Fiume (Il) - He Liu
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Regia: | Ming-Liang Tsai |
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Cast e credits: |
Sceneggiatura: Tsai Ming- Liang, Yang-Bi-Ying, Tsai Yi-Chun; fotografia: Lao Peng-Jung; suono: Yang Ching-An; scenografia: Lee Pao-In; montaggio: Chen Sheng-Chang; interpreti: Lee Kang-Sheng (Xiao-kang), Miao Tien (padre), Lu Hsiao-Ling (madre), Chen Shiang-Chyi, Chang Long, Anne Hui; produzione: Central Motion Picture Corporation; distribuzione: Lucky Red; origine: Taiwan, 1996; durata: 115’. |
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Trama: | A Taipei, iln giovane Xiao-kang si presta a fare da controfigura in un film diretto dalla regista Ann Hui (nella parte di se stessa). L'immersione nelle fetide acque del fiume Tanshui lo lascia con un fastidioso torcicollo. Il ragazzo passa da un medico all'altro alla ricerca di un rimedio che non riesce a trovare.. |
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Critica (1): | Attenzione, film-Ufo in avvicinamento alla Terra. No, non parliamo del seguito di Mars Attacks! né di un nuovo capitolo di Guerre stellari. L’oggetto cinematografico non identificato di cui vogliamo segnalarvi lo sbarco proviene da un corpo celeste assai più lontano ed ignoto: l’isola di Taiwan una volta detta Formosa, un pezzo di capitalismo ruspante che incrocia al largo della Cina Popolare. Ma questo film non ha nulla di capitalista. Tanto per essere chiari, Il fiume è l’opera terza di un regista che anni fa, nei cinema italiani, ha fatto molte vittime e provocato qualche innamoramento folgorante. Successe dopo il Leone d’oro vinto a Venezia che intitolava, curiosamente alla francese, Vive l’amour. L’uomo si chiamava Tsai Ming-Liang e secondo noi è uno dei più bravi registi in circolazione, almeno all’interno della generazione dei quarantenni. Vive l’amour dunque, vinse il Leone (ex -aequo con il più accessibile Prima della pioggia, del macedone Milcho Manchevski) e uscì nelle sale provocando sconcerto, sonni profondi, fughe dai cinema e in una minoranza di spettatori, della quale confessiamo di far parte-amori a prima vista. È un bizzarro triangolo in una Taipei moderna e lunare, a metà fra Antonioni, Ozu e Buster Keatòn. Bellissimo, impervio, scostante. Ora, tanto per essere chiari: se siete fuggiti dalle sale dove si proiettava Vive l’amour, non avvicinatevi a meno di un chilometro a quelle dove, in questi giorni, è in programma Il fiume. Rischiereste grosso. Non fa per voi. Capita, non c’è nulla di male. Ma se avete amato quel film, o se volete iniziare l’estate incontrando un cineasta, e un tipo di cinema, mille miglia lontano dalle consuetudini italico-hollywoodiane, fatevi sotto. Il fiume è un’opera ancora più forte ed estrema di Vive l’amour. Lo stile è il medesimo: inquadrature lunghe, azione (?) che si dipana in tempo reale, dialoghi ridotti all’osso, interni familiari devastanti. Ma assai più dura è la storia (??) che Tsai racconta (???). Perché se in Vive l’amour l’omosessualità di uno dei personaggi era “allontanata”, per così dire, in un triangolo fra giovani, e comunque fra perfetti estranei, qui lo stesso tema irrompe nella famiglia, struttura portante della società a Taiwan come altrove. E sfracella tabù che sono millenari per la cultura cinese, e difficilmente tollerabili anche per noi. Crediamo di non rovinare nessun tipo di suspense, dicendo che nella famiglia al centro del film, sia il padre che il figlio sono omosessuali, anche se il secondo non lo sa. Il vecchio consuma le sue giornate nel silenzio: non ha più alcun rapporto con la moglie (la quale, a sua volta, ha un’amante che è un produttore di film (porno) e va a cercarsi fugaci avventure con ragazzi nelle saune della città. Il figlio è un perdigiorno al quale, un giorno, capita una brutta avventura: viene assunto come comparsa in un film, e per esigenze di scena deve immergersi alcune ore nel lurido fiume che attraversa la metropoli di Taipei. Sarà per l’acqua inquinata, sarà per altri motivi più “psicosomatici”, ma il ragazzo si ammala: gli viene un torcicollo devastante che gli impedisce letteralmente di vivere. I genitori lo portano da medici e guaritori vari, ma il male sembra inguaribile. Forse per alleviarlo, forse perché la malattia è comunque un viatico alla coscienza, il giovane “scopre” la propria omosessualità e la va a vivere proprio nella sauna frequentata dal padre.... Non dovremmo raccontarvi altro, ma sappiate che la scena in cui padre e figlio si rivelano, involontariamente, l’uno all’altro è tra le più forti, intense, insostenibili che il cinema ci abbia proposto da anni. Anche per lo stile che Tsai usa, forzandolo alle estreme conseguenze: la scena è girata senza tagli, e riesce ad esprimere, in un sol colpo, un atroce male di vivere, una rude e inaspettata tenerezza, che a noi appare quanto mai “orientale”, ma che forse è universale, legato al talento cristallino del regista. Da allievo prediletto di Hou Hsiao-Hsien (il maestro di Città dolente) Tsai Ming-Liang ha ormai una dimensione di cineasta maturo, che ha trovato una sua voce. Certo, non è una voce facile: ma chi riuscirà ad ascoltarla con spirito libero, forse, non potrà più farne meno.
Alberto Crespi, L’unità, 11/06/97 |
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| Tsai Ming-Liang |
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