Bianciardi!
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Regia: | Coppola Massimo, Piccinini Alberto |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Massimo Coppola, Alberto Piccinini; fotografia: Giovanni Giommi; montaggio: Giogiò Franchini, Latino Pellegrini; suono: Alberto fasulo; produzione: Isbn Milano Films-Indigo Film; distribuzione: Indigo Film; origine: Italia, 2007; durata: 60'. |
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Trama: | Luciano Bianciardi (1922-1971) è stato uno degli scrittori e giornalisti più influenti degli anni sessanta. Autore di La vita agra, intellettuale a cottimo ossessionato dalla macchina per scrivere, dalle donne e dalla televisione, ha raccontato il suo tempo con instancabile e spietata dedizione. Arrivato nella Milano del boom economico, con una missione da compiere in nome dei minatori della sua Maremma uccisi dal grisou: fare la rivoluzione. Finirà inesorabilmente stritolato dagli ingranaggi della trionfante industria culturale italiana. Muore a 49 anni abbandonato da tutti, col fegato consumato dall'alcol. |
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Critica (1): | "Abbiamo viaggiato tra Grosseto, Roma, Rapallo, Milano, per ascoltare le voci di quelli che vissero vicino allo scrittore la sua "vera" vita agra. Dalla compagna Maria Jatosti, per cui mollò moglie e figli e scappò a Milano, alla figlia Luciana, con la quale riallacciò un tenero e drammatico rapporto negli ultimi anni di vita. E poi i suoi editor, i vecchi amici di Grosseto, quelli della boheme milanese e quelli dell'esilio di Rapallo, il luogo che aveva scelto per scappare da quella Milano che "lo aveva accolto a braccia aperte - come ricorda Maria Jatosti - ma che non amava, che anzi disprezzava".
Proprio la Milano di oggi, vista dal finestrino di una vecchia Fiat (la stessa su cui Bianciardi fece e raccontò un viaggio in Marocco), fa da sfondo a queste voci. Non è rimasto niente di allora, di quella stagione della cultura italiana, così come non è rimasto niente della miniera di Ribolla, che saltò in aria e accese la rabbia di Bianciardi fino alla fine della sua vita. O forse, è rimasto tutto. Tutto quello che Bianciardi aveva già visto quarant'anni fa: la sconfitta, la fine delle speranze, l'impossibile fuga dalla grigia normalità della vita e dall'inesorabilità del potere."
(Massimo Coppola e Alberto Piccinini) |
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Critica (2): | Fare un film come Bianciardi! (presentato a Venezia 64 nelle Giornate degli autori) su un personaggio "scomodo" come Luciano Bianciardi è un'operazione rischiosa almeno sotto due aspetti: primo perché si può sempre inciampare nell'omaggio un po' melenso e liquidatorio - una sorta di seconda lapide, culturale e materiale per parafrasare il titolo di un'opera dello stesso scrittore grossetano, con il paradossale effetto di neutralizzare quelle energie rivoluzionarie che non si esauriscono mai con la morte di un intellettuale engagé - secondo perché non è affatto facile cogliere l'ironia e la forza di una vita vissuta sempre un po' sopra le righe, ma con la coerenza di chi la vita ha dovuto acciuffarla per i capelli quando gli è passata velocemente accanto, come un treno diretto in stazione a Milano. Perché Bianciardi è stato anarchico nel senso vero del termine, probabilmente anche per via di quella sua origine maremmana che gli fece conoscere tanti dei minatori morti nella sciagurata esplosione di Ribolla. Mi viene in mente un solo artista al quale paragonarlo per l'irriverenza con cui si gettò, ritraendosene al primo bruciante contatto, nel mondo della cultura dello spettacolo: quel Piero Ciampi ritratto splendidamente nel documentario La morte mi fa ridere. La vita no di Claudio Di Mambro, Luca Mandrile e Umberto Migliaccio. La soluzione adottata da Massimo Coppola è per molti aspetti simile, soprattutto dal punto di vista dell'impostazione del lavoro, laddove miscela sapientemente registrazioni di repertorio a interviste rilasciate dagli amici storici dello scrittore. L'incipit con l'ex minatore, che mentre parla della sua vita passata in miniera raccoglie il radicchio lungo l'argine, ricorda anche gli episodi di Cinico tv di Ciprì e Maresco, in cui la voce off si fa sentire anche e soprattutto durante le lunghe pause - l'intervistato si sente aggredito da questi silenzi che cerca in qualche modo di riempire, finendo così con lo sbagliare proprio perché dice troppo. Insistendo su questo registro, ma solo nei primi minuti del film, la regia di Coppola svela quella distanza che ancora oggi, forse più di ieri, divide certi intellettuali da quel popolo di cui hanno parlato e al quale hanno cercato di parlare. L'uso del bianco e nero, probabilmente adottato anche per amalgamare le nuove immagini a quelle di repertorio, è importante per la funzione che riveste nei confronti dei lunghi stacchi di montaggio - al nero per l'appunto - che hanno il pregio di annullare ogni volta quella immedesimazione che lo spettatore è sempre sul punto di subire, poiché la vita di Bianciardi è stata agra sotto molti aspetti, ma compatirlo sarebbe come volerlo far rivoltare nella tomba. Il tono delle interviste mantiene infatti questo stesso taglio votato quasi all'irriverenza nei confronti dello scrittore toscano, che, come ci viene ricordato alla fine del film, fu abbandonato da molti di quelli che si dipingevano come suoi amici quando le cose giravano bene. Certo, è difficile non rimanere colpiti da quel viso così aperto mentre posa con un entusiasmo quasi infantile per le riprese fatte durante la lavorazione del film di Lizzani (La vita agra, 1964), oppure restare insensibili al suono di quella voce toccata dall'entusiasmo della vecchia vicina di casa, che gli augura di fare fortuna e gli chiede di ripassare da lei per firmarle una copia del suo prossimo libro. Davanti a quelle immagini non può rimanere impassibile chi sa cosa voglia dire portare avanti le proprie passioni tra mille privazioni. Penso soprattutto alla mia generazione, a quei trentenni di oggi ai quali il grido levato da Bianciardi dovrebbe ancora giungere forte alle orecchie. Penso a quell'ultima intervista, dopo i ricordi degli amici che lo hanno visto bere whisky fin dalle prime ore del mattino. Penso a Bianciardi che dice che il lavoro di traduttore è di quelli che ti uccide, perché ti obbliga a star sveglio tutta la notte a picchiare sui tasti di una macchina da scrivere per creare parole non tue da prestare ad altri. Penso alle mani dei minatori e al suo sguardo lucido. E ripenso a quell'uomo che raccoglieva radicchio lungo l'argine della strada e che non sapeva chi fosse Bianciardi. In quella sequenza iniziale è già raccolta tutta la forza di un film che svela fin da subito l'amaro finale, che ci spara in faccia la sua prima cartuccia senza starci poi tanto a pensare, proprio come fece quello strambo scrittore toscano salito su a Milano per mettere una bomba al "serpentone" e finito a mangiar pasti gratis dalle suore.
Ma adesso è tardi, che già arrivano i titoli di coda, e a ripensarci io non so più se ridere o piangere.
Simone Ghelli, frameonline.it, 15/09/2007 |
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| Massimo Coppola |
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