Fascino discreto della borghesia (Il) - Charme discret de la bourgeoisie (Le)
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Regia: | Buñuel Luis |
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Cast e credits: |
Soggetto: Luis Buñuel; sceneggiatura: Luis Buñuel, Jean-Claude Carriere; fotografia: Edmond Richard; montaggio: Helene Plemiannikov; scenografia: Pierre Guliroy; effetti sonori: Luis Buñuel; assistenti alla regia: Pierre Lary, Arnie Gelbart; direttore di produzione: Ully Pickard; interpreti: Stephane Audran (Alice Senechal), Ellen Bahl, Olivier Bauchet, Robert Benoit, Julien Bertheau (Vescovo), Christian Blathauss, Jean-Pierre Cassel (Henri Sénéchal), Jean Degrave, Anne Marie Deschott, Douling (moribondo), Paul Frankeur (François Thévenot), Pierre Lary, Robert Le Beal, Pierre Maguelon (Gendarme), Maxence Mailfort, Maria Gabriella Maione (guerrigliera), François Maistre (il commissario), Damaso Muni (contadina), Bernard Musson (cameriere), Bulle Ogier (Florence), Michel Piccoli (il ministro), Claude Pieplu (il colonnello), Fernando Rey (Don Raphael), Jacques Rispal, Delphine Seyrig(Simone), Diane Vernon, Milena Vukotic (Inés); produzione: Serge Silberman per Greenwich Films - Dear. Coproduzione Greenwich (Parigi) - Dean (Rome); distribuzione: Cineteca Griffith; origine: Francia - Italia - Spagna; 1972; durata:105'. |
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Trama: | Per i borghesi François e Simone Thévenot, la giovane Florence (sorella di Simone) e l'ambasciatore della repubblica di Miranda, Raphaël Acosta, i coniugi Henri e Alice Sénéchal nulla è più difficile che riuscire a cenare insieme: se i primi quattro si recano dai Sénéchal, questi li attendevano per la sera seguente, oppure si sono nascosti per fare all'amore; se vanno in trattoria, è morto il proprietario; se le signore vanno a prendere il thè in un locale pubblico, non viene loro offerta che dell'acqua; se una volta tanto pare che tutto fili liscio, interviene un colonnello con un gruppo di militari a scombinare il pasto; infine, poichè François, Henri e Raphaël spacciano droga, una cena viene interrotta dalla polizia (in seguito, l'intervento di un ministro li fa scarcerare). A un certo punto, ai sei si aggiunge un nuovo personaggio, il vescovo Dufour, che riesce ad ottenere un impiego come giardiniere presso i Sénéchal. Ma ormai tutta la vicenda è diventata ambigua e si mescola ai sogni e alle paure di ognuno (invitati a casa del colonnello si trovano improvvisamente su un palcoscenico a dover recitare una parte che non conoscono) e su tutti incombe un greve senso di morte; o è il prelato che, accorso al capezzale di un vecchio moribondo, il quale confessa di avergli assassinato gli inumani genitori, prima lo assolve e poi lo uccide; oppure il racconto di un militare che ha sognato di aver incontrato la propria madre e alcuni amici defunti; ovvero è l'uccisione del colonnello che ha provocato l'ambasciatore di Miranda; o infine, sempre durante un pasto, l'irruzione di terroristi rivoluzionari che fanno una strage da cui si salva soltanto Raphaël Acosta. Quest'ultimo è un vero incubo e per cacciarlo Raphaël, quando si sveglia, si alza e si mette a mangiare. Ma nonostante tutto, ogni tanto si vedono i nostri protagonisti borghesi camminare per una solitaria strada di campagna. |
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Critica (1): | Come La via lattea non era tanto una critica alla religione quanto un viaggio divertito e persino un po' complice attraverso le sue stranezze e i suoi paradossi, così Il fascino discreto della borghesia non è, o non è soprattutto, la "satira feroce" di una classe sociale e della sua impotenza che uno sguardo facilitante può vedervi. Piuttosto, è un pellegrinaggio dentro di essa, dentro i suoi riti e le sue contraddizioni, ben sapendo che anche qui alla fine non si troverà nessun santo da venerare. Il leit-motiv quasi "extradiegetico" della camminata dei protagonisti per la strada di campagna sembra volerlo avvicinare anche narrativamente a quel viaggio fra le immagini e le credenze religiose di cui - saltando appunto l'"anacronistico" Tristana - esso è la diretta continuazione nella modernità. Anzi, in questo primo film di Buñuel davvero contemporaneo dopo molti anni, si affacciano tutti i temi che ossessioneranno i suoi ultimi anni di cinema e di vita e il suo rapporto con i tempi nuovi. Il terrorismo, innanzitutto, per ora limitato a un conflitto un po' ridicolo fra un ambasciatore di uno Stato immaginario e una bella guerrigliera in trasferta, più desiderabile che temibile. La droga, ma presente anch'essa, più che come problema sociale, come strumento di un gag antistituzionale (l'ambasciatore la importa tramite valigia diplomatica, dentro una sacca di pelle che assomiglia un po' ai soliti sacchi misteriosi buñueliani) o come oggetto di conversazioni salottiere. E vi sono rapide allusioni alla "Bomba", all'inquinamento, all'esplosione demografica, alle rivolte studentesche, al movimento femminista... Ma gli aspetti paradossali della modernità si incarnano soprattutto nella figura del vescovo-giardiniere interpretato da Julien Bertheau, il commissario dì polizia di Gli amanti di domani che in tutti gli ultimi film di Buñuel rappresenta l'autorità religiosa o civile. Dichiarata parodia dei preti-operai, solo su un gradino gerarchicamente e professionalmente più elevato come si conviene all'ambiente del film, monsignor Dufour è l'ultimo dei molti vescovi del cinema di Buñuel: ma anche se per farsi riconoscere come tale deve indossare l'abito talare, col quale poi partecipa a ricevimenti mondani come molti suoi predecessori, porta più volentieri vestiti e grembiule da lavoro, e in ogni caso non lo si vede mai in paramenti liturgici. Anche questo è un segnale dei tempi, in questa nuova Via lattea laica e mondana.
Ma di quel film, soprattutto, Il fascino discreto della borghesia replica sostanzialmente la struttura: una traccia narrativa debole ma regolarmente ripresa per assicurare l'unità - con sei personaggi portanti invece di due soli - su cui si innestano allora episodi più o meno autonomi nei quali i protagonisti si trovano coinvolti e diversamente partecipi. Ma ora, come esemplifica il motivo ricorrente della camminata collettiva, gli episodi si propongono più evidentemente come ripetizioni e variazioni di un tema, esaltando l'aspetto seriale e "strutturalista" (sono gli anni giusti) del film. Non manca un certo sviluppo della storia, poiché i sei protagonisti sono dei veri personaggi e non solo dei tipi o delle funzioni strutturanti (anche nella serie astratta delle camminate essi mostrano una sempre maggiore stanchezza) ma il film si propone soprattutto come un saggio in forma di racconto, un poemetto didascalico, un catalogo di caratteri e comportamenti delle classi egemoni nella società contemporanea.
Il primo tema, il più evidente e il più seguìto al punto da identificarsi con la stessa anima narrativa, è evidentemente quello degli atti o se si vuole dei piatti mancati. Nella serie dei pranzi interrotti, la più ricca di quelle che costituiscono il film, è interessante notare l'accurato dosaggio delle variazioni. La prima volta la cena prevista salta per un equivoco inconsueto ma perfettamente verosimile e che anzi era stato suggerito a Buñuel da un fatto reale: era stato proprio il produttore Silberman a raccontare al regista di una situazione analoga in cui lui stesso si era trovato. Procedendo, le circostanze dei pranzi mancati si fanno sempre più inverosimili, ma anche sempre più stilisticamente motivate. Una veglia funebre nella trattoria, primo marchio di umor nero; il raptus erotico che porta i coniugi Sénéchal a correre ad amarsi e rotolarsi nel giardino, evidente richiamo a L'âge d'or; la mancanza di tè in una sala da tè, o la scoperta che i polli, a casa del colonnello, sono di plastica. Situazioni ai limiti dell'assurdità che avvicinano l'impossibilità di mangiare all'impossibilità di uscire di casa di L'angelo sterminatore.
Oppure le cene sono interrotte da intrusioni inattese e sconcertanti ma tutt'altro che illogiche, e che anzi rivelano rapporti sostanziali di cui infatti - come per le vacche in camera da letto - nessuno si meraviglia. Se arriva l'esercito e si siede a tavola assieme alla borghesia e al clero è solo un ritrovarsi di storici alleati. E se alla fine irrompono in sala da pranzo dei gangster e ammazzano tutti, impedendo di concludere degnamente una cena finalmente iniziata e di cui sono state annunciate le succulente portate, questo è un incubo abbastanza comprensibile, oltre che un buon modo per concludere un film.
Un'altra evoluzione di questa serie di episodi riguarda la presenza materiale del cibo. Si è detto che gli incontri per cenare assieme sono soprattutto dei riti, ma progressivamente l'atto del mangiare diventa sempre più essenziale. La prima volta nemmeno la tavola è apparecchiata, la seconda, nella trattoria di campagna, ci si ferma alla lettura del menù, nella terza tutto pare pronto e gli invitati già danno occhiate ai piatti di portata ("scommetto che è un vol-au-vent alla finanziera"), nella quarta si siedono a tavola ma vengono interrotti, nella quinta si addenta un pollo, ma è finto... E alla fine si comincia a parlare di vera fame, e il bisogno, primordiale del cibo prevale sul rito sociale, tra i naufraghi dell'Angelo sterminatore. Nell'ultimo pranzo interrotto, in mezzo al sangue e ai cadaveri degli amici, don Rafael non può trattenersi dall'addentare comicamente il cosciotto d'agnello di cui prima tanto si era parlato. Che tutto ciò avvenga in un sogno è, in questa prospettiva, indifferente, ma in ogni caso quando si risveglia egli corre al frigorifero e si divora voracemente un arrosto anche nella realtà. Non si gioca col cibo invano.
Il cibo non è però la sola cosa che la realtà continuamente offre e sottrae. Anche il sesso, se non è colto all'istante assecondando gli istinti come fanno i Sénéchal, finisce per sfuggire. Don Rafael si prepara all'incontro amoroso con la raffinatezza e ritualità dell'erotismo borghese: vestaglia di seta, profumo per l'alito, champagne in ghiaccio per accogliere l'amante, proprio come faceva Archibaldo quando attendeva Lavinia, ma tutto ciò non fa che accrescere la successiva frustrazione. E dietro l'eleganza borghese c'è l'orrore: la sua raffinata amante prima di spogliarsi vuole spegnere la luce perché ha una ripugnante malattia. L'impulso erotico di don Rafael non può fermarsi nemmeno davanti alla mortale nemica che vuole assassinarlo, ma ancora una volta il patetico ambasciatore, che tiene una pistola nella zuppiera ma è psicologicamente disarmato, resta all'asciutto.
Ma il principale protagonista degli incontri conviviali, ancor più che il cibo, è la parola. Il cibo stesso deve essere parlato e commentato, è uno dei principali oggetti della conversazione borghese. La presentazione o la discussione sui vari piatti costituisce una sorta di menù complessivo del film che rappresenta la sublimazione di tutte le scene di alimentazione del cinema di Buñuel: caviale, lumache allo chablis, melone al Porto, sardine alla griglia, chenelle di luccio, omelette ai tartufi, faraona al vino bianco, zuppa di verdure, vol-au-vent alla finanziera, gigot d'agnello con fagiolini all'olio d'oliva... Il critico gastronomico del "Figaro" avanzò all'epoca non poche riserve sui vari piatti e il loro abbinamento (anche per motivi stagionali) ma Buñuel probabilmente sapeva di violare qualche regola, e anzi esprimeva volutamente scelte non conformiste (ostriche e pesce col vino rosso).
Sull'isotopia enogastronomica del film la scena più celebre è certamente la discussione sulla preparazione del Martini: argomento che Buñuel considerava tutt'altro che secondario se poi gli avrebbe dedicato ben due pagine della sua autobiografia. D'altra parte il modo per raggiungere la maggiore purezza e secchezza del cocktail è tema controverso, degno di una disputa teologica medievale. Anzi, è un vero punto di incontro fra enologia e religione: come dirà nelle sue memorie, una teoria - a cui egli non aderisce - sostiene che il Martini più secco è quello in cui il gin sia solamente colpito da un raggio di sole che abbia attraversato una bottiglia di vermouth: vera metafisica del cocktail collegabile, osservava Buñuel, al concetto dell'immacolata concezione. In ogni caso, il carattere bizantino e paradossale della cultura borghese resta inaccessibile alle altre classi: un autista chiamato appositamente a darne la prova tracanna un Martini come se fosse una birra, dimostrando la distanza invalicabile fra i due mondi.
Ma nelle molte conversazioni del film si toccano svariati temi cari a Buñuel, oltre a quelli dell'attualità già ricordati. Florence, nella sala da tè, ribadisce il suo odio per il violoncello, lo strumento che già veniva ridotto a legna da ardere in L'angelo sterminatore. Con un altro riferimento a quel film e ai segni massonici che vi si scambiavano, si discute qui dei segni di riconoscimento di gruppi e movimenti politici. Ma anche lo sbrigativo oroscopo che Florence, la più giovane e la più confusa del gruppo, fa alla fine a don Rafael (nato, come ha notato "per primo" Auro Bernardi, nella stessa data e con gli stessi segni zodiacali di Buñuel) più che ricordare un vecchissimo interesse del regista per l'astrologia viene preso in un flusso conversazionale che non può che essere parodistico. Nella linea, insomma, di certe affermazioni del disinvolto diplomatico quali "anch'io sono per l'amore libero" o "sarei socialista se i socialisti credessero in Dio".
E anche le conversazioni salottiere si evolvono, anzi degenerano. In momenti e incontri diversi si discute dello Stato di Miranda, e ogni volta con piccole gaffe sulla sua collocazione geografica e le sue risorse, di cui l'ambasciatore signorilmente non si offende. Finché nel ricevimento dal colonnello i giudizi sul suo Paese diventano sempre più pesanti e imbarazzanti: l'ufficiale sostiene che a Miranda - che non deve essere lontana dal Messico e dal paese di El río y la muerte - ci si ammazza per un nonnulla, e per smentire questa calunniosa affermazione don Rafael estrae la pistola e spara tre colpi al suo ospite.
Diversi dalle conversazioni sono invece i racconti interni, che nascono da situazioni conversazionali ma si sviluppano come episodi a sé stanti e con una loro autonomia anche cinematografica. Il primo è quello del giovane tenente che si presenta alle signore nella sala da tè e senza un motivo plausibile si mette a parlare della sua infanzia infelice. E racconta di quando, dopo la morte della madre, essa gli era ricomparsa in sogno rivelandogli che colui che egli credeva suo padre in realtà aveva ucciso il suo vero genitore in duello e ne aveva preso il posto. La donna gli chiesto di vendicarla col veleno e in effetti, durante un temporale, I' usurpatore aveva bevuto il suo solito latte ed era stato colto da atroci dolori fino a morirne. Un altro militare, un sergente del battaglione capitato a cena dai Sénéchal, prima di andarsene e sempre senza alcun motivo racconta invece un suo sogno, che viene visualizzato in toni lividi e cupi: era morto e aveva incontrato un amico, ricordandosi poi che anche lui era morto da tempo. Successivamente aveva ritrovato una giovane che aveva amato, e che pure era morta. Si erano abbracciati ma poi l'aveva lasciata per cercare un altro amico morto, e la ragazza era scomparsa...
Infine, nel commissariato, due poliziotti rievocano la figura del "brigadiere insanguinato", un gendarme che era solito torturare gli arrestati, come lo si vede fare con un giovane contestatore seviziato con fili elettrici che escono da un pianoforte. Quel brigadiere era stato poi assassinato in una manifestazione politica ma secondo la leggenda il 14 luglio di ogni anno, giorno della sua morte, egli ritornava. E in effetti il fantasma del brigadiere appare, col volto orrendamente coperto di sangue.
Tutti e tre i racconti interni al film, come si vede, sono storie macabre di fantasmi e di morti viventi. In cui ritornano brani dell'immaginario surreale buñueliano: una mano cadaverica, un uomo con un occhio sanguinante, un pianoforte usato come strumento di tortura e per giunta pieno di scarafaggi. I non sollecitati narratori sono prima un tenente di cavalleria, poi un sergente, infine due poliziotti: tutti "servitori" in divisa della borghesia. La borghesia ama raccontare l'orrore, e forse nasconde l'orrore entro di sé, ma le cose non sono così semplici, o sono molto più semplici: l'orrore è lo sfondo della realtà, è quell'oltre il reale che costituisce la surrealtà.
D'altra parte la realtà stessa ne è attraversata. I riti eleganti e discreti della borghesia spesso si trasformano in violenze e sparatorie, Anzi, i soli che nel film non sparano sono i terroristi. Sparano naturalmente i gangster, ma è il loro mestiere ed è il fuoco d'artificio finale. Spara don Rafael, da una finestra, con una carabina di precisione come un vero killer professionista, e colpisce un coniglietto giocattolo, un po' come in altri film di Buñuel si sparava alle farfalle o al figlioletto. Ma l'ambasciatore estrae il revolver e spara anche al ricevimento, per stizza, contro il colonnello. Si sparano cannonate durante la cena a cui egli partecipa. Ma spara anche il vescovo, un colpo di doppietta ben assestato dopo aver dato l'assoluzione al peccatore. L'uomo buñueliano è cacciatore o sparatore, o per lo meno, come don Lope, maestro di duelli. Sparare sulla folla è, come aveva detto Breton, l'atto surrealista più puro.
Per un altro verso i tre racconti macabri sono tutti e tre racconti di sogni. Sognare e narrare rivelano la loro comune matrice e la loro struttura a sorpresa. I sogni del Fascino discreto, secondo una tecnica orma sperimentata, sono sempre percepiti come tali a posteriori, al momento del risveglio, ma ora nuovi elementi rendono più complessa la loro natura. Un racconto può contenere un sogno, ma può anche accadere che un sogno contenga un racconto, o uno spettacolo teatrale, o un altro sogno. Il finale del film è un vero labirinto onirico. Un elemento di un sogno come la feluca di Napoleone che appare nel sogno di un personaggio ritorna identico anche nel sogno successivo fatto da un'altra persona. M quando il vescovo, che con gli abiti già ha fatto sorgere qualche confusione, se lo mette in testa, il gesto serve ad anticipare la scoperta che tutti sono in realtà degli attori. Il dramma in cui scoprono di recitare è il Don Juan Tenorio di Zorrilla, il favorito testo teatrale che il regista ha interpretato e messo in scena più volte per davvero. Ma tutto ciò fa parte di un sogno ulteriore riassumibile così: Thévenot sogna che Sénéchal sognava che erano tutti a una serata che in realtà era uno spettacolo teatrale.. Senza ricorrere alle sottili ambiguità oniriche con cui terminano Bella di giorno e Tristana, Buñuel e Carrière costruiscono un finale inafferrabile fatto a scatole cinesi in cui lo spettatore è sottoposto a una serie di docce fredde e di frustrazioni.
Poiché nessuno resta estraneo al sistema di atti mancati del film, Buñuel esercita malignamente la sua capacità di sottrarre l'oggetto del desiderio anche allo spettatore: quando la terrorista parla il suono di una sirena copre le parole che vorremmo sentire. Quando il commissario chiede al ministro le ragioni per cui deve liberare gli arrestati, un rumore di aereo impedisce di udire la risposta, e anche in altri momenti la sottrazione sonora si ripete, lasciandoci con la nostra fame. Ma questa è solo una spia della serie di domande senza risposta che il film pone, un film fatto di azioni senza meta, di personaggi senza storia. Sull'ultima inquadratura manca persino la parola "Fine".
Nello stesso tempo questa macchina celibe narrativa ha una mirabile fluidità e armonia interna, personaggi e attori si conquistano subito il loro ruolo, i dialoghi brillantissimi e il fascino degli attori anche minori (da non trascurare la comparsa di una nuova adepta della famiglia buñueliana, la sommessa Milena Vukotic) rendono la visione sempre godibile: la definizione di "fascino discreto", che da ora entra nel linguaggio corrente, si adatta prima di tutto al film stesso. Il sistema di controllo video della ripresa, all'epoca abbastanza pionieristico e che Buñuel utilizzava per la prima volta, gli consente di seguire con particolare cura l'aspetto che gli era sempre più piaciuto del lavoro del set, i movimenti e i gesti degli attori, la musica silenziosa del loro comportamento, il loro muoversi nell'inquadratura, appunto, come personaggi di un sogno.
Alberto Farassino, Tutto il cinema di Luis Buñuel, Baldini & Castoldi, 2000 |
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Critica (2): | "Dopo Tristana che sfortunatamente, in Francia, fu presentato doppiato, tornai da Silberman per non lasciarlo più. Ritrovavo Parigi e il mio quartiere di Montparnasse, l'hôtel Aiglon, le mie finestre che davano sul cimitero, le mie colazioni di buon'ora a "La Coupole" o a "La Palette", "La Closerie des Lilas", le passeggiate giornaliere, le serate solitarie in cui quasi sempre durante le riprese di un film mi facevo da mangiare da solo. Mio figlio Jean-Louis vive a Parigi con la famiglia Lavorava spesso insieme con me. Ho già detto a proposito dell'Angelo sterminatore quanto mi attirino le azioni e le parole che si ripetono. Stavamo cercando un pretesto per un'azione ripetitiva, quando Silberman ci raccontò quello che gli era appena successo. Aveva invitato a pranzo delle persone, un martedì per esempio, dimenticando di dirlo alla moglie e dimenticando che quel martedì doveva andare fuori a pranzo lui stesso. Gli invitati arrivarono verso le nove pieni di fiori. Silberman non c'era. Trovarono sua moglie in vestaglia all'oscuro di tutto, che aveva già mangiato e stava per andare a letto.
Questa scena diventò la prima del Fascino discreto della borghesia. Bastava solo andare avanti, immaginare altre situazioni in cui, senza strapazzare troppo la verosimiglianza, un gruppo di amici cerca di pranzare insieme e non ci riesce. Il lavoro fu molto lungo. Abbiamo scritto cinque versioni diverse della sceneggiatura. Bisognava trovare un giusto equilibrio tra la realtà della situazione, che doveva essere logica e quotidiana, e l'accumularsi di ostacoli imprevisti, che però non dovevano mai sembrare fantastici o stravaganti. Ci venne in aiuto il sogno, e perfino il sogno nel sogno. Inoltre sono particolarmente felice di aver potuto dare in quel film la mia ricetta del martini dry.
Bellissimi ricordi della lavorazione: dato che nel film c'era quasi sempre di mezzo il cibo, gli attori, soprattutto Stéphane Audran, ci portavano sul set qualcosa da mangiare e da bere. Ci abituammo a fare una piccola pausa verso le cinque, durante la quale sparivamo tutti per una decina di minuti. Proprio con Il fascino discreto, girato a Parigi nel 1972, ho preso l'abitudine di lavorare con un impianto video. Invecchiando, non avevo più la stessa disinvoltura di una volta per regolare personalmente le varie ripetizioni, prove e simili alla macchiava da presa. Per cui andavo a sedermi davanti a un monitor che mi dava la stessa identica immagine della macchina da presa e correggevo l'inquadratura e i posti degli attori direttamente dalla poltrona. Tecnica che mi ha risparmiato molta fatica e perdita di tempo. Esiste un'abitudine surrealista del titolo per cui bisogna trovare una parola o un gruppo di parole imprviste che diano una nuova visione di un quadro o di un libro. Ho tentato varie volte di applicarla al cinema, in Un chien andalou e L'età dell'oro, naturalmente, ma anche nell'Angelo sterminatore.
Lavorando alla sceneggiatura, non avevamo mai pensato alla borghesia. L'ultima sera – al parador di Toledo, lo stesso giorno in cui mori De Gaulle – decidemmo di trovare un titolo. Uno di quelli che mi erano venuti in mente, sulla falsariga della Carmagnola, sonava: Abbasso Lenin, o La Vergine nella stalla. Un altro, semplicemente: Il fascino della borghesia. Carriere mi fece notare che mancava un aggettivo e tra mille scegliemmo discreto. Ci sembrava che con questo titolo, II fascino discreto della borghesia, il film assumesse un'altra forma e quasi un'altra profondità. Lo si guardava in modo diverso. Un anno dopo, quando il film è nominated, e cioè selezionato per gli Oscar a Hollywood, e noi stiamo già lavorando su un altro progetto, quattro giornalisti messicani che conosco ci rintracciano e vengono a far colazione a El Paular. Mentre mangiamo mi fanno domande, prendono appunti. Naturalmente, scocca la domanda fatidica:
- Pensa di vincere l'Oscar, don Luis?
- Sì - rispondo con aria serissima - ne sono sicuro. Ho già pagato i venticinquemila dollari richiesti. Gli americani hanno dei difetti, ma mantengono sempre la parola. I messicani non ci vedono malizia. Quattro giorni dopo i giornali messicani annunciano che ho comperato l'Oscar per venticinquemila dollari. Scandalo a Los Angeles, un telex dietro l'altro. Silberman arriva a Parigi molto seccato e mi chiede cosa mi ha preso. Gli rispondo che si tratta di uno scherzo innocente. Dopo di che le acque si calmano. Passano tre settimane, il film vince l'Oscar, la qual cosa mi permette di riempire i dintorni ripetendo:
- Gli americani hanno dei difetti, ma mantengono la parola data."
Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi |
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Critica (3): | |
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Critica (4): | |
| Luis Buñuel |
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