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A Ciambra


Regia:Carpignano Jonas

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Jonas Carpignano; fotografia: Tim Curtin; musiche: Dan Romer; montaggio: Affonso Gonçalves; scenografia: Marco Ascanio Viarigi; costumi: Nicoletta Taranta; suono: Giuseppe Tripodi; interpreti: Pio Amato, Koudous Seihon, Iolanda Amato, Damiano Amato, Cosimo Amato, Cosimino Amato, Francesco Papasergio; produzione: Jon Coplon, Paolo Carpignano, Ryan Zacarias, Gwyn Sannia, Rodrigo Teixeira, Marc Schmidheiny, Cristoph Daniel per Stayblack Productions-Rt Features-Sikelia Productions-Rai Cinema, in associazione con Dcm Pictures-Haut Et Court-Film I Vast-Filmgate; distribuzione: Academy Two; origine: Italia-Francia-Germania-Usa, 2017; durata: 120'.

Trama:Il 14enne Pio vive nella Ciambra, la comunità rom stanziale di Gioia Tauro in Calabria, e vuole crescere in fretta. Come il suo fratello maggiore Cosimo, Pio beve, fuma e impara l'arte di truffatore di strada. Così, quando Cosimo non sarà più in grado di badare alla famiglia, Pio dovrà prendere il suo posto. Tuttavia, questo ruolo così grande per lui arriva troppo presto, mettendolo di fronte a una scelta impossibile...

Critica (1):Il merito di Jonas Carpignano è di credere – e molto – nel cinema che fa. Crede nei suoi personaggi, nelle storie che crea e soprattutto nei luoghi che sceglie. Il legame con la Calabria, protagonista degli ultimi quattro film (fra lunghi e corti) del regista italo-americano, è infatti talmente forte da averlo portato alla decisione di andare ad abitare a Gioia Tauro.
Gioia Tauro dove abita anche Pio – il protagonista di A Ciambra – un ragazzino di tredici anni della comunità Rom della provincia di Reggio Calabria che, come tutta la sua famiglia, vive di piccoli furti, truffe e affari con la malavita locale. Vuole diventare grande in fretta Pio e allora fuma, guida le auto, ruba e va con le prostitute. Anche se non ha dei veri amici, non sa leggere né scrivere e il treno gli fa paura perché corre veloce.
Credere significa quindi affezionarsi ai personaggi, volerli raccontare oltre la superficie, significa costruire una storia che metta la realtà al servizio della narrazione (Pio e la sua famiglia interpretano loro stessi, usano i loro veri nomi e il campo in cui vivono diventa la location principale del film) ma significa anche calarsi in una dimensione di mediazione totale, nella quale la camera diventa strumento che osserva, pedina e rivela. In fondo la scelta di ambientare un film dentro un campo Rom e di portare alla luce un tema così divisivo come quello della convivenza fra gruppi etnici diversi non è soltanto una rarità – quasi un’eccezione – nel cinema italiano contemporaneo, ma è anche la testimonianza della volontà di andare verso una rappresentazione eterogenea, complessa e non conciliante.
Crederci però spesso non basta. L’idea di cinema di Carpignano non sembra assecondata dallo sguardo che adotta. Calandosi nella quotidianità dei Rom di Gioia Tauro e entrando così a fondo nel contesto politico e culturale di una Calabria che è terra di confine lacerata dai conflitti etnici (Rosarno, dove Pio si reca per piazzare un iPad rubato è anche al centro dei due film precedenti di Carpignano: A Chjàna, 2012 e Mediterranea, 2015) e signoreggiata dalla ‘Ndrangheta, il regista sembra interessato ad affermare una prospettiva tutt’altro che anti-ideologica. Raccontare una comunità i cui modi di vivere e la cui cultura appaiono tanto difficili da comprendere da un punto di vista esterno, diventa in questo senso il tentativo di tracciare le coordinate per lo spettatore, di usare uno sguardo che potremmo definire quasi coloniale per generare in chi guarda un’empatia eterodiretta. E invece non solo è difficile affezionarsi al personaggio di Pio e alla sua famiglia, ma anche comprenderne le motivazioni. E non servono a molto in questo senso le velate citazioni neorealiste che Carpignano inserisce a più riprese (il cavallo di fronte al quale Pio resta affascinato ha la stessa valenza di quello adottato dai protagonisti di Sciuscià, 1946), suggerendo una prospettiva zavattiniana – sottolineata anche dal pedinamento insistente del protagonista. (..)
Lorenzo Rossi, cineforum.it, 20.5.2017

Critica (2):“Grazie a Pio e alla nostra amicizia è nato il mio rapporto con la Ciambra. È stato lui che mi ha scelto, voleva conoscermi. Mi seguiva ovunque fumando una sigaretta dopo l’altra e con addosso sempre la stessa giacca di pelle”. Così il giovane regista Jonas Carpignano racconta come è nata la storia del suo secondo lungometraggio dal titolo A Ciambra, che ci fa conoscere la famiglia Amato, una comunità rom che vive nei pressi di Gioia Tauro, e il suo protagonista, il quattordicenne Pio che è uno dei pochi in grado di integrarsi tra le varie realtà del luogo: gli italiani, gli immigrati africani e i membri della comunità rom.
“La prima volta che sono andato nella Ciambra ero molto nervoso. Ci ho messo tre anni per cercare di mettere in piedi questo film”, dice il regista italo-americano che ha incontrato gli Amato nel 2011 dopo che la sua Fiat Panda con dentro tutte le apparecchiature cinematografiche era stata rubata. Era lì a Gioia Tauro per girare A Chjana, il corto da cui poi sarebbe nato Mediterranea, il suo primo film che raccontava la storia di due immigrati africani dopo un pericoloso viaggio alla ricerca di una nuova vita in Italia. Lì tutto si svolgeva a Rosarno, ma anche qui al centro della storia c’è l’Italia del Sud e la Calabria. A Gioia Tauro racconta il regista quando sparisce una macchina la prima cosa da fare è chiedere agli zingari e così Carpignano aspettò tre giorni prima che gli fosse restituita. Tutta questa storia però ebbe un forte impatto su di lui che cominciò a scrivere la prima stesura del cortometraggio A Ciambra.
“Non avevo un messaggio da trasmettere. Volevo fare avvicinare il pubblico a questo mondo e mostrarne la realtà. La forza della comunità rom è anche il suo limite. Tra loro non si tradiscono. Non si può mai essere completamente uno di loro e per questo non riescono mai a integrarsi nel tessuto sociale”, dice il regista italo-americano che poi racconta di aver incontrato anche alcune resistenze: “Per esempio non volevano farsi riprendere in pigiama, invece per quanto riguarda i furti ne andavano anche abbastanza fieri. Non si sentono dei ladri. È il loro modo di sopravvivere, è un lavoro. E sono diffidenti nei confronti dei giornalisti, hanno paura che vadano lì solo per prenderli in giro”. Invece come è stato rapportarsi con la ‘ndrangheta? “L’ho resa come la vedo. Lì si sente la presenza dell’ ‘ndrangheta. C’è, influisce su tutto, ma non lo vedi mentre cammini per strada. Non assisti alle sparatorie. È una cosa più sottile, non aggressiva”.
Presentato al festival di Cannes, A Ciambra concorrerà agli European Film Awards e sarà distribuito in 40 copie da Academy Two. Il film inoltre è stato prodotto da Martin Scorsese: “È stato molto importante ricevere i suoi commenti sulle diverse versioni del film. Ero molto nervoso quando ha visto la proiezione perché per me lui è un mito. Mi ha aiutato a trovare un equilibrio tra quello che è documentaristico e la storia”, commenta il regista che intanto ha in mente di girare un altro film sempre a Gioia Tauro su una ragazza che deve scegliere se rimanere in Calabria o andarsene. “Mi trovo bene qui”, dice lui, che ha trascorso la sua infanzia tra Roma e New York e che ha scelto di venire in Italia perché suo nonno lo ha fatto crescere con il neorealismo. (…)
Giulia Lucchini, cinematografo.it, 22/8/2017

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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