Ultimo tango a Parigi
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Regia: | Bertolucci Bernardo |
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Cast e credits: |
Soggetto e sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Franco Arcalli; fotografia: Vittorio Storaro; musica: Gato Barbieri; montaggio: Franco Arcalli; scenografia: Ferdinando Scarfiotti; arredamento: Maria Paola Maino; costumi: Gitt Magrini; suono: André Bonfanti; interpreti: Marlon Brando (Paul), Maria Schneider (Jeanne), Jean-Pierre Léaud (Tom), Massimo Girotti (Marcel), Maria Michi (madre di Rosa), Giovanna Galletti (la prostituta), Darling Legitimus (la portinaia), Marie-Hélène Breillat (Mouchette), Veronica Lazar (Rosa), Luce Marquand (Olimpia), Gitt Magrini (madre di Jeanne); produzione: Alberto Grimaldi, per Pea/Artistes Associés; distribuzione: Dis Film; origine: Italia-Francia, 1972; durata: 126’. |
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Trama: | .In un appartamento da affittare, Paul incontra Jeanne e le impone il primo d'una lunga serie di violenti rapporti sessuali. Nonostante il patto, da lui voluto, di non dirsi nemmeno il nome, nei successivi incontri, i due, Paul soprattutto, tracciano di loro minuziosi ritratti di esseri disgregati, alla deriva. Paul, 43 anni, americano, figlio di alcoolizzati, reduce da fallite esperienze, era da cinque anni con Rosa (tenutaria d'un alberghetto equivoco), appena uccisasi. Jeanne, combattuta fra l'attrazione e il disgusto per il maturo amante e il fascino del coetaneo Tom, regista velleitario, fantasioso, ma sincero e affezionato, si dispone al matrimonio con quest'ultimo, senza pero' ribellarsi alle pretese piu' ripugnanti di Paul, che per di piu' le rovescia addosso una gragnuola di espressioni luridissime contro la donna, l'amore, la famiglia. Nei colloqui con la suocera, con Marcel, che è stato amante di Rosa, e vegliando il cadavere di questa, Paul passa repentinamente dalla calma dolorosa agli accessi di furore e alle crisi di pianto. Capitati in mezzo ad un concorso di ballo, Jeanne ripete il suo rifiuto a Paul, che la supplica di ricominciare e intanto si ubriacano. Jeanne, inseguita da Paul, fugge nella propria abitazione e lo uccide. |
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Critica (1): | "Il film è un campo di battaglia", ha detto Sam Fuller."Il cinema è sangue, lacrime, violenza, odio, morte, amore" ha detto Douglas Sirk. Bernardo Bertolucci in Ultimo tango a Parigi ha messo in scena un campo di battaglia: sangue, lacrime, violenza, odio, morte, amore, hanno tappezzato il campo di questo film. Marlon Brando e Maria Schneider, prima che un racconto, sono stati la pelle e la carne di questa scena: i corpi in cui incastrare un’idea di cinema, un’idea di vita. Flash-back per alcuni (quelli della seconda visione), flash-forward per altri (quelli solo ora alla prima visione), Ultimo tango è comunque, e ulteriormente, un film seminale. Datato? Forse, invece, un film di datità. Intanto film-forward comunque, che nell’istanza dell’iperbole ha raccontato, ha anticipato il cinema allora possibile (oggi visibile) anni 70/80. E intanto, e ancora film-back, che ha rammemorato (non antologizzato) il prima, gli anni ’60, episodio veramente devastante di una fenomenologia dello spazio-corpo-passione, che esalta e inquina, tra differenze e ritorni, generi e codici, Nicholas Ray e Mizoguchi (molto più e primariamente che Oshima e Fuller), e Sirk e Renoir e Vigo. E intanto, attraversamenti godardiani del piacere della messa in scena, dolly felici come in un musical degli anni ’40, aperture urbane come nelle città rigorosamente"builded on set" di Lloyd Bacon per Busby Berkeley; nello stesso tempo cinema barbaro e melò, come in Rocha. E tutto questo penetrando con la violenza poetica del carrello di Glauber nel sertao dei corpi, oltre il filtro dell’iconografia delle carni di Bacon e dei vetri smerigliati di Storaro, fino al corpo del cinema classico, verso la deriva dei generi e il naufragio degli autori, tradendo da"autore" il cinema d’autore, consumandolo-consumandosi nella scena-conflitto di Brando/Kazan, nella mitologia e mitografia relativa. Datità: tra il cielo e lo specchio si consuma un rapporto impossibile, una riflessione inesistente: chi non vede non si riflette, non può riflettere sull’esperienza del vedere-vedersi: vedere è una questione di grammatica e di abitudine, quindi di sintassi. Paul e Jeanne, ciechi dell’amore dell’altro, inscenano le lacrime, le consumano e le stillano in una necessaria inflazione, lontana e sempre lontanissima dal larmoyant, punto di frizione e di ferita tra la norma e la forma del sentimento. Le lacrime sono comunque necessarie, lavorano infatti per la visibilità del melodramma. Melodramma straordinariamente disequilibrato, che flirta col kitsch, ma si mostra puro dalla ( e nella) volgarità, tranciato come i grandi melodrammi da dissonanze e sgrammaticature (ascoltare Puccini!), Ultimo tango investe la buona coscienza filologica, attempata nel gioco dei reperti e delle fisiologiche genealogie, allertando invece a sentire continuamente il visto non solo come vissuto, ma innanzitutto come dato-datità. Nello stesso tempo, in questa stessa istanza, Ultimo tango scioglie e allenta la memoria (il passato cinematografico) in un’estetica dell’istante ottenuta attraverso la costruzione-decostruzione del cinema-genere/cinema-classico (plot-plan), amando ma tradendo questo tratto d’unione e in fondo, a ben vedere, anche tutto il cinema degli anni ’60. Bernardo Bertolucci racconta, in fondo, tutto questo. Brucia nella passione di Brando la passione di cinema gelificata nella forma irrequieta e carica di Partner, inscenando un cinema attuale perché inattuale, proprio perché e in quanto cinema dei sentimenti e della loro oscena dismisura, risolta dalla misura ampia – la taglia forte – del sentimento del cinema, come Rossellini del resto, su altra, ma non lontana sponda. Nella scena del tango, quando la regola del ballo esemplificata dai concorrenti è amorosamente tradita da Paul per Jeanne (tradire la regola per non tradire il ballo come spazio gestuale e temporale della seduzione), è allora che Bertolucci sferra il colpo basso dell’autore melò, auspica e afferra, esulcera e scava la lacrima dello spettatore, provoca in lui lo straniamento e la devastazione.
Poi, ultimo coup de theatre, dettato crudele, Artaud e Bataille insieme, lo strike del battitore sulla piazzuola del baseball: Maria Schneider-Jeanne scagliata via lontanissima, e noi, e Paul-Brando, e Bernardo Bertolucci, sul carrello invano ad inseguirla, prima per le strade, poi senza più neanche il carrello, su, ancora su per le scale, per celebrare il corpo dell’attore, la corsa, la sconfitta, il fuoricampo, la morte annunciata dell’“ultimo straniero a Parigi": nel noir, come nel melodramma, come nel western, si è sempre stranieri nei confronti del sentimento, come del destino. C’è quasi sempre un’interiorità fuori orario, o un’esteriorità fuori spazio, un esterno nemico. Film dolorosamente straniero, barbaro, lontano, Ultimo tango galleggia trascinato dalla corrente dei furti, dalle rotte dei ladri di cinema, travolto dai detours degli amori impossibili, cinematografici e non, entrambi comunque reali. Maria Schneider intanto, senza per questo essere femmina folle, ha amato e ucciso per noi, ma soprattutto per Bernardo Bertolucci, Marlon Brando. E questo è il punto: un punto in cui la vita e il cinema sono sicuramente tangenti. Se le scene primarie del sesso e della morte raccontano il tempo infinitamente breve e spazioso che congiunge la morte e il linguaggio, il tumulo e la camera da letto, il cinema di Bertolucci quasi sempre racconta il brusìo ora indistinguibile ora articolato su cui questi estremi giacciono, racconta nella vita di un film il film possibile della vita, inscenando questa possibilità nell’accelerazione di un ultimo tango, tra i neon e i quarzi del set e del soffitto, su per gli appliques e gli specchi: "e lucean le stelle..."
Carmelo Marabello, Segnocinema n. 28, maggio 1987 |
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Critica (2): | “Pansessualismo fine a se stesso”: questa era l'accusa mossa dai giudici a Ultimo tango a Parigi. Cosa significa “Pansessualismo fine a se stesso”? Oggi, se ci si riflette solo un po’, non significa assolutamente nulla. Allora, invece, evocava un universo culturale preciso, riconoscibile. Lo stesso valeva per espressioni come “affamato di autenticità”, usata da qualche critico per Paul (Marion Brando). Per tutti noi quelle due parole avevano un significato preciso, anche se oggi ci appaiono fumose. Dopo la prima di New York, un critico italiano descrisse il film di Bertolucci come un prodotto “del cinema esistenzialistico che vuole esprimere la difficoltà di uscire dall'isolamento cui ci ha condotti la civiltà e di riacquistare la verità naturale”. Parole che oggi hanno tanto senso quanto “Pansessualismo fine a se stesso” e “affamato di autenticità”. Ma allora, esattamente come quelle, per tutti noi erano piene di significati impliciti, ovvi, non detti ma chiari. Ci dicevano cose familiari, le evocavano senza bisogno di argomentarle.
Rivedendo Ultimo tango, tutto questo torna alla mente. Ci torna come un fantasma di cui molti si erano dimenticati. Ricordate? Quindici anni fa c'era nell'aria una sorta di campo magnetico culturale, fatto di convinzioni profonde e quasi obbligate. Erano patrimonio di massa, ma anche le élite si compiacevano di condividere e di rilanciarle. Appena certe parole chiave venivano dette o scritte, quel campo magnetico ci dettava dentro immagini, opinioni, idee.
In questo clima uscì Ultimo tango. Subito catalizzò quell'ambiente saturo di conflittualità culturale e insieme di opposti conformismi. E fu proprio il film di Bertolucci a pagare per quella atmosfera, per quello “spirito del tempo”. Ma forse anche a trarne vantaggio, attenzione. E oggi? Cosa resta, oggi, della storia di Paul e Jeanne, di Tom e Jeanne, dell'appartamento di Passy e della disperata volontà di nulla? Cosa resta della grande emozione collettiva che fece incassare a Ultimo tango quasi otto miliardi in due settimane?
Negli anni Settanta, del film alcuni sottolinearono i luoghi poetici tipici del cinema di Bertolucci: approccio psicoanalitico, fantasma paterno (che più tardi, con La luna, avrebbe lasciato il posto a quello materno), ritorno all'infanzia, critica della famiglia, tema del “doppio”. Altri misero l'accento sugli elementi più strettamente cinematografici: ambivalenza nei confronti di Godard (anch'egli figura paterna) e riferimenti a Renoir, Rossellini, Vigo (L'Atalante) e Truffaut.
Il riferimento a Truffaut è quello più rivelatore. E anche quello più insistito, con il personaggio di Tom (Jean-Pierre Léaud). Si disse - e a ragione - che Tom era un'ironia garbata alla “Ieggerezza” del cinema della nouvelle vague, al suo modo di intendere il rapporto tra cinema e vita, al suo modo di intendere l'amore. E, per lo più, lo si disse con una nota di condanna per la “superficialità” di Tom.
Tanto altro ancora si disse e si scrisse su Ultimo tango. Ci fu chi spese righe e paragrafi affatican-dosi sul topo morto trovato nel letto da Jeanne. E in effetti quel topo aveva una indubbia “valenza simbolica”. Oggi possiamo dirla ridondante e an-che un po' comica, ma allora era perfettamente coerente con lo spirito del tempo. E uguale di-gnità di simbolo fu riconosciuta a elementi come i nomi delle strade (rue Jules Verne e rue del la Bohème) o come le vestaglie identiche di Paul e dell'amante della moglie.
Allora, infatti, un film d'autore - nel senso europeo e italiano del termine - era considerato territorio di scavo, zeppo di allusioni e significati nascosti. Ogni più piccolo particolare era preso terribilmente sul serio e tutti noi ci dedicavamo a voltar pietre per scoprire cosa ci fosse sotto. Era questo il nostro contributo specifico allo spirito del tempo, che era affamato di significati e di assoluti.
Una buona parte di ciò che allora vedemmo nel film a furia di rovesciar pietre, oggi non ha più forza. Può darsi che anche questi nostri anni siano dominati da un campo magnetico culturale. Ma, se c'è, questo campo è molto diverso da quello di allora. E il film di Bertolucci ne risente. Infondo, Ultimo tango fa l'impressione di un ergastolano uscito dopo lunghi anni di ingiusta galera. Oggi sono pochi quelli che alla leggerezza e alla superficialità del cinema davvero antepongono la pesantezza e la serietà della vita “vera”. Noi siamo cambiati, anche e soprattutto in questo. Abbiamo scoperto o forse riscoperto il valore profondo dei verosimile, del “come se” cinematografico. Il cinema è oggi invaso da nuovi barbari, grandi e creativi come sempre i barbari. E anche entusiasti e innamorati: entusiasti della specificità cinematografica, innamorati della sua leggera superficialità.
In generale, quello che oggi non ha più forza in Ultimo tango è tutto ciò che sta intorno all'amour fou di Paul e di Jeanne, il continuo riferirsi di Bertolucci al mondo che sta al di là delle pareti dell'appartamento di Passy, la sua preoccupazione di parlare la “lingua” di quegli anni. Insomma, è quello che allora abbiamo scavato sotto le pietre, che oggi appare superato, senza vita. E non importa che a voltarle, quelle pietre, ci avesse invitato proprio Bertolucci.
Quello che oggi resta vigoroso e suggestivo, invece, è la folle storia d'amore, la vertiginosa prospettiva sul nulla e sulla ricerca dell'autodistruzione. In fondo, qualcuno può anche pensare che resti forte e vigorosa la parte più originale e profonda della poetica di Bertolucci, al di là delle sue e delle nostre preoccupazioni di corrispondere allo spirito del tempo. Paul vuole morire, lo vuole dalle prime cupe inquadrature. Lo dicono, inequivocabili, le pareti assurdamente imbrattate del sangue della moglie. Questa sua volontà di morte trova in Jeanne un oggetto e, soprattutto, uno strumento. Con lei vive un eros funebre, mortifero come la “coazione a ripetere” che li obbliga a fissare e, appunto, ripetere il loro primo incontro con un'esistenza allucinata, astratta, separata dal mondo e dalla vita. Il loro sesso è quello della metafisica erotica di Georges Bataille (che Bertolucci leggeva all'epoca di Ultimo tango), con l'orgasmo paragonato a una “piccola morte”.
Paul è alla ricerca del nulla. Vuole distruggere se stesso attraverso Jeanne. Lei è lo specchio di un suicidio sognato, inseguito, sperato, e in qualche modo già realizzato nella decisione di nascondere il proprio nome e non conoscere quello dell'amante. E suicida è anche la finta volontà di vivere con Jeanne una vita normale. A un po' come se, così, Paul portasse a compimento la strategia iniziata con il sesso. Dietro quella volontà c'è un calcolo preciso: scoprirsi, svelarsi a Jeanne, e così costringerla a volgere contro di lui tutta la volontà di morte accumulata nel buio dell'appartamento di Passy. Questo è, oggi, il film di Bertolucci, il suo grande film: un apologo assoluto, astratto e astorico sulla volontà del nulla, sull'amore per la morte. E a questo grande film è essenziale l'apporto del mito-Brando, del suo volto, della sua storia, e anche l'apporto della grande fotografia di Storaro (“il principe delle tenebre”, secondo Bertolucci). Il resto, che pure c'è, è un suo piccolo film: ridondante, noioso, letterario, preoccupato dello spirito del tempo. Se preferite, il resto è un grande film di quindici anni fa. O meglio: un grande film, quindici anni fa.
Roberto Escobar, Cineforum n. 262, 3/1987 |
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| Bernardo Bertolucci |
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