visto le riproduzioni di Magritte ho provato un'impressione fortissima. Fui meno colpito da Dalì e non ho mai amato troppo la sua opera. Invece da Magritte ero attratto, anche se non posso dire che il surrealismo in pittura sia la mia corrente preferita. Decisamente no. Forse una delle meno amate. Però la sua poetica, l'intensità della sua azione, la metafora che salta agli occhi (in definitiva credo che siano proprio queste metafore surrealiste le più facili) non possono non avermi influenzato.
Sì, qualcosa del surrealismo può essere entrato nel mio bagaglio di mezzi espressivi. Però non lo sopravvaluterei. Sono piuttosto riferimenti superficiali, decorazioni più che contenuti sostanziali.
Visto che stiamo parlando di ispirazioni pittoriche, quali influenze è disposto a riconoscere?
Anche qui non esagererei. Nemmeno in Acque di primavera, che tutti considerano il mio film più sublimato dal punto di vista figurativo, ci sono riferimenti diretti alla pittura. Forse Kubrick faceva così: copiava qualche quadro famoso. Io non avrei potuto.
"Segni particolari", intervista a Jerzy Skolimowski di Jerzy Uszynski, in Jerzy Skolimowski, a cura di Malgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, Lindau, 1996. |
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Critica (3): | (...) Al pari di Rysopis, Bariera inizia in un momento chiave per il protagonista. È uno studente che inaspettatamente decide di interrompere l'università. Spiega ai colleghi che va a sposarsi. Quindi prende un'enorme valigia con le sue cose e se ne va. La sua partenza è preceduta da uno strano rituale: gli studenti si inginocchiano a turno al bordo del letto con le mani legate dietro la schiena e cercano di afferrare tra i denti un pacchetto di fiammiferi piazzato a una certa distanza. Chi non ci riesce si abbatte sul pavimento di schiena. Il vincitore fa suo il salvadanaio che tutti hanno contribuito a riempire... Compare, dunque, il motivo della competizione, già incontrato in Walkower. Questa volta non il pugilato, ma pur sempre una gara, una vittoria da conquistare. I colleghi di corso di Staszek considerano la sua decisione di interrompere gli studi una compromettente capitolazione. Ai loro occhi è un vigliacco. Lui, invece, la considera eroica. Non vuole continuare un percorso già preordinato: laurea, lavoro, promozione ecc. Sceglie l'avventura.
Mentre l'azione dei precedenti film di Skolimowski si esauriva nel corso di una sola giornata, quella di Bariera dura il tempo di una notte, la vigilia di Pasqua. In città il traffico è febbrile, dalle finestre pendono oche per il pranzo dell'indomani, nelle case fervono le pulizie. Costretti fuori casa, gli uomini vanno al bar per la tradizionale «aringa». La folla impegnata negli ultimi acquisti attraversa di corsa la strada alla vista del semaforo verde. Tutti pensano alla Festa e il pensiero accomuna negozianti e clienti. Quella sera le barriere che dividono le persone sembrano facilmente valicabili. Seguendo l'esempio del protagonista si può fare la conoscenza di una tranviera giovane e carina...
Su questa falsariga si potrebbe attribuire un'interpretazione «realistica» a ogni singolo episodio di Bariera, ma non si raggiungerebbe comunque il risultato sperato perché resterebbe ovunque un residuo di inspiegabilità. Tutti gli eventi registrati nel film si basano sulla realtà, ma sempre con un prolungamento in un'altra dimensione che non è più questa realtà. Staszek va a casa del maggiore con una lettera del padre che deve consentirgli il ritiro di una sciabola lasciata in deposito come «regalo di nozze» (e la sciabola, accessorio da «ulano», ricorrerà spesso nel film), ma con il seguito della storia, compreso il bagno del protagonista nella vasca, sciabola in mano, siamo nel grottesco puro. Constatiamo che dai cornicioni pendono delle oche, ma l'arrampicata di Staszek su un muro, per slegare un'oca viva, si tramuta in una visione poetica e metaforica. La gente si muove spesso di gran carriera, corre alla vista di un semaforo verde, ma in Bariera la corsa si tramuta nel travolgente inseguimento di folle, dell'intera umanità si potrebbe azzardare, verso invisibili mete. I guasti elettrici sono normali, ma in Skolimowski la visione della città immersa nell'oscurità, punteggiata da centinaia di candele accese in fretta e furia (a giudizio di chi scrive, una delle immagini più belle del film), si trasforma istantaneamente in una visione da festa dei morti, in un rito commemorativo... Si può cedere alla tentazione di una discesa dal trampolino invernale sopra una valigia, ma la discesa in quanto tale, come la vediamo sullo schermo, fa parte della dimensione del «sogno a occhi aperti...». (...)
Bariera ci propone un protagonista incoerente. Tale era stato Andrzej Leszczyc in Rysopis. Ma anche lo stesso Andrzej di Walkower. E se la loro «intima lacerazione» consistesse proprio nel non saper cogliere con un colpo d'occhio l'interezza del proprio esistere nel suo attuale decorso e all'interno della comunità... di appartenenza, né i compiti che ci prepara il futuro ecc., ma solo e soltanto un frammento, una porzione di presente? Il protagonista di Skolimowski con la valigia in mano è un uomo che raramente si volta a rivedere il passato, ma non guarda nemmeno in avanti. È incoerente perché non mette insieme elementi distanti fra loro, gli manca il senso della sintesi. In generale, più che essere, diventa dinanzi ai nostri occhi.
Se l'opera di Skolimowski occupa un posto di tanto rilievo – a mio parere – nel cinema polacco è proprio perché dà vita a un protagonista incoerente, un personaggio composto o, per meglio dire, unito insieme con elementi contraddittori. Questo ha un significato grandissimo, in quanto il cinema polacco del dopoguerra aveva inteso il protagonista sostanzialmente in un modo solo, come risultante di superiori processi collettivi, sociali e storici. Sono pochissimi i film polacchi di valore che abbiano sovvertito tale gerarchia di priorità, quelli in cui non sono le esperienze della collettività a modellare la sensibilità e il destino del singolo, ma è piuttosto un personaggio incolore, banale, ad affrontare il mondo così come egli stesso lo vede. Il cinema polacco non propende per le «tematiche private», sono rari i film d'amore, intimistici, psicologici. Persino nelle produzioni di terz'ordine riscontriamo la pretesa di definire il «fatum epocale», «il tragico destino della nazione» o i «complessi generazionali». Il cinema polacco predilige i personaggi lacerati nell'intimo, protagonisti deformi e traumatizzati. Ma, in genere, si tratta di traumi risalenti alla guerra.
I film di Skolimowski spezzano questo cerchio tematico chiuso di ossessioni e rappresentazioni. La guerra cessa di essere per lui una fonte di suggestioni. I suoi protagonisti non l'hanno sperimentata direttamente e, se ne parlano, è con invidia. Rappresenta, per loro, un'opportunità svanita per dimostrare qualcosa. Diremo di più: l'«intima lacerazione» dei protagonisti di Skolimowski non è un retaggio bellico, lo «stato d'emergenza» tanto prediletto dai registi polacchi, ma risale, al contrario, al senso di stabilità, e dunque all'inquietudine per il fatto che altri abbiano già pensato a tutto e abbiano fatto e risolto ogni cosa. Vi è, in questo, una certa dose di spirito di contraddizione, di timore di perdere la propria individualità, la propria faccia, il terrore di scomparire nel collettivo, che è assoggettato a predestinazioni superiori. Da qui la sequela di incongruenze: da un lato le aspirazioni, dall'altro l'indolenza, l'anelito a compiere cose fuori dal comune e gli studi falliti, il tempo sprecato, le opportunità gettate al vento. Ma, quel che più conta, non si tratta di incongruenze e complessi ereditati dalla guerra, anzi, sono proprio la testimonianza della pace, del ritorno all'equilibrio, alla normalità.
L'incoerente protagonista di Skolimowski vive del presente, non lo interessa più di tanto il passato, non si avventura nel futuro. Ma anche per noi spettatori egli esiste esclusivamente al presente, non riusciamo a immaginare chi fosse prima, chi sarà dopo. E non è nemmeno facile capire chi sia nel momento della sua comparsa sullo schermo e il suo «identikit», che ci siamo impegnati a ricostruire per tutta la durata della proiezione, contiene tante lacune e reticenze. Questo perché il protagonista di Skolimowski, come quello della narrativa contemporanea, non è un insieme definito di tratti psicologici, un «carattere». Non vuole esemplificare un qualche processo sociale o storico. Non esiste al solo scopo di illustrare qualcosa, di essere parte di un mondo che vive al di fuori di lui e indipendentemente da lui. Quello dei film di Skolimowski è un protagonista in statu nascenti e questo suo «generarsi» avviene attraverso il contatto con l'altro individuo, con l'oggetto, con il paesaggio. Si potrebbe aggiungere che, se il protagonista di Skolimowski si genera praticamente dinanzi ai nostri occhi, la stessa regola vale per la realtà. Anch'essa è allo stato amorfo, scomposta in dettagli. È solo lo sguardo del protagonista che la definisce e riordina. Sotto questo aspetto, Bariera non è contrapposto a Rysopis, ma semplicemente dice le cose fino in fondo. In Rysopis e Walkower la realtà assume un senso soltanto al momento in cui cade sotto lo sguardo di Andrzej. Perché, dunque, questo suo vedere non dovrebbe trasformarla, convenzionalizzarla, scomporla in segni, insomma, farne una funzione della coscienza del protagonista? (...)
Konrad Eberhardt, “L’uomo con la valigia”, in Jerzy Skolimowski, a cura di Malgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, Lindau, 1996. |
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Critica (4): | |
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