Passato è una terra straniera (Il)
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Regia: | Vicari Daniele |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal romanzo Gianrico Carofiglio; sceneggiatura: Gianrico Carofiglio, Francesco Carofiglio, Massimo Gaudioso, Daniele Vicari; fotografia: Gherardo Gossi; musiche: Teho Teardo; montaggio: Marco Spoletini; scenografia: Beatrice Scarpato; costumi: Francesca Vecchi, Roberta Vecchi; Elio Germano (Giorgio), Michele Riondino (Francesco), Chiara Caselli (Maria), Valentina Lodovini (Atonia), Marco Baliani (Franco), Daniela Poggi (Anna), Maria de la Salud Jurado (Angelica), Romina jr Carrisi (Giulia), Lorenza Indovina (Alessandra), Federico Pacifici (avvocato), Antonio Gerardi (tenente); produzione: Tilde Corsi, Domenico Procacci e Gianni Romoli per R&C Produzioni-Fandango-Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia, 2008; durata: 120’. Vietato 14 |
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Trama: | Quando Giorgio, studente universitario modello, per caso incontra Francesco che gioca a carte in casa di un'amica, subisce il suo fascino di giovane uomo vincente e misterioso. Pian piano la vita di Giorgio si sgretola come se i 22 anni passati nella tranquillità borghese non fossero mai esistiti e non avessero costruito in lui nessun valore. Attratto verso un gorgo senza fine, Giorgio sembra risvegliarsi solo quando nella piccola città comincia a susseguirsi una serie di violenze sessuali ai danni di ragazze giovani dall'aspetto anonimo. |
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Critica (1): | Tutto s'è compiuto, quando inizia Il passato è una terra straniera (Italia, 2008, 120'). Ora Giorgio (Elio Germano) è diventato magistrato, come hanno voluto il padre Franco (Marco Baliani) e la madre Anna (Daniela Poggi). All'improvviso, però, qualcosa attraversa la sua memoria. Una colpa pesa su di lui, da anni, anzi una lunga serie di colpe, ognuna legata all'altra in un crescendo di corruzione. Nel momento più basso della sua coscienza, qualcosa lo ha fermato. E adesso, nella prima sequenza del film di Daniele Vicari, quel tempo lontano riemerge, inatteso come un fantasma. Tratto da un romanzo di Gianrico Carofiglio, e scritto dallo stesso Carofiglio insieme con Vicari, Massimo Gaudioso e Francesco Carofiglio, Il passato è una terra straniera è quasi tutto raccontato in flashback, a partire dal momento in cui il protagonista smette d'essere quel che da lui s'aspettano i genitori. È prossimo alla laurea, Giorgio, e ha una fidanzata, Giulia (Romina jr Carrisi), prevedibile come tutto quello che lo circonda. Nel suo futuro non ci sono, o non sembrano esserci, scarti e deviazioni. Tutto scorre, o sembra scorrere, in superficie. Ma una notte, tra i tavoli di una bisca, si trova coinvolto in una rissa insieme con Francesco ( Michele Riondino), giocatore e baro. Dopo, niente più scorre in superficie, appunto, e la sua vita "prevedibile" a poco a poco si sfalda e si perde.
Insieme con Giorgio, protagonista di questa storia di formazione capovolta è Bari: o meglio, un'idea tanto intensa quanto astratta di città. Non ci sono elementi "riconoscibili" e folcloristici del capoluogo pugliese, nel cinema di Vicari e nella bella fotografia di Gherardo Gossi. Al contrario, le inquadrature ne isolano frammenti – vicoli, case, ombre, luci – che potrebbero essere di qualunque città. E certo non si tratta di un limite del film. Al contrario, quel che ne viene è un felice sentore di universalità. Bari diventa così un luogo mora-le, ancor più che fisico. In questo luogo Giorgio inizia il suo cammino verso il basso, verso le ombre che lo abitano nel profondo. All'inizio, la sua discesa è per così dire frenata. Pian piano, Francesco lo coinvolge nel suo "gioco": barare per rubare ai ladri. Così si giustifica, infatti, e così Giorgio ama credere. Alla fine, si tratta solo di truffare manipolatori di carte meno bravi di Francesco, o spacciatori di cocaina, o professionisti dell'azzardo. E il guadagno è immediato, insperato. La coscienza può esser messa a tacere, e senza molta fatica. Poi, di truffa in truffa, lo "sforzo morale" diminuisce. Ogni sì detto a Francesco ne prepara un altro, più radicale, e ogni no non detto fa più difficile il no che dovrebbe seguire. Questa è la sua corruzione: questa discesa a gradi verso il fondo,che produce in lui un'atrofia sempre più mortale della capacità di sentirsi responsabile.
A differenza del libro di Carofiglio, il film di Vicari non è interessato all'aspetto poliziesco della vicenda. Ancora una volta, non si tratta di un limite, né della narrazione né del suo senso. Al contrario, alleggeriti da preoccupazioni d'intreccio, narrazione e senso possono "concentrarsi" sulla coscienza di Giorgio che si sfalda, allo stesso modo dei suoi legami familiari e del suo rapporto con Giulia. Non è solo un piccolo uomo che perde ogni sensibilità morale, Giorgio. È anche il figlio d'un mondo esso stesso privo di moralità, tutt'al più appesantito da moralismi inetti ( come accade ai genitori, smarriti in un perbenismo che non sa vedere e non sa parlare). In questo mondo, Francesco diventa per lui un modello. Se quel che conta è il denaro – che Giorgio nasconde, con sarcasmo (forse) inconsapevole fra le pagine dell'opera omnia di Karl Marx e Friedrich Engels –, Francesco è appunto una macchina da soldi. E certo la sua pretesa d'aver diritto a negare ogni regola, anche quella del rispetto della libertà e dignità d'una donna, può avere il fascino d'una ribellione triste e paradossale. Così, nel punto più basso della propria corruzione, Giorgio imita il suo modello anche nello stupro. Ancora una volta, lo fa quasi senza accorgersene, ma solo scendendo «un po' più in basso»: la violenza non è decisa, ma accettata di fatto, e praticata con la leggerezza delle prime truffe al tavolo da poker. Poi, quasi per caso, a Giorgio capita di fermare Francesco, proprio mentre fa violenza a una donna. E per caso, appunto, la sua vita torna in superficie. Ma dentro di lui resta l'atrofia morale, resta l'incapacità di sentirsi responsabile. Così, alla fine del film, il massimo che la coscienza gli faccia emergere sul volto è lo sconcerto per un fantasma che torna da un passato lontano.
Roberto Escobar, Il Sole-24 Ore, 11/112008 |
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Critica (2): | «The past is a foreign country», recitava la frase d'apertura del romanzo «The Go-Between» di Leslie Poles Hartley, edito nel 1953 (in Italia fu pubblicato da Garzanti due anni più tardi con il titolo «L'età incerta»). Dunque, «Il passato è una terra straniera». La frase venne però tradotta in modo leggermente diverso (non "una terra" ma "un paese straniero") in Messaggero d'amore, la versione italiana dell'omonimo film sceneggiato da Harold Pinter e diretto da Joseph Losey che uscì nel 1971: un anno prima della morte del settantasettenne scrittore inglese. Ed è proprio la proverbiale frase inaugurale del libro di Hartley, o forse quella equivalente del film, a trasformarsi in una pura suggestione colta dando il titolo al fortunato romanzo mainstream del magistrato e giallista barese Gianrico Carofiglio (edito da Rizzoli nel 2004), destinato a sua volta ad essere portato sullo schermo. Scartato dalla Mostra di Venezia e recuperato al Festival di Roma, il terzo lungometraggio di finzione di Daniele Vicari, che avrebbe dovuto bissare il successo editoriale mantenendo con il libro di partenza un rapporto di stretta dipendenza (con puntualità ne restituisce snodi e passaggi narrativi, anche perché lo scrittore stesso partecipa alla sceneggiatura e si ritaglia un cameo), si sforza di essere una sorta di noir contemporaneo incentrato sul modello collaudato del buddy-buddy, la coppia di amici spesso conflittuale e accidentale: il primo è un gambler con forti inclinazioni sadiche nei confronti delle ragazze, il secondo un promettente laureando in giurisprudenza che scopre di punto in bianco il suo "cuore di tenebra".
La particolarità (diciamo pure il valore aggiunto) di questo film cupo, il cui prologo-epilogo obbedisce inutilmente a uno schema memoriale (che dovrebbe dare un senso al titolo mutuato da Hartley o da Pinter e Losey), è l'ambientazione in una regione cinematograficamente emergente come la Puglia. La vicenda si svolge per intero nel capoluogo barese, presentato come una città del vizio, la cui topografia stessa obbedirebbe alle rigide e univoche esigenze del gioco d'azzardo notturno (si parla di una «bisca di via Libertà» come di un luogo noto nell'ambiente), con la sola eccezione di una toccata e fuga a Barcellona (quanto basta per acquistare una partita di droga, abbordare una cameriera di un pub, picchiarla a sangue e violentarla). Il tutto procede a "velocità massima" (non a caso il titolo programmatico del film d'esordio di Vicari, che già allora si sforzava di impiantare in una Roma altrettanto notturna e pericolosa lo schema d'azione spericolata di Fast & Furious), velocità del montaggio e dell'automobile dentro e fuori il perimetro urbano, e a al ritmo martellante della musica in cerca di una dimensione "maledetta" e ossessivamente "moderna" (…).
Anton Giulio Mancino, Cineforum n.480, 12/2008 |
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