RETE CIVICA DEL COMUNE DI REGGIO EMILIA
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Prima della rivoluzione


Regia:Bertolucci Bernardo

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Gianni Amico; fotografia: Aldo Scavarda, Camillo Bazzoni, Vittorio Storaro; musiche: Ennio Morricone, dirette da Franco Ferrara - la canzone "Ricordati" è di Gino Paoli, "L'Inno dei lavoratori" è di A. Galli, "Walking With G.A." e "Invention for Gina" sono di Leandro Gato Barbieri - brani di W. Amadeus Mozart e del "Macbeth" di Giuseppe Verdi; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Vittorio Cafiero, Angelo Canevari; costumi: Federico Forquet; interpreti: Adriana Asti (Gina), Francesco Barilli (Fabrizio), Allen Midgette (Agostino), Cristina Pariset (Clelia), Cecrope Barilli (Puck), Morando Morandini (Cesare), Emilia Borghi (madre di Fabrizio), Iole Lunardi (nonna di Fabrizio), Giuseppe Maghenzani (fratello di Fabrizio), Domenico Alpi (padre di Fabrizio), Gianni Amico (amico); produzione: Iride Cin.Ca; distribuzione: Cineteca Nazionale; origine: Italia, 1964; durata: 100’. Vietato18

Trama:Fabrizio, giovane della borghesia di Parma, è deciso a rompere i rapporti con la sua classe sociale. Egli è marxista e nella sua nuova concezione della vita non c'è posto neppure per la sordità borghese di Clelia, la sua fidanzata. Il suicidio dell'amico Agostino, vittima del suo disorientamento ideologico, provoca in Fabrizio un dramma interiore che soltanto Gina, sua giovanissima zia, intuisce e comprende. I due giovani, pur profondamente diversi per temperamento e concezione della vita, si amano ma la loro relazione è destinata a spegnersi ben presto. Rimasto solo, Fabrizio cerca inutilmente di risolvere il suo conflitto interiore con la compagnia di Cesare, un maestro elementare che è stato fino a quel momento la sua guida ideologica. Consideratosi definitivamente sconfitto, Fabrizio torna rassegnato nel mondo borghese sposando Clelia.

Critica (1):Sull'«Europeo» del novembre 1964 Mario Soldati commentava l'opera seconda di Bertolucci con una finezza che credo giustificherebbe, sia pure in piccola parte, la generale antipatia che la critica italiana ebbe verso il film. Com'è noto Prima della rivoluzione suscitò interesse e ammirazione fra i francesi, mentre in Italia, salvo le eccezioni di Morandini, Bianchi o Giulio Cesare Castello, collezionò diverse stroncature.
Un contrasto che Soldati, nell'articolo ricordato, interpretava, più o meno intenzionalmente, con termini che vale la pena di riprendere: «...Che cos'è, dunque, che non va nel film di Bertolucci? Trama coerente, personaggi azzeccati, ambientazione esatta, squarci lirici: che cos'è che non va? Una cosa semplicissima (...) Non va il dialogo. Dal principio alla fine, il dialogo è sbagliato: più che sbagliato, è inerte, superfluo, ridicolo: (...) quasi che il regista (...) si fosse creduto in dovere di studiare a fondo la scelta degli interpreti e dei luoghi, i gesti, gli oggetti, le inquadrature, le luci, il montaggio, e la musica e i gridi, e i rumori: ma, tutto preso da questo enorme complesso di finezze, non avesse più avuto un attimo da dedicare alla scelta delle parole che gli attori dicono. Sì, il dialogo di Prima della rivoluzione è così sciocco, che basta, da solo, e nonostante tutti i vivissimi pregi della partitura, per colare a picco l'opera. Questo spiega perché a Cannes il film abbia indignato i critici italiani, ed entusiasmato gli stranieri: basta non capire bene l'italiano per integrare istintivamente le immagini di Bernardo con un dialogo adeguato: se poi per qualcuno l'italiano fosse cinese, Prima della rivoluzione potrebbe anche essere giudicato un capolavoro. In fondo, dopo l'invenzione del tecnicolor, si sono prodotti e si producono tanti film in bianconero. Non si vede perché, dopo l'invenzione del sonoro, non si possa produrre un film muto. Abbiamo consigliato a Bernardo di "mutizzare" il film, con qualche espediente o trovata: serbando gridi, rumori, e qualche battuta "chiave", e coprendo il resto con la musica: oppure introducendo qua e là alcuni titoli o "cartelli", con epigrammi magari in poesia, che lui scriverebbe benissimo...».
Nello stile di Soldati queste parole sembrano pencolare sul faceto, tuttavia sorprende – al di là della serietà rivendicata da Soldati medesimo æ l'affinità col Pasolini del "cinema di poesia". Per quest'ultimo Bertolucci incarnava la doppia nevrosi dell'intellettuale e del poeta, e la conseguente libertà-coazione di un'arte, quella del Novecento, che nel cinema trova il suo più alto grado di contraddizione. Bertolucci come esempio di barbarie – la lingua del cinema che sembra tornare alle origini – coniugata con la modernità dell'ispirazione individuale e della cultura; Prima della rivoluzione come esperimento linguistico e stilistico fondato sulla "soggettiva libera indiretta", cioè sulle "insistenze" delle inquadrature e dei ritmi di montaggio, che esplodono «in una sorta scandalo tecnico» «...Sotto la tecnica prodotta dallo stato d'animo disorientato, incoordinante, assillato dai particolari, attratto dalle attenzioni coatte ecc., ecc., della protagonista – scriveva Pasolini – affiora continuamente il mondo com'è visto dall'autore non meno nevrotico: dominato da uno spirito elegiaco elegante e non mai classicistico».
Com'è noto le conclusioni di Pasolini sul "cinema di poesia", sulla sua vocazione formalistica e d'avanguardia erano pessimistiche. Come Bertolucci, anche Antonioni e Godard non potevano che incarnare un conflitto disperato, nevrotico e malato, tutto interno alla coscienza infelice della borghesia neocapitalistica. Ma ciò nonostante, al di là di quel che si può pensarne in termini generali, la novità era stata colta in essenza. Pasolini aveva intuito un luogo ricorrente dell'avanguardia novecentesca laddove il moderno anticipa e si distrugge; Soldati era giunto a una posizione analoga: con mente più frivola, forse, ma con altrettanta profondità e persino in lieve anticipo.
Fatta questa premessa Prima della rivoluzione resiste ai suoi trent'anni per altri pregi: anzitutto per una rischiosa, caparbia e involontaria, dunque lungimirante, generosità. Film spaesato nel profondo, cioè nel sentimento personale e in quello dei luoghi; film applicato, senza parere, alla dicotomia fra stile e contenuto, ove le categorie siano sottoposte a continui ricambi: lo sfondo reinterpretato della provincia – Gianni Amico che cita Godard e proclama la necessità primaria di Rossellini in un comune bar-bigliardo, ma poi si arrende alle ragioni di contenuto quando l'amico arriva a parlare d'amore – il primo piano come rilievo, polemico, dallo sfondo stesso. Il primo piano come contrasto fra le urgenze dei contenuti, e la distesa elegia filtrata dallo stile; come rottura dal paesaggio, dalla provincia; come bisogno di fuga, di città.
Film genuinamente calato negli anni Sessanta, anche italiani; si ricordi cos'era la Parma di un Pietrangeli: provinciale e "arretrata" persino rispetto a Roma, unica metropoli disponibile.
Film ingenuamente debitore verso Godard, e tuttavia corretto dal tormento fino a evitare, quasi per miracolo, la maniera; film che torna a Vigo – gli amanti che si cercano nel sonno da letti separati – e rilegge Pasolini. È casuale che Agostino somigli tanto a Rimbaud, che Rimbaud sia fondamentale nel riscatto poetico giovanile di Pasolini, e che Agostino anneghi, forse suicida, in un punto della Parma che sembra una "marana", sotto gli occhi di proletari tanto concreti quanto consci della fatalità?
Film che rovescia, con la sequenza del Teatro Regio, la sintesi viscontiana di Senso. Là era il Trovatore, il Verdi risorgimentale, la scomposizione socio-politica del pubblico; qui è il Macbeth, la cupezza celebrata ma negativa, il pubblico perfettamente ricomposto, imprigionato.
E cosa dire, per concludere, della "Festa dell'Unità"? Che ci riguarda, oggi, perché nell'incertezza sul partito Bertolucci ha visto la crisi della provincia. Prima della rivoluzione fu vissuto come precursore del Sessantotto: lo è stato. Ma ha precorso una crisi più lunga; la crisi dentro la quale l'ambiguità della provincia italiana, ed emiliana in particolare, si è definitivamente sciolta, perdendo ogni arretratezza rispetto alla metropoli ma anche ogni diversità. La provincia da cui si doveva scappare restava, non era cancellata, anzi continuava ad agire concretamente nei conflitti individuali e collettivi; oggi no, e la luce scialba che avvolge Fabrizio e Cesare in quel Parco Ducale così asfittico, così obliante, è la stessa che avvolge noi. Abbiamo subito tremende sconfitte e tuttavia conserviamo il sentimento di non aver tutto consumato, di aver pagato per altri prima di contare appieno o, in tale misura, fallire. Un'ultima nota – a margine, ma non secondaria – vorrei dedicarla al personaggio di Cesare, cioè a Morando Morandini. A lui si guarda – molti di noi guardano – come a un critico di cui ci si può fidare: con stima, autentica, e amicizia. Riproponiamo un poco, insomma, l'atteggiamento che Fabrizio, in Prima della rivoluzione, ha verso l'adulto maestro. Ebbene, mi chiedo, perché Morando non ha continuato a insegnarci qualcosa anche come attore? La sua figura di "comprimario", nel film di Bertolucci, è fra le più belle del dopoguerra italiano. Forse non se n'è accorto nessuno, o è stato lui a sottrarsi; non so, ma sono convinto di una perdita.
Tullio Masoni, Cineforum n. 336, 7/8-1994

Critica (2):(...) Bertolucci, alla sua seconda prova dopo La commare secca (un acerbo ma personale film pasoliniano), ci restituisci con Prima della rivoluzione le incertezza e le inquietudini, lo stato di "impasse" di una generazione, nata "troppo tardi", di una generazione che raggiunge la propria maturità negli anni del centro-sinistra, ( dell'immobilismo politico che il suo disegno di consenso sociale determina, che si sente estranea ai grandi temi di quegli anni (l'Algeria, le sollevazioni razziali in America), che avverte già lontani i giorni delle dimostrazioni di piazza del luglio '60, chi vede il cristallizzarsi di un modello di presenza, non solo culturale (le feste de "L'Unità" con Gaber e Mina) del comunismo italiano.
La provincia, con la sua atmosfera stagnante, soffocata dal conformismo e dalla rinuncia (colta nella ripetitività ossessiva dei propri riti: le visite alle chiese per il Giovedì Santo, l'inaugurazione della Stagione Lirica, i funerali, i matrimoni, la vita familiare, infine) costituisce il palcoscenico ideale della messa in scena dell'immobilismo e della fissità della storia. Ma la rappresentazione non è didascalica o astrattamente concettualizzante: la provincia è anche lo scenario naturale delle personali mozioni autobiografiche, conserva il fascino e la seduzione degli anni della fanciullezza (e allora Parma è la città la cui piazza "è così vicina ai campi che, certe notti, vi arriva l'odore del fieno" o in cui - secondo un esplicito passaggio della sceneggiatura originaria - i platani dei giardini pubblici potevano stare per i baobab dell'Africa di Cino e Franco).
Distesa su questo paesaggio, la struttura del film poggia su una doppia opposizione (infanzia/maturità, da una parte; trasformazione/adesione, mutamento/fissità, libertà/costrizione, dall'altra) che si rifrange nei tre personaggi centrali (Fabrizio, Agostino, Gina), determinandone, in ragione del prevalere dell'uno o dell'altro polo, lecaratteristiche e i comportamenti.
Fabrizio. Incarna la dolcezza suadente e ildisagio impotente di una condizione chesembra avere tra i suoi lussi anche quello dell'ideologia. La sua ricerca verso l'utopia di un sistema di valori totalizzante, in grado di orientare il comportamento politico e morale ("Io volevo un uomo...") si traduce in un'adesione esteriore e volontaristica al marxismo, che non solo non riesce a diventare strumento della propria trasformazione, ma neppure strumento ai comprensione. Di qui la sua incapacità a capire prima Agostino (alla cui angoscia contrappone catechistici ammonimenti: "Devi iscriverti al Partito.."; "è dall'interno che devi lottare") e poi Gina, pur nella sofferta intelligenza della propria impotenza ("A volte impiego inutilmente le stesse parole di Cesare. Sperando che siano più logiche delle mie. E pensare che anch'io, con le mie ambizioni di essere il suo maestro, anch'io non ho mai capito niente di Agostino"). Dove la scena più rivelatrice di tale sua collocazione è quella della visita con Gina a casa di Cesare, in cui chiaramente emerge la passività della propria opzione ("Hai ragione, parlo come un libro") e in cui si preannuncia ancor prima dell'incontro con Puck ("Avevo avuto la sensazione che per noi, figli della borghesia, non c'era via d'uscita") e già prima della confessione finale ("Per me l'ideologia è stata una vacanza, una villeggiatura"), la rinuncia a lottare e il ritorno all'ordine.
Al termine della propria educazione sentimentale, la maturità continuamente cercata (attraverso il legame con Cesare) coincide con la resa, col rientro nell'universo borghese.
L'esistenza di Agostino è invece tutta segnata dalle pulsioni dell'infanzia. Le sue azioni, i suoi gesti (collocati tutti in questa dimensione di rifiuto intransigente e infantile: le fughe da casa) e la sua figura ("Agostino era biondo, i suoi capelli erano come le piume di un canarino") appartengono a una logica totalmente diversa, hanno i caratteri - così come emerge da una delle più belle sequenze del film: la sorta di carosello autopunitivo che egli compie davanti a Fabrizio - di un aopposizione insieme angosciata e incosciente.
La frattura che lo separa dal proprio mondo sociale è incomponibile, ma la sua libertà, la sua rivolta, la sua ansia di mutamento è di una qualità tragica e disperata e potrà realizzarsi solo nei modi estremi della morte. A cavallo tra mondo infantile ed adulto, tra fuga e volontà di trasformazione è invece Gina: la polarità in cui si dibattono gli altri personaggi, ma che poi finisce coll'orientarsi verso un unico termine (la costrizione della maturità, per Fabrizio; la libertà tragica della fanciullezza per Agostino, come abbiamo detto) sopravvive in lei come continua tensione, come irrisolta oscillazione.
E la nevrosi è il segno di tale condizione ora inclinata verso l'infanzia ("Non amo i grandi, gli adulti") e uno stato di felice libertà (il suo girovagare con Fabrizio per i negozi della città); ora verso i pessimismi e lo sconforto (la lettera all'amica, la telefonata al dottore e soprattutto la splendida sequenza della crisi che la coglie nell'ascoltare la cantilena della bambina), ove la figura più caratteristica in cui si esprime tale instabilità e disequilibrio, nei momenti di pieno controllo, o nei momenti di amaro sconforto, è la finzione della propria identità (si veda la scena delle foto - un omaggio a Marienbad - il suo gioco con gli occhiali per far sorridere Fabrizio, la stessa dimensione d'avvio del suo rapporto con il nipote - Fabrizio: "Ora devi fare finta di avere bisogno di me". Gina: "E' una bugia, ma d'accordo").
Leonardo Quaresima, Tradizione e innovazione nel cinema degli autori emiliano-romagnoli Comune di Modena 1976.

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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