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Vergine (Il) - Départ (Le)


Regia:Skolimowski Jerzy

Cast e credits:
Soggetto: Jerzy Skolimowski, Andrzej Kostenko; sceneggiatura: Jerzy Skolimowski, Andrzej Kostenko; fotografia: Willy Kurant; musiche: Krzysztof Komeda; montaggio: Bob Warde; interpreti: Jean-Pierre Léaud (Marc), Catherine Duport (Michele), Leon Dony (il Padrone), John Dobrynine (il Maragia), Jacqueline Bir (la Cliente), Paul Roland (l'Amico), Bernard Graczyk, Paul Frere, Paul Delriviere, Lucien Charbonnier, George Aubrey; produzione: Elisabeth Film (Bruxelles)-Bronka Ricquier; distribuzione: Movies Inspired; origine: Belgio, 1967; durata: 89’.

Trama:Marc è un giovane di diciannove anni che fa l'aiuto parrucchiere in un salone per signora di Bruxelles. Ha la passione per le automobili, con una speciale predilezione per le Porsche. Anche se non ne possiede una, si è iscritto a una gara che si svolgerà fra due giorni, perché pensa di prendere quella del principale, senza che questi se ne accorga. Sfortunatamente l'uomo decide di usarla per il fine settimana e Marc deve affannosamente trovare il modo di procurarsene un'altra.
Convince un amico a recitare il trucco del falso marajà che egli eccompagna a "comprare" un Porsche nera. I due fanno un giro di prova in città, tutto sembra risolto, Marc consegna alcune parrucche e conosce Michèle, ma l'amico si pente e lo costringe a restituire la vettura.
Tornato al lavoro, trova una matura cliente, proprietaria di una Porsche, che gli dà il numero di telefono di un autonoleggio. Quando apprende, però, che occorrono quindicimila franchi di deposito, Marc prima cerca di raggranellare la somma rubando pezzi d'auto in una esposizione, poi vendendo una treccia di capelli e altri oggetti a un rigattiere. I due tentativi falliscono, ma Marc si ricorda della cliente.
Quando si accorge che Michèle si è tagliata le lunghe trecce per rivenderle a un fabbricante di parrucche, dimentica le avances della donna. Subito dopo ecco un'altra delusione: è troppo giovane per noleggiare un'auto. Non demorde. Sempre in compagnia di Michèle, riesce a rubarne una che abbandonerà subito perché dentro c'è un cagnolino. Inaspettatamente il principale ritorna. Marc prende la Porsche e, con la ragazza,
si allena a lungo per il rally. Poi, quando mancano alcune ore all'inizio della corsa, i due giovani vanno in un albergo per dormire un po'.
Quando lei si sveglia trova Marc che guarda sconsolato fuori dalla finestra. Forse, non si è svegliato in tempo, la gara è ormai cominciata. Si volta, lascia la finestra e si avvicina al letto dove c'è Michèle.

Critica (1):Umoristico e disinvolto nello stile, Skolimowski rivela con Il vergine l'inaspettata capacità di adattarsi a un'atmosfera non polacca (il film è infatti girato in Belgio) e denuncia una disponibilità al cambiamento che sembra contraddire le precedenti posizioni artistiche). D'ora in poi, pur senza mai interrompere i contatti con la Polonia, il regista comincerà a disegnare la sua mappa spostandosi con la famiglia, vivendo e girando film in diversi paesi occidentali, prima di approdare (temporaneamente?) in America, nel 1984. Una partenza, la sua, di tipo iniziatico: una fortunata scommessa provocata dalla censura a Mani in alto! che accomuna idealmente Skolimowski ad altri registi e intellettuali dell'Est emigrati in Occidente. Ma è anche un itinerario rimasto sempre come quello dei suoi personaggi, individuale: di un individuo tutto sommato isolato, refrattario a quelle sottili correnti solidaristiche che portano a un'integrazione spesso nostalgica e ti trasformano nell'eterno straniero ovunque. Le radici polacche sono ben visibili nei film, ma non ne costituiscono la caratteristica unica. (...) «Il bello di questa storia è che in nessun momento si prevede questo finale mentre, secondo la logica è il solo possibile. Quando si arriva all'ultima scena, si dice "Certo..."; ma è troppo tardi». L'effetto sorpresa cui fa riferimento Serge Daney (Moins par moins égale plus, «Cahiers du Cinéma», 192, luglio-agosto 1967) è il vero motivo conduttore di un film che si snoda attraverso un'infinita serie di gags e di situazioni paradossali che si ripetono con la velocità delle auto sportive che Marc guida per le strade di Bruxelles e con l'allegra vitalità della sua febbrile smania di vivere (il tic della noce, la guida spericolata in motorino, i sacchetti di carta che fa scoppiare, simbolo dell'eccessiva pressione della realtà).
Il vergine sembra quasi una comica dei tempi del muto: sia per la mimica e la gestualità un po' a scatti dei personaggi (da cui va esclusa la figura di Michèle, più matura e saggia di Marc come quasi sempre le donne dei personaggi di Skolimowski), sia soprattutto per l'accelerazione progressiva impressa alla vicenda dal pretesto iniziale (la voglia di possedere un'auto per la gara). La corsa automobilistica cui Marc non parteciperà è la corsa del film, secondo un disarticolato meccanismo di inseguimento a staffetta: mentre lui insegue le Porsche, queste seguono i loro proprietari; mentre Michèle segue Marc che "rincorre" il modo per dimostrare il proprio valore, quest'ultimo è tallonato dai sentimenti della vita privata che, tentennando, inseguono Michèle.
La folle mania dell'automobile è una variazione del tema della sfida, con la differenza che in questo caso (...) la competizione del protagonista con se stesso è depurata dagli elementi autobiografici e riguarda esclusivamente il desiderio di affermazione di Marc, la sua esigenza di dimostrare che non è solo un apprendista parrucchiere. Egli deve fingere accondiscendenza con il proprietario e le clienti, ma anche, più in generale, con alcuni adulti: i vigili urbani, Paul Delrivière (l'organizzatore del rally), il guardiano dell'esposizione, il direttore dell'autosalone. Mentre, in realtà, dietro la maschera Marc è un ragazzo ambizioso, stizzoso e combattivo ed esprime – esattamente come il polacco Andrzej – forti desideri di approssimativa rivolta individuale: non tanto contro la società nel suo complesso (perché al regista non interessa), ma nella competizione in singoli scontri (la boxe è ancora un'utile presenza) contro tutti gli ostacoli che si frappongono direttamente o involontariamente al raggiungimento dell'obiettivo. L'idea di Marc non tollera barriere. Ma la sua è un'aggressività di attacco quando malmena il collega di lavoro che rinuncia a correre, quando litiga violentemente con l'emigrante italiano in Vespa, quando schiaffeggia l'amico della cliente alla sfilata di costumi da bagno, quando si azzuffa con il falso marajà. È invece un'aggressività di difesa con il rigattiere, con la cliente, con il barman (di fronte al quale si conficca una spilla di sicurezza nella piega del gomito) e poi, sempre nell'ordine, con le Porsche e con Michèle.
Alle auto, per ora, dà più importanza che non alla ragazza. Tuttavia il regista, quando vorrà mostrare i momenti decisivi del loro incontro sentimentale e ottenere la massima concentrazione di verità espressiva, metterà i due o nel chiuso portabagagli di una Cadillac (dove gli schiaffi e le urla sono già delle affettuosità) o, poco dopo questa sequenza, quasi tutta di primi piani, dentro un'auto
apribile che si ricompone girando su se stessa. Oppure, infine, tra le quattro mura della stanza d'albergo dove per amore l'ordine si inverte. Ma prima di arrivare a questo, Marc dovrà inseguire molte auto e solo la sicurezza di averne finalmente una gli farà abbandonare il giocattolo per iniziare, forse, un altro gioco sentimentale con Michèle. L'atmosfera di stravaganza tra il comico e il surreale accompagna l'inseguimento, rivelandosi un'iniziazione all'esperienza (una variante degli itinerari polacchi), alla sconfitta del pudore e della timidezza che rendono il giovane ad un tempo burbero e tenero: aspetto questo che il regista risolve abilmente in un'unica scena, l'ultima.
Tutto è raccontato da uno Skolimowski ventinovenne che vede – con un Jean-Pierre Léaud nella sua prima vera parte da protagonista – il mondo con gli occhi di chi, come l'autore, «forse inconsciamente non è ancora completamente pronto ad affrontare l'età adulta, l'età della maturità, e che tenta, per autodifesa, di rifugiarsi nell'idea abbellita che si fa della propria infanzia, dell'adolescenza» (Intervista, «La Revue du Cinéma», 257, febbraio 1972). Il desiderio di trascinare all'indietro nel tempo le caratteristiche dei personaggi fino a che essi non manifestino più alcun segno particolare, conferma il senso "ritardato" con cui si possono spiegare gli inizi temporalmente "sfuocati" di molti film di Skolimowski (...). Ma è un'illusione, perché nel cinema-sfida del regista questa inconscia aspirazione è meno potente del bisogno di parlare in chiave metaforica e ironica della sua realtà in trasformazione, anche se qui tale urgenza si riveste di "disimpegno" e diventa il trampolino di un nuovo tipo di umorismo: non più subìto dal protagonista, ma indirizzato piuttosto sui personaggi minori.
Le figure dei generici nel Vergine hanno trasognati profili di adulti colti talvolta nel ridicolo e caricaturale lavoro quotidiano, i loro gesti assumono spesso il valore di opposizione al destino del giovane: la portinaia, per mettere il cappottino al cane Oscar (che poi morderà Marc), lo attira con un osso attaccato a una canna; il venditore ambulante che "vende" salsicce alla Porsche attraverso il tubo di scappamento; l'incontro con il famoso pilota di rally si dimostra deludente perché questi, invece di stimolare Marc, lo mette in guardia dalle illusioni; l'uomo in Vespa che prima lo sorpassa e poi gli va a finire sotto le ruote dell'auto; un'anonimo passante gli ritrova la targhetta di iscrizione alla corsa, proprio quando è al culmine dei suoi guai; l'uomo che si siede in un'auto sportiva e viene portato via in barella; il personaggio dell'antiquario-rigattiere (Le dépotoir era il primo titolo originale del film), uno dei primi a favorire il sogno di Marc perché dà parte dei soldi per pagare il deposito.
Oppure, si tratta di luoghi dell'immaginario che producono una sorta di spaesamento. Sonoro, come il romantico leitmotiv del film in contrasto con le dissonanze jazz della musica di Komeda; come il rumore delle auto che scandisce l'intero movimento di Marc nel film; come il finto scoppio dei sacchetti di carta tra la folla. Ma sono soprattutto i luoghi visivi a incidere maggiormente sul tessuto del film: le riprese in dettaglio della carrozzeria della Porsche, i cartelloni pubblicitari delle automobili, il pallone che rotola dalle scale senza un senso apparente, i giochi dei riflessi nello specchio che va in frantumi e che poi si ricompone. Per arrivare alle immagini delle diapositive finali della vita di Michèle: quando prendono fuoco e un po' alla volta consumano, bruciandolo, tutto lo schermo, è come se con esse bruciasse un'idea di cinema, ed esplodesse l'ansia esistenziale del protagonista in una introduzione, ancora una volta "sfuocata" (ma chiara e bianchissima) a Mani in alto! e al suo happening irreale. (...)
Fabrizio Borin, Jerzy Skolimowski, Il Castoro cinema, 1-2/1987

Critica (2):Le départ fu fatto prima di Rece do góry. Nei festival internazionali i miei primi film avevano suscitato un certo interesse da parte della critica e degli stessi produttori stranieri. Mi fu proposto allora di realizzare un film in coproduzione olandese-belga. Doveva trattarsi del progetto di un piccolo film. Io lanciai l'idea di una cosa chiamata «Le dépotoir», ossia «La discarica».
La storiella era questa: in una discarica in Olanda o in Belgio atterra un aliante. Uno che viene dall'Est; ha batturo il record di trasvolata, è sfuggito ai controlli ed è atterrato. Nella discarica c'è anche una ruspa con un operaio ai comandi. E una ragazza. Tre persone. Quello dell'aliante non conosce nessuna lingua (allora mi identificavo con lui). Provano a comunicare a gesti, qualche parola in inglese, qualche altra in francese, addirittura in latino. Fra la ragazza e il pilota dell'aliante si stabilisce un'intesa, il terzo è di troppo.
Uno spunto breve, ma efficace, e i produttori interessati avevano già sborsato una somma. Tornai a Varsavia e cercai di mettere a punto la sceneggiatura con Kostenko. Ma non ci fu verso di spremere da quell'idea più di 40 minuti di film. Con la pièce teatrale da cui nacque Rece do góry, ce l'avevamo fatta nel giro di poche ore, in questo caso non ci riuscimmo nemmeno dopo due settimane. Ai produttori, però, dicemmo che era tutto a posto e che saremmo arrivati la settimana dopo con la sceneggiatura pronta. Partimmo per Bruxelles pensando in realtà a come restituire l'anticipo. Durante il viaggio cominciai a fantasticare che avrei preferito un altro film, su un ragazzo che girava in Porsche. Nacque così l'idea di Le départ. Salendo le scale dissi a Kostenko: «Mettiamola così: abbiamo un'idea migliore, accantoniamo "Le dépotoir" e facciamo un nuovo film!» Invece di restituire l'anticipo spalancammo la porta trionfanti.
Scrivere Le départ fu una sciocchezza. Era la prima sceneggiatura che firmavamo in due. In precedenza, se Andrzej aveva contribuito molto a Bariera e aiutato nella trascrizione tecnica e nella cristallizzazione di Rece do góry, entrambe le idee erano state soltanto mie. Bariera risaliva ai motivi di Pusty obszar che avevo scritto da solo. Invece Le départ fu scritto rigorosamente a due mani a Bruxelles. Nel frattempo scritturai subito gli attori e feci i sopralluoghi. Una successione fulminea. Girammo il film in 20 giorni, mi pare. Per un compenso misero. Il mio onorario – e mi fa ridere giacché tutti parlano di carriere all'estero – ammontava a 4000 dollari. Una somma ridicola che dovevo usare anche per vivere. Con quei soldi riuscii a comprare una Ford Mustang e niente di più. Me la ricomprò in seguito Czeslaw Niemen (un cantante pop polacco). (...)
"Segni particolari", intervista a Jerzy Skolimowski di Jerzy Uszynski, in Jerzy Skolimowski, a cura di Malgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, Lindau, 1996

Critica (3):Le départ è uno dei tentativi più incisivi e flagranti (non oltre la sua leggerezza, ma in essa) di rimettere in moto, di far partire il treno che molto precisamente i Lumière avevano fin dall'inizio allocato in stazione, subito fermo. Non è la macchina che troveremo in Cronenberg, quella di Le départ. Non c'è il movimento dalla macchina metafora umana all'uomo come metafora della macchina (fino al perfetto spettacoloso crash tra le due traiettorie). La velocità, le belle automobili, la possibilità di gareggiare e di partire hanno se mai un'intermittenza da spermatozoo tra euforia vitale e malinconia della fine avvertita nell'attimo stesso che precede il possibile godimento. Rivisto molte volte (come del resto Deep End) nell'anarchico mercato esploso della tv italiana fine anni 70/primi'80, Il vergine sparitomi di vista per più di un decennio temevo facesse fatica a ripartire. Invece, cinema che non ha avuto né il bisogno né la sventura di «fare scuola», ci si para davanti ancora come un Robin Hood che salti da un albero. Uno dei film più jazz della storia del cinema (non solo per la meravigliosa colonna sonora di Komeda, morto in un incidente d'auto - maledizione skolimowskiana o di Polanski, per il quale Komeda compose grandi musiche? - Oh, un'impressione intensa come quella di Le départ, e solo a Londra anni dopo, per divieto ineludibile prima in patria, fu il Repulsion di Polanski, più di qualunque altro suo film... e allora perché cercai di convincere un libraio – avevo 19 anni – a pubblicarmi un libro proprio su Polanski?...), un flaubert schizzato in slapstick, l'invenzione dell'instabilità permanente, quella che ancora oggi lo rende un cineasta imperdibile/imprendibile e eccentriconervoso più di tutto il cinema rappante degli anni '90. Con la faccia già mitica di Léaud che esce a fatica dal maglione nero nella prima folgorante inquadratura. E il bruciarsi di gioventù, senza pietà, e del romanticismo solo l'ironia, nel finale in cui è inequivocabile e doppio il prender fuoco dell'immagine, quella fissa della diapositiva ma anche quella del film che noi crediamo di vedere (e citato forse – da Monte Hellmann o dal suo caso – nel finale di un film a sua volta imperniato – ma con sublime monotonia – sul correre verso zero di auto e velocità, Two-Lane Blacktop). L'età come scottatura, gioventù scottata, fotogrammi bruciati perché il cinema non riesce ad andare troppo veloce (fuoco da frizione...) né troppo lento (fuoco per esposizione eccessiva al calore della lampada), costretto a quell'ingiusto mezzo che almeno lo lascia apparire.
Enrico Ghezzi, “DE/DE depart/deep end (ovvero: un doppio colpo dii dadi non abolirà il caso), in Jerzy Skolimowski, a cura di Malgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, Lindau, 1996

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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